BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 19/04/2010

 

SETTE TIPI DI MANAGER (1)

di Francesco Varanini

Il Manager-come-si-deve
Quelli che da piccoli dicevano ‘da grande farò l’amministratore delegato’, quelli che hanno fatto le università giuste e i master giusti. Quelli che al termine dell’università o del master hanno trovato subito posto. Quelli che da piccoli sono stati battezzati come talenti.
Quelli che ritengono che dirigere significhi ‘eseguire fedelmente’. E perciò si tengono lontani da ogni forma di pensiero creativo, evitano ogni tipo di innovazione. Per loro, la professionalità risiede nel mantenersi attaccati a procedure, routine, consuetudini. Per loro, la strategia è non occuparsi di strategia. E se per caso al di sopra di loro, o al loro fianco, opera un imprenditore o un qualche manager orientato a formulare strategie, il manager-come-si-deve si pregia di vanificare nella pratica i disegni, i progetti. Ogni intento innovativo, ogni spazio di creatività, nella mani del manager-come-si-deve è ridotto a banale ovvietà.
Quelli che, di fronte ad ogni scelta che potrebbe veramente cambiare le cose, ‘meglio aspettare un attimino’. Quelli che fanno della cautela la ragione di vita. Quelli che agiscono quando proprio non possono farne a meno, e che danno retta sempre e solo a chi fa la voce grossa.
Quelli che tirano tardi in ufficio, perché è a tarda ora che si fa il lavoro importante, che consiste nel tenere relazioni e tessere trame. Quelli che passano da un posto all’altro.
Quelli che ritengono corretto raccontare palle a chi sta sopra, al mercato, a dipendenti e collaboratori. Quelli che pensano che i risultati sono innanzitutto un problema di immagine e di comunicazione. E che perciò vivono fingendo, spacciando notizie fasulle ben impacchettate in slides Power Point o in documenti patinati. Quelli che hanno il gusto sottile di vedere soffrire gli altri, di punzecchiarli e tormentarli con parole o azioni che irritino o comunque mettano a disagio senza alcuna necessità e giustificazione.
Quelli che pensano non serva sapere nulla del business. Quelli che non hanno mai visitato la fabbrica e che non sanno nulla dei loro collaboratori, quelli che non conoscono e non guardano in faccia nessuno. Quelli che per loro esistono solo ‘i fondamentali’ e vedono il mondo attraverso la lente dei standard appresi: il mondo esiste solo per ciò che mostrano gli occhiali di finanza e controllo, marketing, operations...
Quelli che lavorano in grandi aziende, soliti nomi, o in primarie società di consulenza, soliti nomi, quelli che usano più parole inglesi che parole italiane, quelli che sono entrati giro e si ritrovano al circolo del golf, e frequentano insieme gli stessi luoghi di turismo estivo e invernale, quelli che vivono in case abitate solo da altri come loro, quelli che, naturalmente, hanno un macchinone o un SUV, quelli che hanno orologi, barche, quelli seguono tutto ciò che è di tendenza, pronti a diventare estimatori sinceri del rugby o del basket o della vela a seconda delle mode.
Quelli che magari dispongono solo di un’imitazione del posto importante e e della carriera fulminante e del SUV imponente e della casa elegante – ma si comportano come se fossero Chief Executive Officer di una multinazionale, totalmente identificati nel ruolo.
Quelli che sono sempre da un’altra parte, in viaggio o impegnati in importantissime conference call. Quelli che non hanno tempo di leggere neanche le riviste di settore. Quelli che parlano solo di donne e di sport. Quelli che si vestono con l’uniforme, giacca e cravatta o jeans è la stessa cosa, indumenti firmati per essere più uguali di ogni altro agli altri come loro.
Fatti con lo stampino, costituiscono l'esercito manageriale di riserva che piace agli stakeholder lontani ed interessati solo al controllo e alla normalizzazione: in una parola, piacciono agli analisti finanziari, agli investitori istituzionali, alla proprietà orami lontana dall'impresa. 

Il Miracolato
Sognavano di essere Manager-come-si-deve, ma per situazioni economiche e sociali di partenza o per scarsi risultati scolastici o per accidenti della vita o per e per incapacità di salire su quel treno, non ci sono riusciti.
Ma poi, non per un colpo di reni, e forse nemmeno per una personale attitudine a cogliere l’attimo fuggente, e dunque magari solo per un colpo di fortuna, ce l’hanno fatta comunque.
Perché per una volta nella vita hanno avuto la fortuna di trovarsi al momento giusto al posto giusto. Passavano di lì, o erano nei paraggi, quando una posizione è rimasta improvvisamente scoperta. Serviva qualcuno per tamponare un buco, per riempire un vuoto. 
Se Manager-come-si-deve si nasce, Miracolati si diventa. Qualcuno li ha presi per i capelli e li ha consapevolmente messi in un posto che pareva assolutamente al di sopra delle loro capacità, in base al principio che ciò che importa è circondarsi di persone che non possano fare ombra e che non rompano le scatole.
Affidare a quell’improbabile manager la posizione, appariva una soluzione facile, ma transitoria. Eppure quasi sempre i Miracolati durano nel tempo, perché la loro pochezza finisce per apparire virtù.
Il Miracolato garantisce un’affidabilità senza incrinature. Perché sa di non avere alternative. Il suo treno non passerà un’altra volta.
Così, eccolo attaccato alla sedia a ringraziare ogni giorno in cuor suo il fausto destino, le fortunate coincidenze che l’hanno portato a sedervisi. E seduto lì, culo di pietra, fedele al mandato, il Miracolato senza fiatare copre magagne e spala  merda.
Ammantato del proprio grigiore, il Miracolato finisce per diventare indispensabile, inamovibile.

Il Complice
I Manager-come-si-deve coprono i posti importanti perché ciò è loro dovuto, per diritto di casta. I Miracolati coprono posti importanti non si sa perché. Si sa benissimo invece perché coprono posti importanti i Complici: perché sono depositari di segreti indicibili. Perché hanno coperto, a tempo debito, errori clamorosi e appropriazioni indebite. Perché hanno svolto, almeno in una occasione, compiti rifiutati da ogni altro. Perché, senza bisogno di dirlo, sono disposti, per il presente ed il futuro, ad offrire i servizi più delicati e più preziosi.
Al servilismo che contraddistingue il Miracolato qui si accompagna la protervia. Un sottile ricatto è nascosto dietro ogni gesto del Complice. Il Complice sa con precisione di ogni cadavere nascosto in ogni armadio. In particolare, conosce molto bene i cadaveri nell'armadio del manager a cui risponde. E ancor meglio conosce le debolezze altrui. Non ne parla, non ha bisogno di parlarne. Ma non dimentica.
I Complici fanno valere nel silenzio il proprio potere. Il Complice è utilissimo, spesso indispensabile. Oppure capita di trovarsi Complici tra i piedi. In ogni caso del Complice non ci si può liberare – a meno che non ci si liberi del nostro personale orientamento alla complicità, al sotterfugio, al raggiro basato sulla menzogna.

Il cocco dell’analista finanziario
L'analista finanziario studia e analizza l'azienda al fine di stabilirne lo stato di salute, definirne la struttura, la redditività e valutare le prospettive economiche. Gli indirizzi strategici, le scelte organizzative, investimenti e priorità, tutto dipende dalla voce dell’analista-oracolo.
Forse tutto nasce da una reciproca comprensione: meschino e ingrato il ruolo dell’analista: fare le pulci in casa altrui, decidere altrui destini in base a miseri e poveri, semplificanti indicatori; meschino e ingrato il ruolo del manager che deve chiedere all’analista il permesso per fare ciò che ritiene giusto fare in casa propria. Di qui, può darsi, la reciproca indulgenza. Di qui la disponibilità a tener conto dell’altrui punto di vista.
Forse tutto nasce dalla reale o apparente debolezza del manager – che l’analista pensa di far su come vuole. O forse è sta tutto nell’abilità del manager: apparire debole e accondiscendente. Forse tutto dipende da coincidenze, comuni hobby o vicinanze culturali.
Forse dipende al fatto che l’analista riconosce a quel manager il tocco magico: la capacità di uscire comunque dalle impasse, l’intuito o la fortuna o il coraggio.
Fatto sta che il-cocco-dell'analista è baciato dalla sorte. Va a genio all’analista, che è quindi disposto ad ascoltarlo. I bilanci ed i conti talvolta non parlano chiaro o non buttano bene. Ma il-cocco-dell’analista ha buon gioco, perché le sue ragioni e le sue dichiarazioni –anche se scarsamente documentate, anche se per nulla evidenti rispetto alle universali metriche della finanza– vengono prese in considerazione.
Il vantaggio competitivo di cui gode il Cocco-dell’analista rispetto ad ogni altro manager, sia una correttissimo Manager-come-si-deve, sia un Complice o un Miracolato, il vantaggio competitivo è enorme. Il Cocco-dell’analista può permettersi di sbagliare, e quindi di rischiare. Il Cocco-dell’analista può permettersi di andare oltre gli obiettivi che interessano immediatamente alla Finanza. Se la Finanza bada non solo alle chiusure trimestrali, ai bilanci e agli indicatori fondamentali, se la Finanza si fida del manager, il manager può tornare a svolgere il suo ruolo più pieno, può investire, può cercare lo sviluppo, può valorizzare nel tempo le risorse dell’azienda.
Triste dover osservare come il manager debba essere Cocco-dell’analista per agire con libertà.
Il Cocco-dell’analista vive però sul filo del rasoio: il tocco magico può essere perso, e gli analisti possono cambiare. Il successo può rapidamente trasformarsi in cattiva fama. La carriera è soggetta al volubile giudizio dell’analista, ma intanto, con un po’ di attenzione, può essere colto in momento di vacche grasse, e può essere sfruttata la buona fama.

Il lobbista che gioca in proprio
La sua carriera è anomala. Spesso è un ex Cocco-dell’analista, talvolta un Miracolato o un Complice. Più raramente un ex Manager-come-si deve. Non di rado proviene dalla consulenza,  o professioni liberali, avvocato o commercialista; o da una Banca o dalla politica.
Non possiede quasi mai le skill che sulla carta –e secondo l’opinione di professori universitari, consulenti e coach– dovrebbero essere indispensabili al manager, pena l’incapacità di guidare un’azienda.
E questa circostanza dovrebbe farci riflettere: servono davvero al manager queste competenze ‘normali’? Il fatto che il Manager-come-si-deve le possegga, è prova della sua forza, o della sua debolezza? Non contano forse di più altre doti?
Il Lobbista-che-gioca-in-proprio sa che in realtà, di quelle competenze ‘normali’ se ne può fare benissimo a meno. 
E’ indispensabile, invece, il pelo sullo stomaco. E’ importante non fermarsi di fronte a nulla, non temere nessuno. In questo il Lobbista-che-gioca-in-proprio è maestro. Lo stesso Complice non può competere con lui. Non c’è gara. 
Il Lobbista-che-gioca-in proprio trae il proprio potere dall’appartenere a un sistema di influenze incrociate, a una rete di interessi che si sostengono a vicenda – interessi che ovviamente nulla hanno a che fare con l’interesse dell’azienda nella quale momentaneamente il manager si trova a lavorare: anche sotto questo punto di vista, il Complice ha molto da imparare.
Nel Lobbista-che-gioca-in-proprio la generale tendenza di ogni manager –‘fai innanzitutto il tuo interesse personale’– raggiunge le massime vette. Lui gioca per sé, la sua è una partita personale. Sfortunata l’azienda che si trova a subire in sorte il transito di questi personaggi.
Amara la situazione di una azienda che finisce nelle mani del Lobbista-che-gioca-in proprio. L’azienda, nelle sue mani, non è che una pedina o una fiche, un asset sempre sacrificabile, sempre subordinato a diversi –e personali– interessi. Mentre gli interessi di un qualsiasi altro stakeholder, ovviamente, restano in secondo piano. 
Il Lobbista-che-gioca-in-proprio è dotato di un personale potere che rende forte nei confronti del mondo della finanza: è in grado di contrattare e di difendersi, perché è in grado di mettere in gioco altri poteri: la politica, le istituzioni. Il Lobbista-che-gioca-in-proprio decide da solo i propri compensi, ivi compreso, naturalmente, il ‘paracadute’: il compenso che spetta comunque al manager se, anche per propri errori, deve lasciare la posizione.
Camaleontico e potente, personaggio temuto e riverito, può spostare equilibri consolidati. Facile per lui giocare senza remore la carta che è già nelle mani di ogni Cocco-dell’analista, ma che il Cocco-dell’analista -privo dell’ambizione e dell’istinto del killer che contraddistingue il Lobbista-che gioca-in-proprio- è nella pratica restio a giocare: comprare, con il finanziamento del mercato finanziario, la stessa azienda per la quale lavora.

Il Cinico Umanista
Dopo ottimi studi scientifici, o più spesso umanistici, rinunciando a carriere universitarie o amministrative o politiche, ha scelto di fare il manager per caso, o per sfida, o magari inizialmente, per consapevole impegno sociale. Spesso inizia lavorando nell'area del Personale. Ma poi l'indubbia intelligenza apre la strada verso ogni ambito del management e verso ruoli di vertice.
E' una categoria rara e per questo pregiata. Se ci interessa davvero che l'impresa italiana ritrovi una sua strada, figure come queste servono come il pane. Potrebbero costituire la guida. Potrebbero fare scuola. Potrebbero costituire una punta di diamante, un'avanguardia. A chi se non a persone dotate di fini strumenti culturali e di solida formazione potrebbe, o dovrebbe essere affidato il compito di portare alla luce uno stile di direzione attento alla storia e alla cultura e all'economia reale del nostro paese. 
Eppure, proprio da questo manager Umanisti ci giunge la maggiore delusione. Dove è maggiore l'aspettativa, dove maggiori sono le potenzialità, maggiore è il dispetto per la scarsità dell'apporto, per il prevalere del privatissimo e personale comodo.
In un mondo popolato da Manager-come-si-deve, dove gli scostamenti dalla norma si riassumono in  Miracolati e Complici, il Manager Umanista ha vita facile. Brilla senza fatica. Le incontestabili doti gli permettono di sbrigare il lavoro in poco tempo. La maggiore acutezza dello sguardo – nel capire le persone, nel pensare al futuro, appare evidente.
Ma a partire da questi dati di realtà il manager Umanista se ne lava le mani. Invece di bonificare l'ambiente, invece di favorire l'ingresso di giovani di solida e aperta formazione– ama circondarsi di purissimi manager-come-si-deve. Lo fa col sorriso sardonico di chi ha capito come vanno le cose, e sceglie di approfittarne. Sceglie la via del cinismo.
Potrebbe, dovrebbe essere un maestro di etica, e ostenta invece sprezzo e beffarda indifferenza verso gli ideali e le convenzioni. Critica a parole i manager-come si-deve, intimamente li disprezza, irride il loro accanito carrierismo, il loro stile convenzionale, la loro piattezza culturale, la povertà del loro lessico ma si mostra nella sostanza indulgente. Fa comodo e fa piacere avere sottomano un oggetto di scherno ed una conferma della propria superiorità.
Piace al Cinico Umanista brillare nel deserto. Piace al Cinico Umanista guardare innanzitutto a di sé stesso. Così la propria persona, le proprie qualità  intellettuali, finiscono per essere il centro preminente del proprio interesse. Considerandosi unico e irripetibile, il Manager Umanista dà ad intendere di non poter avere eredi. Dopo la sua dipartita, ci dice tutto andrà peggio, mi rimpiangerete. E per confermare questa tesi –"Après moi le déluge"–, più o meno consapevolmente si bea nel pronosticare un futuro fosco.
Se il Manager-come-si-deve si vanta di non aver tempo per leggere, il Cinico Umanista ci dà ad intendere di leggere molto. E comunque scrive. Scrive parlando di sé, celebrando la propria diversità. Ma senza indignarsi né proporre qualcosa di nuovo. Offre semmai lezioni ai Manager-come-si-deve, fingendo di mostrare loro come farsi una cultura, ma in fondo giustificandone la pochezza.

Il Manager-cresciuto-in-casa
Di tutt'altra pasta sono fatti i Manager-cresciuti-in-casa. Mentre i Manager-come-si-deve sono entrati in azienda già con ruoli importanti, già inquadrati come dirigenti, o comunque proiettati verso luminosa  carriera, i Manager-cresciuti-in-casa sono cresciuti passo passo, attraverso carriere lente ed accidentate, talvolta forniti da un buon titolo di studio, talvolta forti esclusivamente di un pratico 'saper fare' – ma sempre cresciuti partendo da posizioni impiegatizie e magari anche operaie. Hanno coperto il ruolo di quadri. Conoscono l'azienda a menadito, sia negli aspetti formali che informali. La loro competenza si fonda sull'esperienza. Conoscono bene le persone –interne ed esterne all'azienda– con le quali hanno a che fare. Considerano fondamentale la qualità dei rapporti personali. Conoscono bene materie prime e tecnologie e prodotti e cicli di produzione. Non sono necessariamente dotati di titoli di studio. Sono legati affettivamente all'azienda e al loro lavoro.
Triste realtà vuole che dietro ogni visibilissimo Manager-come-si-deve, operante sulla scena con tutta la sua arroganza ed ignoranza, agiscano, in ruoli più o meno subalterni, uno o più quasi invisibili Manager-cresciuti-in-casa. Il Manager-come-si-deve si prende onori e remunerazioni, ma non le corrispettive responsabilità, mentre il Manager-cresciuto-in-casa, grigio e concreto e fattivo, necessario e costruttivo, lavora e decide, ma resta nell'ombra. E' lasciato ad operare dietro le quinte.
L'affermazione e l'ascesa di Manager-cresciuti-in-casa ha normalmente luogo solo nelle aziende che premiano un lungo legame di fedeltà personale, aziende con una solida cultura aziendale, aziende quasi sempre dove la proprietà che mantiene saldamente la guida dell'impresa.
Legato ad un sincero interesse per quello che fa, mosso dal buon senso, orientato a considerare la produzione un dovere morale, , guidato da una propria etica, disinteressato ai riti che consolidano l'appartenenza alla casta dei Manager-come-si-deve, il Manager-cresciuto-in-casa non è controllabile, non è ricattabile, non può essere comprato. Non si assoggetta facilmente all'imperscrutabile comando esterno della finanza e degli stakeholder interessati esclusivamente ad estrarre ricchezza dall'economia produttiva, per destinarla altrove.


1 - Questo testo è un molto sintetico estratto di uno dei capitoli centrali di Francesco Varanini, Contro il management. La vanità del controllo, gli inganni della finanza e la speranza di un lavoro comune, Guerini e Associati, 2010 (in libreria dal 26 aprile). 

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