BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 06/10/2008

 

FICTION FACTORY. ROMANZI AUTOMATICI, AZIENDE INVISIBILI, AUTORI DEBOLI

di Francesco Varanini

Il giorno in cui fondò la FictFact Corporation, Italo C. si concesse, alla sera, un daiquirí. E si beccò gli sfottò di quegli stessi sodali la cui piaggeria alimentava la sua vanagloria. “Ma come, proprio tu che ti vergogni di essere nato a Santiago de las Vegas celebri la tua nuova vita di imprenditore con una bevanda tipicamente cubana”.
Dove doveva portarlo questa nuova vita, nessuno allora lo sapeva. Forse nemmeno lo stesso Italo C., così restio, del resto, a mostrasi, non solo a finanziatori, clienti, fornitori, ispettori del fisco, ma anche alle amanti nei momenti di abbandono.
Ma ora a noi, duecent'anni dopo quel giorno, risulta tutto più chiaro. Il mistero di Italo C., autore e poi imprenditore di planetaria fortuna, è svelato. Fu un imboscato prima che un partigiano, fu un raccomandato, uno snob scalpitante e rampante, un romanziere corrivo, un critico risentito, un editore con tendenze censorie.
Nel mentre godeva di una certa notorietà, era consapevole di quanto vacillante fosse la sua ispirazione. Ed ecco apparire nel 1972 Le città invisibili, romanzoche due anni dopo sarà finalista alla XXIIIa edizione dell'importantissimo Premio Pozzale per la letteratura. Un'opera meccanica, algida, brutta copia dei giochi oulipiens di Queneau e Perec. Eppure c'era un fascino segreto in quell'opera. Di quel fascino, oggi conosciamo la ragione: l'autore non è Italo C., ma una macchina.
Qui sta la segreta origine della FictFact Corp.: quattro discreti algortimi genetici e un software di tipo neuro-fuzzy sottratti con blandizie a un hacker spiantato; un server con qualche centinaio di giga di memoria; un po' di ram. Italo C., al momento di fondare l'impresa, sapeva quel faceva. Aveva, prima, per lunghi anni sfruttato l'attrezzatura per 'scrivere' i romanzi che pubblicava a suo nome. Così, ora sappiamo, nacquero non solo Le città, ma anche Il castello dei destini incrociati e Se una notte d'inverno.
All'inizio sembrava, forse era, una fabbrichetta, un laboratorio alla buona. Ma presto il progetto si rivelò in tutta la sua ambizione, e il business decollò. Si trattava, né più né meno, di scrivere romanzi da vendere ai loro autori. Si caricavano sulla base dati i testi che l'autore-cliente aveva scritto in gioventù, in quei felici e sognanti anni stendhaliani che perfino il cinico Italo C. confessava di aver vissuto. Poi il software lavorava.
Fu, come si sa, una impresa di enorme successo. Coprì d'oro il fondatore, ma soprattutto lo liberò dalla vergogna. Tutti i romanzi ormai uscivano dalla Fict Fact; e tutti erano livellati in basso, ricondotti ad uno standard di qualità che aveva un primo obiettivo: non far sfigurare i romanzi ed i racconti di Italo C.. Infatti, come è stato dimostrato, il software non lavorava in realtà sui materiali dell'autore, ma -ben taroccato- lavorava su una soglia, una zona d'ombra dove i testi dell'autore-cliente si mischiavano con i  testi di Italo C.. Cosicché la letteratura stessa venne ad essere una enorme glossa, una infinita serie di varianti all'opera del nativo di Santiago de las Vegas.
Accadde così che la FictFact Corp. distrusse la letteratura, e permise a cani e porci di considerarsi -in forza di una facile meccanica- scrittori.
Di qui, come si sa, il movimento letterario dei Cani & Porci. Pur consapevoli della propria pochezza, e anzi rivendicandola, scandalosamente si rifiutarono di usare macchine FictFact (nonostante il loro uso fosse nel frattempo divenuto obbligatorio per legge). Perché, sostenevano, l'estetica dell'imitazione, della conformità al modello, della regola, del puro e vano lavoro combinatorio è una fuga lontano da sé stessi.

 

Nota
Fiction Factory è il mio contributo a un libro uscito da poco.(1) Lo pubblico qui così come l'avevo scritto prima che fosse rifuso in un testo costruito a più mani.  Avendo in mano questo libro, Le Aziende In-Visibili,  riprendo il filo di discorsi  fatti con il suo autore, Marco Minghetti.
Nel parlare di 'mio contributo' ad un'opera di cui è autore un'altra persona, è evidentemente implicito un paradosso. Ma si sa che l'evidenza, ciò che appare chiaramente visibile, nasconde verità più profonde. Chi è l'autore, in fondo?
 E l'autore è una figura convenzionale che si è manifestata in modi via via diversi, nel corso della storia della produzione artistica, e più nello specifico nel corso della storia della 'letteratura scritta'.
Ogni 'autore' interviene su una letteratura preesistente, aggiunge qualcosa, rielabora, rimaneggia. Anche lì dove magari si illude di aver scritto qualcosa di nuovo, è senza saperlo ritornato in luoghi già vistati. Temi già trattati. Parole già usate. Usa materiali 'tradizionali': “ Tradizione (...) è la trasmissione di conoscenze e pratiche di interessi sociale o collettivi (...) fatta in tutto o in gran parte oralmente, dai vecchi ai giovani, di generazione in generazione”,(2) scriveva  Ramón Menéndez Pidal.
La letteratura, così, appare niente più che un caso particolare  di quel coacervo di saperi che chiamiamo Knowledge. Scrivere un testo, pubblicarlo sotto forma di libro, non è che una  operazione di Knowledge Maanagement.
L'eventuale valore artistico, poetico, dell'opera, infatti, come ci hanno mostrato i formalisti, sta nell'opera – nel risultato del lavoro. Non nel materiale usato, né tanto meno nella mente dell'autore.
Sostengo quindi l'idea di un'autore 'debole', un autore consapevole del fatto di essere niente di più di un rimaneggiatore.
Eppure penso che una persona, nel momento in cui si accinge a scrivere -proprio perché consapevole della difficoltà, forse dell'impossibilità, di dire qualcosa di nuovo- dovrebbe sfidare se stesso, cercando di portare alla luce il valore aggiunto, sia pur minimo, che può nascere dal suo pensiero. E vorrei che ogni lettore sapesse cogliere la cifra di originalità di un autore, apprezzasse gli autori che mostrano qualche sia pur lieve differenza.
Il mio testo che forse avete appena letto parla di questo. Perché considero Italo Calvino un deprecabile esempio di autore che non dice nulla di nuovo, autore che costruisce la propria fama sul luogo comune, sull'imitazione. Credo si possano salvare solo alcune opere giovanili. Tutta la produzione del Calvino più noto non è che una rimasticatura di lavori svolti meglio da Borges, o da Perec o da Queneau. Opere scritte da una macchina, insomma, uscite dalla FictFact.
Mi spiace che tanti lettori e tanti critici piglino queste opere per originali: è comodo studiare opere così meccaniche: come i filologi che invece di esprimere una opinione sulla genesi di un testo si nascondono dietro l'accanita ricostruzione del sistema delle varianti, qui il critico ha buon gioco nel ragionare sul meccanismo, perdendo di vista sia l'operazione che l'autore. E il lettore ha buon gioco nel pensare di aver letto un'opera raffinatissima, quando invece non è che un freddo gioco di citazioni, privo di qualsiasi originalità, ben adagiate nel Mainstream, il grande fiume delle opere considerate degne di stampa e di recensione e di elogio e di chiacchiera letteraria. (3)
Torno al libro di Marco Minghetti. Si capirà, a questo punto, che mi interessa poco, e mi sembra gratuito, un gioco attorno alle Città invisibili di Calvino. Il meccanismo dell'opera permette di cercare raffinati giochi combinatori. Non solo sostituire alle città invisibili di Calvino 'aziende invisibili', ma anche montare i testi alla maniera della Rayeula di Cortázar, cercare corrispondenze negli esagrammi dell'I Ching, come nell'Uomo nell'alto castello di Philip Dick. Così come disprezzo le Città invisibili, condivido invece con Marco l'amore per Rayuela e per il l'Uomo nell'alto castello, per La vita istruzioni per l'uso di Perec. Opere appunto dove, se non altro, l'autore cerca una via originale, opere che ancora oggi ci risultano diverse dalle altre.
Ma c'è di più. Invece di un'opera che si mette in scia, invece di un'opera che cerca vantaggio nel richiamo all'opera di Calvino, avrei voluto leggere un'opera dove Marco Minghetti mette in gioco Marco Minghetti. Siamo tutti autori deboli, certo, ma ognuno di noi ha qualcosa da dire, qualcosa legato alla propria storia personale, alla propria cultura, all'etica e ai desideri e al carattere. Perché non provare a tirarlo fuori? Borges, Dick, Perec,  Cortázar, adottano una cifra personale che Calvino non seppe mai portare alla luce. Mi piacerebbe conoscere di più della cifra personale di Marco.
Invece molto si perde, anche nella sua introduzione, nella descrizione del gioco e delle sue regole, nel mare di citazioni.
Così mi pare appaia in buona misura occultato, soffocato dall'attenzione rivolta ai giochi combinatori, uno degli aspetti peculiari del libro. E' un romanzo, sì, ma anche un romanzo che pone al centro della narrazione una riflessioni sulla vita delle aziende, sui modelli di impresa, sui luoghi dell'organizzazione. Molte acute riflessioni su questi temi sono contenute nel romanzo, ma non esiste nessun sommario, nessun indice di argomenti e cose notevoli che permetta di navigarvi attraverso.
Ho lasciato per ultimo, ma solo per sottolinearne la centralità, uno degli aspetti peculiari dell'opera.
Scrive Marco Minghetti all'inizio: “Le Aziende In-Visibili. Il romanzo costituisce un'applicazione letteraria di una piattaforma per la generazione di percorsi narrativi”.(4) Condivido sperimentazioni di questo tipo. E la Living Mutants Society -così chiama Minghetti il gruppo di autori che hanno scritto i diversi episodi che compongono l'opera- comprende nomi davvero interessanti. Credo sia importante portare avanti sperimentazioni siffatte. E ammetto che, per rendere fattibile l'esperimento, può essere utile porsi dei limiti, e quindi anche imporre ai diversi autori, come a-priori, un sistema di vincoli, ovvero il rispetto della struttura delle Città invisibili di Calvino. 
L'accento mi pare così posto, giustamente, sull'opera collettiva. Anche in presenza dell'opera collettiva, il ruolo, diverso dagli altri, di Marco Minghetti -promotore e regista- giustifica in nome in copertina.
Trovo però ingiustificato che i nomi degli autori non appaiano nella colonna che compare all'inizio di ogni capitolo. Colonna ricca di citazioni, riferimenti musicali, immagini,  collocazioni nell'astrogramma, esplicitazioni dell'esagramma. Tutto fuorché il nome di chi ha contribuito a scrivere quelle pagine. Per saperlo, il lettore è però costretto ad un faticoso lavoro a ritroso. Deve andare al capitolo finale Il Who in who della Living Mutants Society, e leggersi tutte le schede degli autori, perché solo lì trova menzione del capitolo al quale ognuno ha collaborato.
Insomma, delle due l'una. O si tratta di un lavoro collettivo, dove si sceglie di rendere invisibile il contributo di ognuno; ma allora non si svela quello che ognuno ha scritto nemmeno nella scheda di presentazione. O si espone chiaramente al lettore la tavola dei contributi. Provo nostalgia per gli indici e sommari, gli apparati, chiari, utili a muoversi all'interno del testo che accompagnano, per esempio, La vita: istruzioni per l'uso di Perec.


1- Marco Minghetti & The Living Mutants Society, Le Aziende In-Visibili, con 190 immagini di Luigi Serafini,  Scheiwiller, 2008.

2 - Ramón Menéndez Pidal, Poesía juglaresca y orígenes de las literaturas románicas, Madrid, 1957, p. 364. (Sesta ed ultima ed. di Poesía juglaresca y juglares, Madrid, 1924).

3 - Francesco Varanini, Di Calvino tra cent'anni per me non si ricorda nessuno, http://www.eseresi.it/calvino/calvino2.htm

4 - P. 11.

Pagina precedente

Indice dei contributi