BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 05/10/2009

 

L'ORGANIZZAZIONE COME RETE DI STORIE E LO STORYTELLING COME FURTO (1)

di Francesco Varanini

Cantastorie vs. storyteller
Brevi tracce di letteratura, o apologia del cantastorie
Poeta, romanziere, artista
Alienazione
Raccontare storie senza censura

Cantastorie vs. storyteller
Barzellette, racconti condivisi alla macchinetta del caffé, e mail. La ricchezza delle organizzazioni, la ricchezza nascosta che per tutti sarebbe utile portare alla luce, sta in grande misura qui.  Ma accade che queste narrazioni, calde e così colme di vita, le imbalsamiamo, incapsulandole in un contesto accademico, e sussumendole a una definizione tecnica, espressa in inglese. Notate come impongono differenti contesti percettivi il termine inglese 'storyteller' e il termine italiano 'cantastorie'. Lo storytelling, forse perché ci viene dall'America, attraverso accreditati saggi ed articoli pubblicati sulle riviste giuste, ci pare un serissimo approccio, degno di trovare posto nel quadro di quella disciplina che ci piace chiamare management. Il cantastorie ci pare appartenere a tutt'altro contesto.

Brevi tracce di letteratura, o apologia del cantastorie
Il fatto che si prenda per buono un approccio, e si stia qui a discuterne, perché così hanno già fatto studiosi stranieri considerati autorevoli esponenti di quella pseudodisciplina che è il management, mi appare umiliante. Che ci siano arrivati anche questi esperti, buon per loro, ma io penso che valga la pena di guardare a fonti più serie.
Pensiamo alla narrazione orale, alla tradizione popolare, al folklore, al passaggio attraversato dalla letteratura, in ogni contesto linguistico e geografico. Il narratore è un bardo, un rapsodo ('colui che cuce il canto'). Non è il 'proprietario' della conoscenza contenuta nella narrazione. Lui, di fronte ad una conoscenza comune, nella quale la collettività si riconosce, non fa altro che rielaborarla, aggiungendo il contributo della sua soggettività, ed organizzarla in funzione di un contesto, di un pubblico, di una situazione. Ho visto all'opera cantastorie in America Latina, ma non consideratela una cosa esotica: anche da noi cent'anni fa i cantastorie erano ancora fondamentali fonti di intrattenimento e di informazione.
Non pensate nemmeno che si tratti di una manifestazione legata al contesto marginale e minore dell''arte popolare'. Omero era un cantastorie. Dai bardi, dai trovatori e dai giullari discendono i moderni poeti e romanzieri: Ariosto e Cervantes non fanno altro che rielaborare materiali tradizionali.
Comunque, restando all'oggi, è interessante vedere come l'evoluzione dal cantastorie al poeta e al romanziere è visibile oggi sotto i nostri occhi, nelle letterature del cosiddetto Terzo Mondo. Lì convivono cantastorie e romanzieri, e si danno la mano, anzi, si passano di mano in mano i loro testi.
Gabriel García Márquez è un caso esemplare. Non ha fatto altro che ripresentare con la moderna etichetta di 'romanzo' –prodotto offerto al pubblico attraverso quel 'nobile' supporto che è il libro– i contenuti erano quotidiano oggetto di esibizione dei cantastorie colombiani. Dettaglio non trascurabile, sempre ricordato dallo stesso García Márquez, non si trattava di cantastorie qualsiasi: le storie che lui ci narra non sono altro che i racconti che ascoltava narrare da sua nonna (2).

Poeta, romanziere, artista
C'è qualcosa che accomuna il poeta, il romanziere, l'artista e il lavoratore che narra ed ascolta storie.
I testi di poeti e romanzieri costituiscono una rete che chiamiamo 'letteratura'. Analogamente, possiamo dire che e organizzazioni sono anche –o sopratutto– reti di storie. Storie 'scolpite' in software procedure 'ufficiali', ma anche –o sopratutto– storie perse nel rumore nella mensa, nascoste nei cassetti, sintetizzate in barzellette e soprannomi. Storie orali e scritte, storie intrecciate, slabbrate, dai confini sfumati, fitte di rimandi. Storie non sempre facili da scoprire e da comprendere.
Detto di poeta, romanziere, e di lavoratore narratore di storie, dobbiamo ora dire di altre figure sociali, il cui contributo alla rete della conoscenza è assai più dubbio.
Barbara Czarniawska, meritevole autrice del testo forse più interessante di questo filone, Narrating the Organization, (3) pone il modo chiaro la questione: visto che si tratta leggere e interpretare narrazioni, il il manager, lo specialista in Risorse Umane, il consulente, tutti costoro dovrebbero oggi avere competenze vicine e quelle del critico letterario, o del semiologo.
Per Czarniawska, Umberto Eco è un punto di riferimento. Seguiamo dunque l’evoluzione del pensiero di questo celebrato intellettuale. In tempi ormai lontani ci aveva stupito parlandoci di Opera aperta. Andando contro il nostro conformismo ci aveva detto che l’opera non è dell’autore, che in fondo non esiste: l’autore scrive sempre rimaneggiando testi altrui. L’opera non può essere sigillata e chiusa: è sempre soggetta ad interventi, aggiunte, elaborazioni, interpretazioni.
Così, appunto, sono le storie aziendali: di tutti e di nessuno, opera mai terminata, aperta a contributi e aggiunte e rielaborazioni.
Aggiungiamo che questo, se era già vero quando Eco scriveva, negli anni sessanta, è ancora più vero oggi: la tecnologia rende più facile ed evidente la possibilità di aggiungere, condividere. Pensiamo a come può essere rimaneggiato ogni testo (a cominciare da quello che ora sto scrivendo) quando si disponga non solo di un testo stampato, ma della sua versione in Word. O ancora, pensiamo a come facilitano la diffusione e la condivisione di storie l’e-mail e il Web – luogo di scrittura collaborativa.
Ma Eco negli anni settanta era anche andato oltre: aveva sottolineato l’importanza delle ‘decodifiche aberranti’. Ciò che rispetto a una norma data priori può apparire ‘aberrazione’, errore, è in realtà nuova ricchezza emergente: il lettore è sempre anche autore, leggendo, dal suo peculiare punto di vista, contribuisce al lavoro creativo dell'autore. Il testo è un luogo di incontro.
Dove sta il problema? Sta nel fatto che se la mia interpretazione non vale più della tua, cade la base materiale sulla quale si fondano l’identità professionale, il potere, il guadagno di chi fa l’interprete di professione. Di Umberto Eco, come di ogni consulente autorevole interprete di ‘narrazioni aziendali’.
Ecco così che Eco, trent’anni dopo anni dopo aver scritto di opere aperte e di interpretazioni aberranti, a partire dagli anni novanta viene a parlarci di ‘limiti dell’interpretazione’.
Ci fa sapere che c’è una interpretazione semantica, che risponde alla semplice domanda: ‘cosa vuol dire questo testo?’. Bontà sua, Eco concede che questa interpretazione è accessibile a chiunque, anche a noi tapini, poveri mortali lettori. Ma poi, aggiunge saccente, c’è una interpretazione semiotica: ‘capire e spiegare come è possibile che il testo dica quello che dice’. Naturalmente questo secondo, più alto livello di interpretazione, è accessibile solo agli specialisti. Che dunque sarebbero ancora e sempre di più necessari (4).
Ecco così legittimato il ruolo di editor di case editrici, recensori, critici letterari: figure non troppo lontane da quella censore. Di questo potrebbe importarci poco, in questa sede. Ma Czarniawska, con ragione, vede l'analogia tra il ruolo del critico letterario, interprete di un testo scritto, e quella del consulente che interpreta quel testo che è l'organizzazione. Ecco così legittimato il comportamento di quei professori e di quei consulenti che teorizzano l'importanza delle learning histories e in genere delle narrazioni aziendali – ma poi pretendono di imporre lo stile e un rigido formato, già scandito in paragrafi, a chi scrive le storie, la propria storia. Ecco così legittimato l'atteggiamento di chi impone uno schema anche a chi scrive la propria autobiografia, e anzi fonda una scuola per raccoglitori professionali di autobiografie altrui.

Alienazione
Ma a noi, cosa ci importa di qualcuno che ci spieghi con parole complicate perché quel testo ci convince e ci commuove? Quello che vale per la mediazione dei critici letterari che pensano loro diritto/dovere dire agli altri cosa leggere, e come leggere, vale per i consulenti che ci dicono che le storie che raccontiamo sono importanti, ma contemporaneamente ci considerano incapaci di raccontarle.
Lasciamo perdere i dotti e arzigogolati ragionamenti degli interpreti, lasciamo perdere libri di management che ci vengono a dire con parole difficili cose che sappiamo benissimo.
Sappiamo benissimo che l'organizzazione è una rete di storie, il luogo di incontro di donne e uomini che si sono incontrati e conversando mettono insieme e tengono insieme, sulla basa di un incontro vero, un loro linguaggio vero (5).
Weick ha scritto bei libri sul 'dare senso' e sul 'senso comune' – ma in fondo i suoi libri non servono altro che a farci tirare un sospiro di sollievo. Siccome lavorando sembra che ci debba adeguare a modelli esterni, che spesso ci risultano insensati, e che però valgono in virtù della fonte –quel manager, quella società di consulenza, quel teorico del management– per fortuna ecco qualcuno che, pur sempre parlando dal pulpito, ci dice una cosa sensata, una cosa che appunto, nel nostro buon senso, davamo anche per scontata.
Ma con questo, almeno in Italia, Weick non aggiunge nulla, e invece toglie qualcosa. Dicevamo buon senso, dicevamo “parla come mangi” e adesso per essere up to date, à la page –sempre espressioni straniere, lontane dal senso comune–dobbiamo parlare di sensemaking. Così il sensemaking etichettato Weick, un sensemaking divenuto astratto, modellato secondo quanto descritto in un libro, impedisce il sensemaking 'pratico' e quotidiano che regolava spontaneamente le relazioni tra colleghi (6).
C'è un bel paradosso in tutto questo, anzi una contraddizione: la contraddizione esposta all'inizio di questo scritto. Si dà senso al mondo narrandolo. Il lavoratore lo sa bene: 'parlare di quello che si fa' è importante tanto quanto 'fare le cose'. La narrazione ha uno scopo autoterapeutico, è fonte di socializzazione. L'organizzazione è una rete di storie: se le persone al lavoro smettessero di scambiarsi informazioni al di fuori di procedure nessuna azienda funzionerebbe. Se i lavoratori smettessero di conversare tra di loro –su temi inerenti al lavoro, ma non solo– l’‘andare a lavorare’ perderebbe senso.
Qualcuno, ora, ci viene a dire che queste narrazioni sono importanti. Lo sapevamo già. Lo sapeva ogni lavoratore. Ma ora, essendo riconosciuta l’importanza di queste narrazioni da parte di chi prima non se ne era minimamente occupato, si assiste a un tentativo di normalizzarle e di espropriarle: ed ecco lo schemino per scandire in capitoli la storia, il manuale per standardizzare le autobiografie, il libero flusso del racconto ingabbiato in un questionario. Regole si stesura del testo prive di qualsiasi originalità, oltretutto, ma presentate in libri e in articoli con tanto di nota a difesa del copyright. Non ci si preoccupa di come per la persona sia difficile e significativo accettare di condividere con un terzo estraneo il proprio narrare. E ci si preoccupa invece che quel narrare sia normalizzato, predisposto per l’uso che il terzo estraneo vorrà farne: la sua ricerca, il suo articolo, il suo libro.
Non voglio rinunciare a chiedermi come apparirà agli occhi di chi ha scritto una storia, quella stessa storia compressa in una forma che le è estranea, inglobata nel testo firmato da un illustre studioso.
La scrittura è per chi scrive è una oggettivazione, ma vita che egli ha dato all'oggetto –quando l’oggetto è espropriato– gli si contrappone ostile ed estranea.

Raccontare storie senza censura
Tutto secondo me dipenda dalla hybris, dall’arroganza con la quale si rielabora il materiale altrui. Ho detto di come ogni testo è una rielaborazione di un testo precedente. Ma il problema qui è che il teorico dello storytelling resta chiuso in un atteggiamento di superiorità: gli autori delle narrazioni non sono da lui riconosciuti come autori, ma solo come fornitori di  grezza materia prima.
E’ la prosecuzione, in altro contesto, di un modo di intendere le relazioni sociali che troppo spesso si manifesta nell’aula di formazione. Il formatore non riesce a fare ameno di pensare: io sono colui che insegna, tu stattene lì buono nel tuo ruolo di discente.
Quando, in incontri con altri formatori o consulenti, accenno all’idea della rete di conoscenze –una rete alla quale tutti contribuiamo– incontro sempre colleghi che reagiscono piccati: ‘Ma come, faccio questo lavoro da trent’anni’; ‘Non siamo tutti uguali’ (dove è implicito ‘io sono migliore’). Nessuno mette in dubbio le competenze, le capacità e le conoscenze di chi ha anni di professione alle spalle (anche se un po’ di autocritica non guasterebbe).
Ma resta incontestabile un dato di fatto: tra le persone che ho di fronte, e che stavolta partecipano a un incontro che mi vede nel ruolo di docente, tra queste persone c’è certamente qualcuno che su un altro qualsiasi tema potrebbe ‘dare lezione’ a me. E ancor più incontestabile resta un altro dato di fatto: almeno su un tema l’altro sarà più esperto: la sua vita.
Credo che l’atteggiamento arrogante, consapevole o meno, nei confronti della produzione dell’altro, sia una discriminante fondamentale.
Nel proporre di ‘raccontare storie’, imponiamo in realtà una censura: ‘puoi raccontare di te, ma solo nel modo che dico io’. Ritengo si possa agire altrimenti: si può lavorare con le persone stimolando la loro libertà espressiva. Se si ragiona insieme attorno all’atteggiamento del critico letterario, del recensore, e si mostra come in questo ruolo si annidi il tarlo della censura, si favorisce l’abbassamento della soglia dell’autocensura. Se svelo i segreti del mio rapporto con la scrittura, aiuto l’altro a dare valore al suo personale rapporto con la scrittura. Così, vedrete, persone inattese tireranno fuori dal cassetto, prima timidamente e poi con orgoglio, le cose che hanno scritto. E attorno alla scrittura vedremo lavorare insieme persone fino ad allora divise da differenze di ruolo, o da ostilità.
Personalmente, credo di poter stimolare altri a scrivere, e a dare valore ai propri scritti, solo perché mi sento scrittore. Non perché sono socialmente riconosciuto come scrittore: questo non importa. Importa il rapporto tra scrittura e autobiografia. Ognuno ha un’autobiografia, e ha il diritto a narrarla (7). 
Credo che ci sia una bella differenza tra il parlare di sé, mettendosi in gioco, lasciandosi vedere, e il raccogliere e l’incasellare con atteggiamento giudicante le parole scritte da altri.


1 - Una diversa versione di questo testo è apparsa su Sviluppo & Organizzazione, 221, maggio-giugno 2007

2 - Rimando, per un più compiuto sviluppo di questo ragionamento, e per i riferimenti bibliografici, a  Francesco Varanini, “Un certo tipo di letteratura. Breve storia di un mondo possibile”; sta in: Marco Minghetti e Fabiana Cutrano (a cura di), Le nuove frontiere della cultura d’impresa. Manifesto dello Humanistic Management, Etas, 2004.
      Un approfondito esame di vizi e virtù di Gabriel García Márquez si trova in Francesco Varanini, Viaggio letterario in America Latina, Marsilio, 1998.

3 - Barbara Czarniawska, Narrating the Organization. Dramas of Institutional Identity, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1997; trad. it. Narrare l’organizzazione. La costruzione dell'identità istituzionale, Comunità, 2000.

4 - Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani,1962 (raccolta di saggi precedentemente usciti in riviste, ha vissuto vicende editoriali complesse: è stata più volte riedito in versioni via via modificate; l'ultima nel 1976). Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, 1975. Eco, 1990. Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, 1990.

5 - Vedi Giuseppe Varchetta, Introduzione a Karl Weick, Sensemaking in Organizations , Sage, 1995; trad. it. Senso e significato nell’organizzazione, Cortina, 1997.

6 - Per riflettere sul dare senso al lavoro, inteso come esperienza quotidiana, più di Weick consiglierei due libri diversissimi tra loro: Peter L. Berger, Thomas Luckmann, Thomas, The Social Construction of Reality, Doubleday and Co, 1966; trad. it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969. e Francisco J. Varela, Evan Thompson, Eleanor Rosch, The Embodied Mind. Cognitive Science and Human Experience, Massachusetts Institute of Technology, 1991; trad. it. La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Feltrinelli, 1992.

7 - Jurij M. Lotman, “Il diritto alla biografia. Il rapporto tipologico fra il testo e la personalità dell’autore”, in La semiosfera, Venezia, Marsilio 1985.

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