BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 25/05/2009

 

DOPO IL MANAGEMENT. OBSOLESCENZA DEL MANAGER E NUOVE FIGURE EMERGENTI

di Francesco Varanini

Faccio seguito ai due ultimi Contributi pubblicati: Prandato, Avvelenata, e Gaiarin, Che ci faccio qui?.
Io più di tutti posso chiedermi cosa ci faccio qui su Bloom! Questa è la 459 volta che aggiorno il nostro sito (con l'indispensabile aiuto di Maurizio Carrer). Dal lontano 03/11/1998 di tempo ne è passato.
Capisco che qualcuno si sia stufato di scrivere, o sia passato a scrivere altrove. Del resto si possono benissimo pubblicare su Bloom! cose pubblicate anche altrove (non a caso da Bloom! è nata la rivista cartacea Persone & Conoscenze. Confortato dai visitatori che il sito ha, e al di là di tutto confortato dalle mie convinzioni, non demordo. 
Su Bloom! o altrove, il tema che propongo credo sia meritevole di commenti e dibattito.

- Brevissima storia delle origini
- Storia recente
- Risposte a una crisi, ottanta anni fa
- Inutilità del controllo, emergenza di un diverso paradigma
- Qualche passo indietro per fare un passo avanti
- Tracce della figura emergente: dirigere, governare, cucire il canto
- Altre tracce della figura emergente: conoscere e coordinare
- Valore e responsabilità sociale
- 'Governance'
- Allargare lo sguardo

Diamo per scontata l'esistenza dei manager e del management. Ma credo che prendendo per buono questo ruolo, così come appare definito da Business School e consulenza, stiamo sbagliando.
Il momento economico e sociale che stiamo vivendo ci impone di guardare oltre, e allo stesso tempo ci aiuta a guardare oltre. Se non ci interroghiamo su questi temi adesso -in un momento in cui, tutti dicono, il cambiamento è necessario- quando mai lo faremo.
Possiamo anche fare un albo dei manager, proporre l'iscrizione a un qualche registro professionale, possiamo sottolineare l'importanza, in questo momento, delle organizzazioni di categoria. Possiamo ritrovarci tra di noi, in assemblee, in associazioni, in club, in lobby. Possiamo prendere in considerazione l'opinione di chi propone stretti criteri di eleggibilità e percorsi formativi più rigidi.
Io credo però che chiudersi a riccio non serva a nulla, e che anzi l'assumere atteggiamenti difensivi sia il contrario di quello che ha senso fare oggi. In un momento in cui, si dice, bisogna cambiare, importa poco se un manager è, per competenze e per comportamenti, più o meno vicino agli standard consolidati. Importa poco, perché ho il sospetto che quegli standard, che potevano forse fino ad ieri costituire un solido punto di riferimento, oggi appaiono obsoleti e fuorvianti.
Dovremmo quindi sgombrare la mente da dettagli e da consuetudini. Dovremmo mettere in dubbio i modelli che diamo per scontati. Dovremmo allargare lo sguardo, e chiederci quale figura può oggi e domani convenientemente guidare le organizzazioni nel periglioso mare che ci circonda.

Brevissima storia delle origini
Nel 1526 lo storico e cronista veneziano Martin Sanudo usa l’espressione maneggio con particolare precisione, nel senso di ‘amministrazione’, ‘direzione, ‘governo’.
Il maneggio dei cavalli è arte e organizzazione fondamentale in quei tempi. Per questa via l'espressione si afferma in inglese. Sir Henry Savile, traducendo Tacito, nel 1581, parla di “whole manage of affaires”. E Shakespeare: “Lorenso, I commit in your hands the husbandry and manage of my house”, “Lorenzo, affido nelle vostre mani la direzione e il governo della mia casa” (Il Mercante di Venezia, 3,4).
Ma per lunghi secoli ancora prevarranno, rispetto al management, l'amministrazione e l'impresa.
Amministrazione: ricordiamo l'originaria attribuzione di questi compiti alla servitù: il secretarius, ‘sacrestano’, ‘confidente’. E ‘cancelliere’: che è, alla lettera, l’usciere che sta sulla porta che separa il pubblico dal luogo dove stanno i giudici, o il principe. E il minister, che è in origine il ‘servitore’ (non importa che il minister sia particolarmente dotato: anzi, proprio per i suoi limiti, minus ter,  minore tra i due, si oppone al magister). Figure tutte delegate ad agire da una persona investita di autorità.
Impresa: nel 1600, in francese, entreprise assume chiaramente il senso di ‘opération de commerce’, e si prende a chiamare entrepreneur la ‘persona che si incarica dell’esecuzione di un lavoro’. Entreprenueur arriva pari pari in inglese 1800, quando anche da noi si inizia a usare con precisione imprenditore: “chi imprende lavori a fare per altri a compenso pattuito, ci guadagni o ci perda” (Niccolò Tommaseo).

Storia recente
Il management, così come lo conosciamo, nasce grosso modo nella seconda metà del 1800 e si afferma all'inizio del 1900, con le le grandi fabbriche. Il management è essenzialmente, in origine, organizzazione del lavoro in fabbrica, organizzazione della produzione.
Frederick W. Taylor pubblica The Principles of Scientific Management nel 1911. Il fordismo costruisce attorno all'idea dell'organizzazione scientifica del lavoro la nuova fabbrica; ed allo stesso tempo esporta il modello al di là dalla fabbrica. L'organizzazione abbraccia l'intero ciclo produttivo, dalle materie prime ai magazzini dei prodotti finiti ed alle reti distributive. Abbraccia anche l'organizzazione della vita personale di ogni lavoratore. Produzione e riproduzione delle risorse umane: abitazione, istruzione, famiglia, tempo libero. Tutto ruota attorno alla fabbrica. Il modello della fabbrica abbraccia la vita.
Il manager è in questa fase un ingegnere che detta tempi e metodi. E che quindi controlla.
La crisi degli Anni Trenta è frutto dell'inefficacia dei modelli organizzativi ingegneristici, meccanici, lineari. La pressione delle masse sociali, così come la complessità delle organizzazioni produttive, ormai di enormi dimensioni, non possono essere gestite da ingegneri.
Con gli anni Trenta entrano in gioco, nella gestione delle organizzazioni, sociologi, etnografi, psicologi, economisti. Il 'fattore umano' esige attenzione. Nascono le Direzioni del Personale. Si deve trattare con le organizzazioni sindacali, si deve cercare e garantire il consenso.

Risposte a una crisi, ottanta  anni fa
Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, 1936: la risposta alla crisi sta nel mantenere in equilibrio sistemi complessi, garantendo consenso, e una ragionevole equità. Di qui nasce la figura del nuovo manager, pragmatico: la stessa figura, nota Keynes, emerge negli States con il New Deal, nel Regno Unito con il governo di unità nazionale, in Italia con il corporativismo e le partecipazioni statali. (in Italia il caso esemplare è Beneduce).
La Managerial Revolution di Burnham (1941), pone al centro della scena il nuovo manager, non più solo ingegnere, formato in modo multidisciplinare, economista e in qualche modo psicologo e sociologo. E sempre meno ingegnere. La Teoria generale dei sistemi di Ludwig von Bertalanffy e la Cibernetica di Wiener (da cui l'Informatica), la Gestalt e l'immagine del Gatekeeper di Lewin,  vengono alla luce in quegli stessi anni nel crogiolo delle Macy Conferences: neurofisiologia, filosofia, matematica, etnografia.
General Theory di di Keynes e General Theory di Bertalanffy, Cibernetica, Psicologia della Gestalt, e poi Informatica: gli strumenti per studiare e gestire  i sistemi diventano più sofisticati.
Ora non si tratta più del controllo meccanico e ingegneristico di Taylor e Ford, ora il controllo è 'dinamico', tiene conto del modo di essere dei sistemi viventi, è 'sociale': usa mezzi di comunicazione di massa.
Pianificazione e Programmazione e Project Management si pongono l'obiettivo di controllare il futuro. Relazioni Umane e meccanismi di delega costituiscono un allentamento del controllo funzionale al mantenimento del controllo.
Ma al centro, come modalità di gestione, resta il controllo. Il management si fonda sul controllo. Tutto è già detto nel sottotitolo del libro di Norbert Wiener: Cybernetics: Or Control and Communication in the Animal and the Machine (1948).
Obiettivo, mantenere le variabili in un range di normalità. Controllare le varianze. Budget, forecast, accounting.
Così è il management come lo conosciamo ancora oggi, già ben addentro il Ventunesimo Secolo. 

Inutilità del controllo, emergenza di un diverso paradigma
Si abusa delle parole e si sviliscono i concetti. E bisogna rifuggire dalle semplificazioni. Ma è vero, credo, che ci è stata a lungo sufficiente una idea di sistemi 'meccanico' e lineare, in fondo solide macchine, dove il tutto è la somma della parti, un sistema che può essere regolato così come si regola un orologio. Oggi invece ci rendiamo conto che, per leggere il mondo che abbiamo sotto gli occhi, dobbiamo pensare a sistemi complessi, in continuo adattamento. Sistemi delicatissimi, soggetti a repentini radicali cambiamenti. Anche se ci limitiamo ad osservare, stiamo interagendo con il sistema.
L'atteggiamento dell'ingegnere, del tecnico taylorista e fordista, non è più sufficiente a garantire il controllo. Keynes e Bertalanffy e Wiener cercavano nuove forme di controllo. Ma non sta qui il passaggio chiave.
Il passaggio sta nell'abbandonare l'idea del controllo.
Dal mio punto di vista, l'esempio migliore della situazione in cui viviamo: crisi del paradigma del controllo, e quindi esigenza di nuovi strumenti, di nuovo management, lo trovo nel mondo dell'informatica. L'informatica si è retta, a partire dagli esordi, sull'idea della strutturazione dei dati. E' considerato imprescindibile un modello dei dati, definito a priori -quali dati conservare, quale rete di relazione tra dato e dato-. Così si conservano e si rendono disponbili poche informazioni che si pretendono 'certe'. Qui il controllo è portato all'estremo grado.
Ma poi la massa dei dati accumulati ha raggiunto tali dimensioni da rendere inefficace il controllo. E del resto le domande di chi, governando il business e guidando le persone, ha bisogno di sapere veramente come vanno le cose, vanno sempre oltre ciò che è previsto dal modello. Perciò chi si occupava prima di Data Model si occupa ora di Data Mining, o di Business Intelligence che dir si voglia. Contemporaneamente, è cresciuta enormemente la massa di conoscenze per nulla strutturate, conservate per esempio sotto forma di testo. Cresce la massa di conoscenze, perché cresce la possibilità di recuperarle efficacemente: tramite un motore di ricerca, si trova con buona approssimazione quello che serve, quando serve.
Insomma, per chi governa il business e guida le persone conta sempre meno controllare, e conta all'opposto sempre di più trovare risposte, certo imperfette, ma utili per cogliere i trend.
Lo ripeto: il management-modello-consolidato si fonda a tutt'oggi sul controllo. Ma quello che serve oggi non è controllare, è muoversi nell'incertezza. Qualcuno può dirmi che non dico cosse nuove. Certo di complessità e incertezza e di preminenza delle azioni orientate a conoscere e di cammino a zig zag, per tentativi ed errori, certo di tutto questo si parla da anni. Ma si tentava di importare qualche germe di diversità nel consolidato paradigma orientato al controllo. Mente ora, di fronte ad una crisi che dobbiamo considerare salutare, ci è data la possibilità di veder emergere un nuovo paradigma.

Qualche passo indietro per fare un passo avanti
Le macchine, come sempre, nascono nella mente dei loro produttori: l'idea del controllo si lega all'idea di massa. Operai massa, indistinta forza lavoro, trovano scientificamente organizzata la vita, in ogni suo attimo, dal tempo di lavoro al tempo destinato al consumo e alla riproduzione. Uno stesso modello presiede al management, nella sua versione originaria, e alle dittature degli Anni Trenta. Uno stesso modello presiede alla fabbrica taylorista e fordista e ai lager. In qualche piccola misura il management degli Anni Trenta tiene conto della persona. Eppure la persona non è mai al centro.
Ma a partire dagli anni Dieci del Ventesimo secolo era tornata  centrale -basta qui l'esempio di Husserl- l'idea di persona umana, individuale espressione della vita, la centralità dell'individuo, la presenza carnale del corpo, la diversità tra l'uno e l'altro. Le stesse scienze 'dure' devono tenerne conto: l'osservatore influisce sempre sull'oggetto di indagine. A maggior motivo deve tenerne conto la sociologia delle organizzazioni. Si parla dunque di ruoli, di team, di spazi di autonomia.
Negli anni '40 del secolo scorso, il filone 'sistemico' e il filone 'fenomenologico' si mischiano nello stesso crogiolo.
Da quel crogiolo di saperi interdisciplinari -Macy Conferences- nacque la Cibernetica, e quindi l'Informatica orientata alla strutturazione dei dati e al controllo. Così si apre la strada  al Data Base, al Mainframe, all'informazione che è considerata 'vera' perché è assoggettata ad una transazione che impedisci entri in circolazione tutto ciò che non è previsto dal modello, dal pensiero unico. La  Computer Science, per questa via, sfocia nell'Intelligenza Artificiale: massima manifestazioni del controllo, perché all'inaffidabile uomo sostituisco una macchina che tutto controlla – una macchina che è controllata a priori dai suoi costruttori. Non è fuori luogo qui ricordare le fabbriche  automatizzate e robotizzate. Non è fuori luogo ricordare i software -esempio classico il padre di tutti gli ERP, il Sap- pensati per controllare l'azienda, concepita come un totalizzante sistema integrato.
Ma, da quello stesso crogiolo di saperi interdisciplinari, vengono a noi modelli organizzativi e di direzione 'dalla parte di Husserl', fondati sulla centralità e sull'autonomia della persona. Potremmo pensare alla scuola di Tavistock. E in un ambito solo apparentemente lontano quel filone della Computer Science che porta, negli Anni Sessanta del secolo scorso, al Personal Computer e a Internet e  a Web. Il Personal Computer inteso come espansione della mente umana, protesi della persona che incrementa la sua libertà. Internet come rete che nega la possibilità del controllo centrale. Il Web, dove la conoscenza scambiata da produttori e consumatori sfugge al controllo.

Tracce della figura emergente: dirigere, governare, cucire il canto
Una traccia di figura emergente la ritrovo in parole note. Dirigere: dis ‘di qua e di là’ regere ‘condurre’. Il dirigibile è diverso da un aeroplano. La  macchina più pesante dall'aria è scarsamente soggetta a venti e intemperie; va in linea retta, si costruisce una rotta astratta, nel vuoto.
Governare, e già il latino gubernare, stanno per ‘reggere il timone’. Analogo il senso del greco kybernan (da cui Wiener deriva Cybernetics). Ma qui, lungi dal vedere continuità, possiamo cogliere la differenza: la via indicata dalla cibernetica, che si propone come 'scienza esatta', è opposta alla via evocata dalla figura di chi, manovrando il gubernaculum, 'timone' cerca, nonostante l'ambiente avverso e i difetti dell'imbarcazione, di tenere la rotta.
Un'altra traccia la ritrovo nella figura del rapsódo. Greco rhapsoidós: rhapto 'cucio insieme', oidé, canto. 'Colui che cuce il canto'. Potremmo dire anche il bardo, il cantastorie. Se proprio si deve ricorrere all'inglese, cosa che preferirei evitare, lo storyteller. Lo storytelling è oggetto di una moda che ritengo superficiale. Ma non si può negare che le organizzazioni possano essere osservate come una rete di storie. Si può quindi affermare che solo cucendo le storie individuali si può reggere una organizzazione.
La figura del rapsódo, dunque, rimanda agli aspetti immateriali dell'organizzazione. E rimanda anche alle reti sociali, reti fatte di legami deboli, legami diversi sovrapposti. Il governo non si manifesta attraverso la gerarchia, ma attraverso la comprensione di ciò che è tacito, e attraverso il coordinamento.
Nei comportamenti pratici, quotidiani, dei migliori manager che conosco trovo diverse tracce di comportamenti del tipo del timoniere e di comportamenti del tipo del rapsódo.
Invece, al di là delle tante parole per lo più vuote spese a proposito di soft skill, trovo lontani da queste pratiche gli insegnamenti impartiti nelle Business School, e in genere, direi, nella formazione di cui ho notizia.  Lì -dietro qualche spennellata di 'delega', 'teamworking', leadership diffusa'- si continua ad insegnare la disciplina e l'inevitabilità di un modello. Lì si continua a puntare quasi tutto sulla pianificazione e sul controllo.
La Business School, del resto non è che una variante del modello-scuola. Ed è il modello-scuola, fondato sul programma e sulla separazione dei ruoli docente-discente, fondato su conoscenze 'già date' e impacchettate, ad apparire superato dai tempi. 
La forma dei master, l'idea del piano di studi , il catalogo dei corsi di formazione, l'illusoria immagine del pacchetto standard di conoscenze manageriali, si oppongono al 'navigare a vista'. Chi naviga a vista impara facendo, per tentativi ed errori, contaminando il 'lavoro' con la 'vita privata'. Chi naviga a vista sa quello che serve sapere ora. Chi naviga a vista impara anche da solo. Si nutre di letture, non di lezioni.

Altre tracce della figura emergente: conoscere e coordinare
Se l'impresa è innanzitutto -come credo che sia- rete di conoscenze, il nuovo manager è un knowledge manager. Non colui che ha, in partenza, più conoscenze. Le conoscenze sono una risorsa sociale, disponibile in rete, la capacità chiave sta nel portarle alla luce. Serve qualcuno capace di convocare le conoscenze necessarie nel momento e nel luogo in cui servono.
Altra figura che dà spunto per riflessioni interessanti è il Project Manager. La nuova figura emergente mi appare, in buona misura, un Project Manager: lavora per progetti; costruisce organizzazioni temporanee, strettamente legate ad uno scopo; mantiene al centro dell'attenzione i rapporti con gli stakeholders – che sono rinegoziati momento dopo momento. E' una figura lontana dall'immagine del capo.
L' immagine del capo rimanda alla testa: il capo è l'unico che sta in testa, ma poi si finisce per intendere che è anche l'unico a cui si chiede di avere testa. Il Project Manager non ha nessuna autorità gerarchica, non è superiore, non ha l'autorità di delegare. Ma gli compete tenere unito il gruppo. Gli compete raggiungere il risultato.
Lontano dall'immagine del capo, semmai il Project Manager si avvicina alla figura del leader,   'colui che guida le danze'.
Come il Project manager, questa figura emergente di cui ci manca il nome non sta ne più in alto né davanti, né necessariamente sotto la luce dei riflettori.

Valore e responsabilità sociale
Ulteriore importante differenza: il 'vecchio' manager rispondeva in termini gerarchici a poche persone che 'stanno sopra'. Mentre la figura emergente, questo post-manager per definire il quale ci manca anche la parola, ci appare chiamata a rispondere a molti individui che stanno intorno.
Sopra sta il 'padrone', o quella versione moderna del padrone -in un quadro di proprietà diffusa, in un contesto di public company- che conosciamo come shareholder. La responsabilità del manager si riassume, alla fin fine, nell'aver soddisfatto le aspettative degli shareholder.
Il manager finisce per soffrire (ma allo stesso tempo per giovarsi) di una sempre più palese carenza delle metriche. Gli shareholder sono detentori di 'quote di valore'. Ma siamo capaci di rilevare e misurare in modo condiviso e standardizzato un solo tipo di valore, un solo a aspetto del valore: rileviamo e misuriamo il valore in denaro che si manifesta all'atto della transazione. Qui agisce ancora, direi, il vizio del controllo. Crediamo indispensabili metriche assoggettabili a un controllo, come lo è appunto il controllo contabile. Su questo altare rinunciamo a rilevare e misurare altrimenti il valore. Misera, vaga cosa sono a tutt'oggi i Balanced Scorecard e i Bilanci Sociali. Hanno buon gioco i manager a pensare che non contino nulla.
E' evidente che invece la figura emergente è portatrice di una 'responsabilità sociale'. E' responsabile di fonte a diversi portatori di interessi (se piace, chiamiamoli pure stakeholder): le persone al lavoro, che chiedono difesa del lavoro e giusta remunerazione; i clienti; i fornitori; l'ambiente geopolitico, socioeconomico nel quale vive l'organismo impresa. Sono portatori di interessi anche le persone non nate, il sistema ecologico.
Ora, solo guardando a questo aspetto si può mettere a fuoco in modo attuale ed incisivo la vexata quaestio relativa alla remunerazione dei manager. Se l'unico 'valore' prodotto dal manager, valore universalmente riconosciuto e misurato, è il valore in denaro prodotto per gli shareholder, saranno loro alla fin fine a decidere la retribuzione del manager. Se la nuova figura risponde invece a diversi portatori di interessi, dovranno essere loro a remunerare  questo 'dirigente che, navigando a vista, ha saputo tenere conto di interessi diversi, spesso divergenti tra di loro.

'Governance'
Scrivo 'Governance' tra virgolette perché a ben guardare risulta  ridicolo il ricorso al termine inglese. Nella sostanza però il termine è adeguato: per via del'implicito riferimento al governo, faticoso e sempre provvisorio tentativo di tenere la rotta.
(Non è un caso che si parli di governo quando si intende la guida di paesi, stati e nazioni: lì il modello del rigoroso controllo formalizzato che si vorrebbe tipico delle imprese è considerato in partenza impraticabile: se c'è rigidità e controllo paragonabile a quello delle imprese private, lo si chiama 'dittatura'. Il che ci porta a dire che il ruolo emergente è per sua natura 'democratico' o per dirla altrimenti 'debole').
Credo si possa dire che la recente enfasi sui 'modelli di Governance' rimanda alla crisi del modello fondato sul controllo e sull'univoca rilevazione e misurazione del valore. Sembra abbastanza chiaro l'orizzonte che vede coinvolti nella 'Governance' i diversi portatori di interessi. Hanno diritto a chiedere di più. Ma devono anche assumersi le loro responsabilità, in forme nuove.
Coerentemente con il modello proposto dal Web, non più controllati e controllori. Ma diffusione della responsabilità del controllo, in un contesto dove forse l'unico controllo possibile è l'autocontrollo.

Allargare lo sguardo
Si tratta dunque di abbandonare certezze che si sono rivelate false promesse, per cogliere invece l'emergere di un nuovo paradigma. Per questo è importante allargare lo sguardo, mutare il contesto: bisogna smetterla di ragionare sul management restando dentro il management, limitando la legittimità a parlarne alla cerchia stretta dei manager e degli studiosi di management – tutti chiusi all'interno di un processo ricorsivo che replica se stesso attraverso la formazione, la pratica, il sistema premiante. Dovremmo smetterla anche di  cercare conferme della bontà del modello in  coloro -penso al mondo della finanza- che hanno interesse a mantenere le cose come stanno.
Dovremmo ascoltare la voce dei portatori di interessi esclusi dal discorso, eppure costretti a subire  questo management. I lavoratori, innanzitutto, che pagano le conseguenze di questo stile di gestione perdendo il lavoro. E poi l'ambiente geopolitico, socioeconomico nel quale vive l'organismo impresa. Non a caso questi attori tornano in gioco quando, a causa della fallimentare gestione del management (ingiusto dare la colpa della crisi solo a fattori esterni), le imprese sono costrette a chiedere l'aiuto dello Stato.
Per allargare lo sguardo il primo passo sta forse nell'accettare che i modelli del management sono viziati dal genere. Sono frutto di un unilaterale punto di vista maschile.

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