BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 24/05/2010

 

OLTRE L'IPOCRISIA, OLTRE IL MANAGEMENT

di Francesco Varanini

In conversazioni con amici e in newsgroup sulla Rete trovo sotto varie forme una domanda diffusa: cosa fare per uscire dalla crisi? Cosa può fare ognuno di noi. Dico 'noi' per dire: persone con cui condivido qualche pezzo di un percorso di vita e di lavoro: dirigente d'azienda, consulente, formatore.
Nel cercare di ragionare sul cosa possiamo fare, una prima risposta sta nell'accettare 'per me stesso' l'idea di assumermi responsabilità. Anche andando contro aspettative di qualcuno, e anche mettendo in qualche modo a rischio la remunerazione economica normalmente riconosciuta a chi sta lì buono buono.

Esiste forse un 'diritto all'ipocrisia'?
Ho sentito dire spesso: di queste cose, il disagio di fronte al ruolo, di fronte alle schifezze che si vedono fare intorno a noi, ci porta a chiederci cosa fare. Sì, ma a chiedercelo solo in sedi private, in chiacchiere amichevoli, accorate e partecipi sì, ma tra di noi, o magari in gruppi di discussione sulla Rete. Restando convinti che però poi sia legittimo, sia eticamente giustificato 'essere ipocriti'. Cioè il privato dire che le cose non vanno bene, e che si dovrebbe fare qualcosa di diverso, ma poi accettare -per quieto vivere o per bisogno di denaro o per connivenza- di lavorare in un modo che contribuisce alla schifezza. L'alibi del mercato è comodissimo: quello che il mercato chiede io do. L'alibi liberista è comodissimo: il mercato si autoregola, a lungo andare elimina la schifezza 'da solo'. Ma sappiamo bene che non è così!
Perciò il diritto all'ipocrisia tendo istintivamente a non accettarlo. Non lo accetto se si intende ipocrisia come 'capacità di simulare sentimenti lodevoli allo scopo di ingannare qualcuno per ottenerne la simpatia o i favori'. Non lo accetto (e dico per me, per come cerco di comportarmi io), anche se so che in origine in greco il senso è abbastanza neutrale: 'hypocrités' è 'attore', e siamo tutti attori sulla scena sociale. Siamo attori perché stiamo dentro a ruoli definiti ecc. ecc. Non accetto però il senso che la parola greca assumeva già negli autori cristiani: 'simulatore'.
Lo so che tutti dobbiamo guadagnarci la pagnotta e che questo implica accettare ruoli sociali e interagire con persone ( anche clienti) ovviamente liberi di pensare come meglio credono. Ma, parlo solo di me, conosco la soglia oltre la quale non voglio andare nell'accettare compromessi. Sopratutto non voglio rinunciare a parlare liberamente in luoghi come questo. Se poi un cliente, una persona che preferirebbe vedermi solo ben chiuso dentro un ruolo mi vede anche parlare fuori dai denti e dire quello che penso, ben venga, meglio pensare di vivere in una casa di vetro, accetto il rischio.
Non nego di non riuscire ad accettare il comportamento di colleghi che pretendono di generalizzare, facendo di ogn'erba un fascio e quindi coinvolgendomi in un giudizio. Ho sentito per esempio tante volte dire, in sedi associative o in occasioni interne di progettazione di interventi: 'be', alla fine lo sappiamo bene che stiamo vendendo fumo', oppure 'scriviamo questo nel progetto perché è di moda', oppure 'non vorrai mica dirmi che credi davvero in quello che sta facendo', 'non crederai mica di poter cambiare davvero qualcosa?', 'tanto si sa che le cose vanno così, nono resta che fare buon viso a cattivo gioco', 'meglio sempre volare basso' ecc. ecc.
Per quanto mi riguarda non ci sto, in quello che faccio ci credo e credo anche di poter fare qualcosa per far cambiare le cose. Non siamo forse imprenditori di noi stessi? Qualche rischio dobbiamo pur prendercelo. E io punto su clienti che sappiano cogliere la differenza, e che sappiano leggere oltre la simulazione e guardare oltre le maschere dei ruoli. Non per niente mi sono messo a scrivere 'contro il management', che è, diciamocelo, in gran misura nient'altro che una gran finzione.
Vogliamo essere anche lì dove per questo si paga un prezzo, no?

Perché non possiamo non dirci 'contro il management'
Per non essere ipocrita, ridico che su questo ho scritto un libro (1), e non importa se questo mi farà perdere qualche cliente. Mi permetto di citare qualche riga dall'Introduzione.
"Questo libro nasce dall’indignazione. Per lo spreco di risorse, per l’ipocrisia, per il cinismo. Aziende asservite all’interesse privato di chi dovrebbe essere al loro servizio. Il valore misurato con l’unico metro del denaro. Luoghi dove potrebbe sprigionarsi la creatività, dove potrebbe regnare il piacere legato al lavoro, trasformati in deserti affettivi, dove vigono abuso e sfruttamento.
Eppure è possibile immaginare l’azienda come una costruzione comune, dove i diversi portatori di interessi – chi lavora, chi fornisce risorse finanziarie, i clienti e i fornitori, la comunità locale, la pubblica amministrazione: gli stakeholder, insomma – sappiano accettare la compresenza dei diversi punti di vista.
Per andare in questa direzione c’è bisogno di una nuova figura sociale, ben diversa dal manager che conosciamo."
Insomma credo sia molto importante, di questi tempi, guardare ai limiti e gli inganni del management. E non nasconderci come ci si trovi stretti nel ruolo o del 'manager', così come è definito da percorsi formativi e da attese codificate.
Il management è una pseudoscienza che giustifica l'esistenza del manager, una figura sociale che fa solo in piccola parte il suo lavoro di 'classe dirigente', perché agisce entro schemi definiti, troppo stretti. E sopratutto, definiti nell'interesse non delle aziende, non dell'insieme degli stakeholder: finanziatori, lavoratori, clienti, fornitori, società civile, comunità locale e nazionale e globale. Perché purtroppo il manager accetta come suoi gli obiettivi di un solo stakeholder: l'operatore del mercato finanziario. E finisce per farsi ambasciatore di questi interessi all'interno delle aziende.
Mi si ricorda che va bene guardare alle responsabilità, ai limiti, alle posizioni di comodo di manager e consulenti e formatori, ma dovremmo anche allargare il campo a molte altre figure. D'accordo. Non sono certo privi di responsabilità ed esenti da pecche coloro che si occupano di finanza, di politica e di informazione. Sono anzi incline ad attribuire loro gravissime responsabilità, mancanze, azioni contrarie alla giustizia e alla morale.
Ma parlo di manager perché credo che si possa cambiare qualcosa solo partendo da noi, da ciò che fa ognuno di noi, dal come lo fa. E io mi sento appartenente a questa famiglia professionale: la famiglia di coloro che governano le organizzazioni e mostrano ad altri come governarle. Quindi parlo di manager perché dico di me, la mia è innanzitutto autocritica.
Così, non mi vengono in mente riflessioni astratte. Mi vengono semmai immediatamente in mente le altre famiglie professionali alle quali appartengo: giornalisti, docenti universitari. Anche qui, naturalmente, c'è bisogno di una nuova figura sociale. E il discorso ovviamente si potrebbe allargare.
Tornando al lavoro del dirigente concluderei provvisoriamente così: credo che ragionando di 'impresa diversa' e di 'azienda come costruzione comune', noi che lavoriamo con e nelle aziende diamo il nostro modesto contributo per cogliere il modo per costruire una società diversa. Anch'io rifuggo dalla facile utopia, ma una sana, realistica speranza, una speranza progettuale, si può e si deve coltivare, nonostante tutto.


1 - Francesco Varanini, Contro il management. La vanità del controllo, gli inganni della finanza e la speranza di una costruzione comune, Guerini e Associati, 2010.

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