BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 29/01/2007

COMUNICARE, PER NASCONDERE CHE NON SAPPIAMO CHE CAVOLO FARE

di Francesco Varanini 

Con dispetto e dispiacere vedo continuamente cadere sulla buccia di banana della comunicazione amici e nemici, minuscole iniziative e grandi imprese.

Mi è capitato negli ultimi anni di osservare da vicino come socio o partner potenziale, o semplice amico diverse stat up. Si partiva forse da un accurato business plan? Si partiva forse da una riflessione sulle strategie? Si partiva magari da un elenco dei clienti 'prospect'? Si partiva più modestamente dal fare un budget? Si partiva forse concretamente dalla ricerca di una sede? Si partiva terra terra dal dire: cominciamo a trovarci una prima committenza, e vediamo come va.

No. Si partiva da un lavoro di progettazione dell''immagine istituzionale', con il coinvolgimento di un grafico creativo certo, ma che non sapeva niente del nostro business, ma eta in compenso cavillosamente attento a colori e iconologia. E che finiva per produrre loghi quasi uguali a modelli sul momento di moda. Si partiva, insomma, dai biglietti da visita.

Biglietti da visita con i bei titoli altisonanti, spesso in inglese, Chief Executive Officer, Vice President, Evangelist, Senior Consultant, Partner, e via dicendo. Ma a chi vogliamo darla a bere?

Sembra quasi che per bilanciare il peso del futuro ignoto, per dare una immagine controllabile al sogno, ci si debba ridurre alla mera immagine. Io dico: la rappresentazione serve, ma deve appunto rappresentare qualcosa. Dietro questi biglietti da visita, invece, niente.

Parlo a ragion veduta, ho controllato ora: nel cassetto ho sette scatoline di lussuosi biglietti da visita inutilizzati. Frutto di progetti partiti con il piede sbagliato. Progetti che così, alla lettera, nonostante la cura dell'apparenza, anzi, proprio a causa di questa inutile cura, restano sogni nel cassetto.

Delusione e dispetto l'altra sera ricevendo una mail. C'è una società che ritengo abbia un enorme potenziale, alla quale sono affezionato, alla quale in un modo o in un altro mi sento appartenente. Ci sarebbe bisogno di una ri-fondazione, o quanto meno di un duro lavoro fatto insieme, per valorizzare un passato, per raccogliere le energie e recuperare entusiasmo, per capire dove andare. E che si fa?

“Con il prezioso aiuto di XXX XXX” (sarebbe il nostro augusto grafico, anzi scusate: consulente d'immagine)“abbiamo aggiornato la corporate identity”. Ora voi potrete pensare che la corporate identity è appunto una riflessione sulla strategia, che coinvolge shareholder e stakeholder, membri dell'organizzazione e illustri amici. Macché, si tratta solo di immagine. Infatti la mail prosegue: “Abbiamo rivisto la nostra immagine e reso coerenti stilisticamente tutte le 'comunicazioni' dirette all'esterno.”

Cioè: non sappiamo che cavolo dire, ma lo diciamo con carta da lettere e buste e fax e biglietti da visita e presentazioni in power point sui quali campeggia un logo -rispetto a prima- un po' più dritto o un po' più storto, con colori un po' diversi.

Tutto questo porta irresistibilmente la mia memoria ad anni lontani, quando lavoravo in una casa editrice di periodici. C'erano problemi rispetto alla coerenza dei contenuti, rispetto alle aspettative dei lettori. E che si faceva? Un bel restyling. La testata un po' rivista, una barra colorata qui, un fondino, le foto un po' più grandi o un po' più piccole. Ecco fatto. Così ci si può illudere di avere messo a posto le cose. Senza aver toccato nulla. Se non quello che non conta nulla.

Perché resto pervicacemente convinto che il pubblico, i nostri clienti, coloro ai quali ci compete rivolgerci e che dovrebbero comprare i nostri servizi, questi sottili e accuratissimi metamessaggi nascosti nel logo, nella grafica; e questi sottili mutamenti di senso impliciti in carattere diversamente colorato o diversamente inclinato – questi sottili mutamenti i nostri clienti neanche li notano. E se li notano li considerano irrilevanti. E se anzi si mettono a pensare, si incazzano, perché viene loro in mente come buttiamo via soldi, e come male indirizziamo la nostra attenzione.

Spesso anzi, siamo legati ad un marchio, ad una immagine. Ce la cambiano con nostro dispiacere, solo perché per chi lavora al marketing ed alla comunicazione ogni tanto è d'uopo farlo. E' d'uopo offrirsi tra operatori del settore lavoro a vicenda, a scapito dei clienti finali, di chi paga poi tutto davvero. Così la Fiat cambia marchio, per tornare a quello di venti o trent'anni fa. Così facendo piangere (li ho visti io) dipendenti e clienti le banche abbandonano tradizionali marchi, che dicono qualcosa, per sostituirli con anodini marchi anglicizzanti.

Certo, ci saranno talvolta motivi per cambiare nome. Ma non per cambiare gratuitamente immagine. Il vuoto resta vuoto anche se ben confezionato.

Ci pensino anche i ragazzi che -illusi da questi cattivi esempi- credono che offra seris bocchi di mercato – e che offra prospettive di lavoro interessante – una laurea in comunicazione. Questa moda, per fortuna, comincia a mostrare la corda.

Qualcuno, non c'era da dubitarne, l'aveva capito prima. Leggiamo questi versi di Montale:

“Comunicare, comunicazione,

parole che se frugo nei miei ricordi

di scuola non appaiono. Parole

inventate più tardi,

quando venne a mancare anche il sospetto

dell'oggetto in questione.”

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