BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 25/09/2007

 

GLI IMMIGRATI COME RISORSA. PER UN MANAGEMENT ITALIANO METICCIATO E MULTIETNICO(1)

di Francesco Varanini

Pochezza
Credo sia evidente a tutti che il management italiano è ripegato su se stesso.
I meccanismi di ricambio funzionano a basso regime: non possiamo negare che, di fatto, ogni anno università e Business School sfornino nuove risorse. Ma resta aperta la domanda: quali sono i meccanismi di riproduzione? Riproduciamo troppo spesso il peggio, il manager finisce di frequente per scegliere collaboratori peggiori di lui, qualcuno che non gli dia ombra e non gli ponga problemi.
Che ce ne facciamo di manager che cercano il quieto vivere, manager cresciuti in un settore, in un ruolo, e rimasti a fare le stesse cose da vent'anni.
Che ce ne facciamo di manager che rispettano alla lettera il rituale di budget e forecast e chiusure trimestrali – ma che fanno finta di dimenticarsi che loro compito è anche innovare, costruire ricchezza futura.
Che ce ne facciamo di manager che considerano importante frequentare corsi di public speaking; manager convinti che il loro miglioramento consista in buona misura nel diventare più bravi ad accompagnare con la propria voce, meglio se con un tono di voce anglicizzante anche quando parlano in italiano, le loro presentazioni in Power Point; manager che imparano da study tour a copiare i manager  stranieri di successo negli aspetti più superficiali e corrivi, il tono di voce, i codici indumentari, l'automobile, l'orologio, il modo di usare il tempo libero e il luogo della seconda casa e le mete dei viaggi.
Che ce ne facciamo – anche – di coach che insegnano loro a fare ciò che altri manager hanno già fatto. Che ce ne facciamo di 'cacciatori di teste' che cercano sempre e solo tra coloro che hanno già fatto quel lavoro, badando all'esperienza ma non al potenziale. 
E se poi c'è qualche persona diversa in giro, qualcuno che ha fatto carriera in modo diverso, o che ragiona in modo differente, ci tranquilliziamo a vicenda dicendoci che è l'eccezione che conferma la regola. Considerando la regola, ogni regola, buona di per sé. Perché la regola deresponsabilizza, attribuisce ad altri – a qualcuno che non sono io – la responsabilità di innovare. Come se il manager innovatore, il manager  di cui c'è bisogno oggi, non dovesse essere capace di guardare oltre la regola. Tanto maturo da acettare il vincolo, tanto libero da vederne i limiti e da mantenere desta l'attenzione a ciò che di diverso, nonostante i vincoli, si può fare. 
Vorremmo, sì, manager non controdipendenti, manager che non attribusicono la colpa degli scarsi risultati al contesto, manager capaci di accettare i i dati di realtà e di muoversi sullo scenario planetario comprendendone regole e vincoli. Ma manager, anche, che non rinunciassero ad un proprio sguardo, alla propria  cultura. Manager che non rimuovessero la propria storia di vita. Manager capaci veramente di 'creare valore'.
Badiamo ad esempio a quello che è probabilmente il maggior vincolo che oggi condiziona la libertà d'azione del manager: l'incombere del mercato finanzario. La pressione della finanza sul business va compresa – ma non per questo è detto che le strategie debbano essere costruire, alla lettera, a partire da ciò che chiede l'investitore finanziario. Lo stesso investitore finanziario, in fondo, si muove così perché è egli stesso vittima dei propri modelli. Anche quando in apparenza impone una forma, cerca in fondo, un risultato. Che sta al manager  comprendere.
Ecco, il manager itialiano, troppo spesso, non è capace di comprendere la differenza tra  domanda apparente e reale aspettativa. Non sa portare alla luce conoscenze tacite e latenti. Non sa legger  tra  le righe. E' privo di strumenti psicologici, sociologici de etnografici. E' carente di quella  cultura di sfondo che è la vera risorsa per affrontare momenti di passaggio, e per vedere per primi ciò che non è ancora  palese. E quando è -per storia personale o per cultura familiare- è dotato di questi strumenti, tende  a nasconderli, de arriva persino a vergognarsene e ad autocensurarsi. Perché il modello di management dal quale si sente giudicato non valorizza, ed anzi punisce atteggiamenti e modalità di azione non conformi al canone.
Eppure continuiamo così, a farci del male.
Assumiamo acriticamente modelli del management  anglosassone, quando quello stesso mondo che ha prodotto quel management considera ormai angusto quel modello. Le nostre Business School sono troppo spesso tardive, non sempre riuscite imitazioni, di scuole altrove allocate. La scuola delle grandi società di consulenza -da noi, sopratutto, la “Scuola Mc Kinsey”- viene assunta acriticamente,
Si contano sulle dita di una mano, forse di due, i manager dotati di una notorietà e di una reputazione spendibili sul mercato globale.
Non costituisce giustificazione un ragionamento comparativo. Può darsi che la situazione sia la stessa in Francia, in Spagna o in Germania o nel Regno Unito, o anche negli States. Non credo, ma anche se così fosse, non è un buon motivo per non fare quello che potremmo, per non fare quello che è certamente alla nostra portata. 
Nè possiamo nasconderci con un giochetto delle tre carte, dicendoci che ormai si deve guardare a mercato del lavoro europeo come un tutt'uno, e quindi i manager francesi, spagnoli, tedeschi o inglesi sono, anche, i nostri manager. A meno che non scegliamo per i nostri figli un futuro di quadri intermedi, schiacciati tra management straniero e mano d'opera immigrata. 

L'esempio dello sport, ovvero cos'è veramente la cultura
E' inevitabile badare al contesto nel quale la crisi del management italiano si manifesta. Il futuro è inevitabilmente, volenti o nolenti, legato all'internazionalizzazione e alla globalizzazione. Che fare? Possiamo forse sperare praticabile un futuro legato alla chiusura e a barriere difensive?
Anche un miglioramento del management italiano non può che essere cercato in questo contesto. Ma non si tratta solo di mandare più giovani italiani all'estero, né di rendere più internazinali i nostri master.
Si tratta di andare verso una cultura multietnica.
Permettetemi dunque un excursus su questo tema. Di qui tornerò a parlare del management italiano.
Un esempio sono le grandi metropoli, dove la multietnia non si legge solo nei volti nella gente per strada, ma anche nei volti dei manager, manager provenienti da culture differenti. Penso a Londra. 
Un altro esempio di cultura multietnica efficace ci viene dal mondo dello sport. 
Così come la scena di sport 'tecnici' – la formula 1, la Coppa America – la scena del calcio mondiale è multietnica, globalizzata, e per questo istruttiva. La Football Legue inglese, la Liga spagnola, il nostro campionato sono esempi di come si può lavorare insieme valorizzando culture diverse. Ciò che voglio qui sottolineare è che l'Inter resta italiana, diversada ogni altra squadra,   e permolti aspetti uguale a se stessa nonostante il turn orver. E questo anche se un solo giocatore italiano fa parte della prima squadra. Ancor più significativo è il caso della nazionale francese. Non solo si ospitano giocatori stranieri – ma si costruisce la propria identità nazionale, la propia gloire, a partire dalla stranieritudine.
Senegalesi, congolesi, magrebini, argentini, martinicani, guadalupani, immigrrati della  prima o della seconda generazione, contribuiscono con la loro diversità culturale alla grandezza della squadra. Il meticciato culturale è di per sé una ricchezza.

Melting Pot
L'esempio dello sport ci mostra dunque come la multietnia non cancella l'identità. La trasforma e la modifica, sì, ma non la nega. Anzi la rafforza. I Blues – la nazionale di calcio francese – è nonostante tuto inconfondibilmente francese, così come non si può negare una identità distintiva inglese alla Football Legue inglese e alla Liga spagnola.
Dunque possiamo dire che il timori di perdere identità non è altro che una difesa, dietro la quale nascondiamo la difficoltà di individuare un modello adeguato a far vivere la nostra identità nel contesto presente.
Valga a spiegare cosa intendo il classico esempio del Melting Pot. O pot pourri, o olla podrida. (Forse non è privo di singificato il fatto che non esista una precisa traduzione italiana: l'espressione parla di un atteggiamento culturale). Immaginate un villaggio, in ognuno – simobolo della casa e della famiglia – un  focolare sempre acceso. Sul focolare una pentola nella quale perennemente cuoce una minestra. Via via, ad ogni pasto, viene tolto il cibo, ma via via vengono aggiunti nuovi ingredienti, frutti della stagione, della raccolta, degli acquisti o della caccia. Nei vari melting pot possono cuocere anche gli stessi ingredienti, nel tempo gni minesta si evolve ma mantiene caratteristiche distintive, un inconfondibile'spirito della casa'.
Dunque sta a noi trovare, portare alla luce un nostro modo peculiare di alimentare il crogiuolo, senza pedere ciò che ci fa differenti – ma senza rinunciare ad ogni tipo di apporto. Sta noi mantenere la confidenza: fiducia nel fatto che non perderemo identità; fiducia nel fatto che ogni apporto è potenzialmente fonte di ricchezza.

La presenza di immigrati come vincolo e come opportunità
Ora, è evidente a tutti come nel crogiuolo che sono le nostre città, le nostre campagne, le nostre abitazioni private, le nostre fabbriche, il ricorso a lavoratori immigrati è comunemente inteso come indispensabile.
Di fronte al fenomeno dell’immigrazione, non mancano politiche di sostegno: accoglienza, facilitazione dell’inserimento nella nostra società civile e nel nostro mercato del lavoro.
Si lasciano però le modalità di inserimento lavorativo alle dinamiche ‘spontanee’ del mercato. Ma la singola persona è però considerata indistinto componente di una massa: mano d'opera destinata ad impieghi marginali: gli immigrati andranno ad occupare i posti che i lavoratori italiani non sono interessati, o disposti, ad occupare.
E questo nonostrante si tratta spesso di persone dotate spesso di eccellente scolarità, in grado di dominare diverse lingue, desiderose di migliorare la propria posizione personale. Alzi la mano chi non conosce qualche laureato, o persona dotata di alto potenziale, costretto a lavorare come badante o fattorino o operaio.
Qui, guardando con rispetto de interesse 'dentro' questa massa apparentemente indistinta, si trovano insomma talenti ora come ora ignorati e trascurati.
Di fronte a questa situazione, vorrei far notare, appare fruttuoso investire sui lavoratori immigrati lavoratori: un approccio strettamente utilitaristico, ma allo stesso tempo ricco di valenze etiche, suggerisce di guardare all’immigrazione in modo diverso. Pensare agli immigrati come forza lavoro naturalmente destinata ai ruoli di operai, fattorini, addetti alle pulizie, badanti e simili, appare uno spreco.

Discriminazione positiva
Dicendo che i lavoratori immigrati sono talenti penso, in consonanza con recenti indirizzi governativi, a lavoratori selezionati nel loro paese di origine. Ma penso anche e soprattutto lavoratori stranieri già presenti nel nostro paese, o già presenti nella nostra stessa azienda.
Lo spazio offerto ai lavoratori immigrati costituirà un significativo passo avanti nel processo di internazionalizzazione. Favorendo la crescita di una multiculturalità interna, si scoprono maniere per offrire servizio –in Italia e all’estero– a clienti appartenenti a culture diverse.
Garantirà un miglioramento dell'organizzazione. Ciò che a chi appartiene a una cultura può apparire come problema di difficile soluzione, appare situazione facilmente affrontabile a chi appartiene ad una diversa cultura.
Ma sopratutto, credo, potremo trovare tra gli immigrati i manager che ci mancano. Manager che hanno scelto di essere italiani, ma che allo stesso tempo non possono rinunciare ad essere anche appartenenti ad un'altra cultura. Manager capaci di pensare e di leggere il mondo attraverso lingue e culture diverse.
Dovremo però evitare di schiacciare questi potenziali talenti negli angusti modelli di management che, come ho ricordato all'inizio, ci penalizzano.
Niente di più facile del costringere queste persone diverse a diventare uguali a noi. Basta sottoporli a un certo tipo di formazione. Basta farli partecipare ai master che – inadeguati epr i nostri giovani, lo sono ancora di più per le persone immigrate. 
Credo perciò si debba metter mano a d azioni di ‘discriminazione positiva’: misure indirizzate ad uno specifico gruppo sociale, gli immigrati in questo caso, al fine compensare oggettivi svantaggi, superando o riducendo una discriminazione già esistente.
I lavoratori immigrati vivono una condizione diversa dai lavoratori italiani. E non c’è peggiore ingiustizia di quella di dare cose uguali a persone che non vivono condizioni uguali.
Quindi penso ad una formazione rivolta agli immigrati – tesa a rendere per loro comprensibile il nostro paese. Ma non per avere lavoratori 'meglio inseriti', il che può anche voler dire  'più rassegnati' a coprire spazi marginali. Penso ad una formazione tesa a far crescere manager immigrati. Master riservati a loro.


1 Articolo già apparso in Release Magazine, 2 (www.releasemagazine.it, www.releaseblog.it)

 

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