BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 25/10/2010

 

LE AUTOMOBILI FIAT SONO COSI' BRUTTE PERCHE' MARCHIONNE GUADAGNA TROPPO. OVVERO: ESTETICA E GLOBALIZZAZIONE. LUOGHI, NON LUOGHI E SCELTE DI MANAGEMENT

di Francesco Varanini

Uno dei principali campi di libertà aperti all'azione del manager è la scelta dei luoghi dove produrre.
Ma il manager, oggi, è malauguratamente al servizio di un solo stakeholder: la finanza, nelle sue diverse incarnazioni. La finanza, disinteressata alla produzione, chiede solo un abbassamento dei costi. La scelta del luogo è fatta in base al costo.
La produzione, però, non è indifferente rispetto al luogo. Latino producere: 'condurre innanzi', 'portar fuori'. La ricchezza è frutto della produzione. La finanza non crea ricchezza – mentre la produzione è creazione di ricchezza.
Possiamo chiederci dove stia -in questo quadro- l'etica (1)  

La lezione di Adriano Olivetti
Partiamo da Adriano Olivetti. Ma per andare oltre. Non è una regola generale, ma per principio, diffido dei personaggi che piacciono a tutti. Quando un personaggio diventa un mito, è opportuno avvicinarsi con cautela. Ma è indubbio che Adriano Olivetti ha fatto qualcosa di diverso. Non possiamo non ricordarcene nel mentre guardiamo alla cultura d'impresa italiana, osservandone i limiti e la scarsa originalità. Osservandone la passiva sudditanza agli stereotipi del management.
Evito di tornare su quello che troppe volte è stato scritto. Mi soffermo su alcuni punti chiave.
Ivrea, 24 dicembre 1955, vigilia di Natale: Adriano Olivetti parla ai dipendenti riuniti nel Salone dei 2000. Ricorda il passato. “Verso l'estate del 1952 la  fabbrica attraversò una crisi. Le macchine si accumulavano ne magazzini di Ivrea e delle Filiali, a decine di migliaia. L'equilibrio tra spese e incassi inclinava pericolosamente. A quel punto c'erano solo due soluzioni: diventare più piccoli, diminuire ancora gli orari, non assumere  più nessuno; c'erano cinquecento lavoratori di troppo, taluno incominciava a parlare di licenziamenti. L'altra soluzione era difficile e pericolosa: instaurare immediatamente una politica di espansione più dinamica, più audace. Fu scelta senza esitazione la seconda via”.
È “il più grande sforzo costruttivo ed espansivo che la nostra ditta abbia intrapreso”, “frutto di un calcolo ottimista dell’avvenire della nostra economia”. “Una partita a scacchi nella quale si gioca l'avvenire della nostra fabbrica, dove è in gioco il futuro dei vostri figli”.
In quel1955 l'Olivetti aveva inaugurato stabilimenti in diversi luoghi. Tra cui lo stabilimento di Pozzuoli. E' un avvenimento di speciale rilievo storico e culturale: il lavoro, la fabbrica moderna, sono portati nel Sud d'Italia. Lì si cercano maestranze adatte. In quegli anni, contraria è la strategia della Fiat - che sposta enormi masse proletarie verso Torino. Solo alla fine degli anni sessanta l'industria automobilistica -non la Fiat, ma l'IRI (dobbiamo riconoscere alle Partecipazioni Statali il merito di una responsabilità sociale, che forse dovrebbe avere anche l'impresa privata)- progetta un insediamento al Sud. La prima Alfasud esce dallo stabilimento di Pomigliano d'Arco nella primavera del 1972.
Ma torniamo a Pozzuoli, e al '55: della selezione del personale, per precisa scelta di Adriano Olivetti, è incaricato un giovane intellettuale attento alla psicologia e alla sociologia, Ottiero  Ottieri. Olivetti ha posto un vincolo preciso: 'Non tener conto delle raccomandazioni'. L'esperienza sarà narrata da Ottieri in un notevole romanzo autobiografico, Donnarumma all'assalto (1959). Dove però già nella prima pagina il protagonista chiarisce la sua posizione: “Io non sono il direttore. Sono un impiegato qualsiasi”. E nella seconda ribadisce: “Non sono il direttore. Sono un impiegato addetto all'ufficio del personale”. Non è facile farsi carico dell'onere morale legato al ruolo. Non è facile assumersi responsabilità. Che riguardano la scelta delle persone. E la conoscenza e il rispetto del luogo.
Ecco qui la differenza: da un lato, assumersi le responsabilità del dirigente, dall'altro il voler essere 'un impiegato qualsiasi'. Il manager che si pone al servizio dello stakeholder più facile da servire –può essere, di volta in volta, la politica o la finanza- è, in fondo, un impiegato qualsiasi. Mentre accettare che esistono diversi stakeholder, e accettare che tra questi si debbano considerare i lavoratori, significa assumersi responsabilità da classe dirigente.
Possiamo dire, con pieno fondamento, che Olivetti considera i lavoratori stakeholder, portatori di specifici interessi da comprendere e da rispettare. Ed è mosso dalla convinzione che l'azienda possa e debba non solo interagire con l'intorno -l'ambiente, il luogo-, ma che debba anzi consapevolmente influire sull’assetto sociale della comunità locale: la vita e la crescita dell'impresa sono anche la vita e la crescita di Ivrea come di Pozzuoli.
L'azienda è, nel rispetto della diversità dei ruoli e delle responsabilità, una costruzione comune. Comune: 'che compie il suo incarico (munus), insieme (cum) altri'.

Il valore, da Dante a Marchionne
Possiamo dire: 'l'automobile italiana è diversa da un'automobile tedesca'. Ci risulta evidente che questa differenza esiste. E che questa differenza ha a che fare con il valore.
Il valore, scriveva Dante (Convivio, IV trattato), si può intendere in più modi, ma il punto di partenza è intenderlo come “quasi potenza di natura, ovvero bontà da questa data”. Quindi è connesso con il luogo, perché la natura è diversa da luogo a luogo. Il valore, ci dice Dante nella canzone che apre il trattato, “vien da una radice”: c'è quando l'uomo è “felice” “in sua operazione”. Il lavoro, diceva non a caso Primo Levi nella Chiave a stella, costituisce “la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra”. L'opera -anche qui l'etimo ci soccorre- è 'il lavoro di una giornata', il lavoro che cresce giorno dopo giorno, e resta fedele a una sua radice e perennemente si trasforma.
Il valore dipende da ciò che l'uomo fa in un dato luogo, in un dato momento - è legato al luogo e al modo di produzione. Dante cita esplicitamente l'Etica di Aristotele. Dobbiamo chiederci come intendere oggi la relazione tra valore, ai tempi di Marchionne, quando la produzione è sradicata dal luogo.
Producendo   automobili in Polonia, o in Serbia o a Pomigliano o a Melfi, si producono le stesse automobili? Il valore del prodotto è lo stesso?
Tra le numerose recenti dichiarazioni di Marchionne, cito questa, che mi pare esemplare: “Io vivo nell'epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa”. Come dire: globalizzazione dei mercati, della finanza, delle merci e del lavoro dettano le regole. Non resta che inchinarci, anzi: non resta altro da fare che -in quanto manager- farci interpreti ed esecutori di queste regole.
Quali ragioni possiamo opporre alle ragioni di Marchionne? Se per Dante valeva l'etica di Aristotele, a quale etica possiamo fare riferimento oggi? Come si ri-definisce il luogo di produzione, e quindi la costruzione del valore, in un contesto dove il comando della finanza impone di de-localizzare, in un contesto dove il luogo di produzione è una variabile dipendente da scelte compiute nel non-luogo della finanza?

Luoghi e non luoghi
Leggo sull'iPhone che ho in mano: “Designed by Apple in California Assembled in China” Dove è finito il Made in? Ognuno di noi ha in mente l'immagine del prodotto costruita artificialmente da copywriter e comunicatori di professione, ma anche l'immagine dei bambini che producono, in Cina, in India, in Pakistan, in Indonesia, in Vietnam, in stabilimenti che è impossibile visitare, palloni e scarpe sportive per noti marchi.
Un dato di fatto: oggi si produce in un non luogo e poi si localizza.
Non importa dove si produce 'fisicamente'. Ciò che conta è far apparire il prodotto come se fosse prodotto in un luogo. Spogliato da rapporti con un reale luogo, il prodotto è progettato in modo da portare con sé l'aura di un luogo virtualmente ricostruito. Sciolto ogni legame 'fisico' con un luogo, si lavora per imporre artificialmente al frutto della produzione una legame 'metafisico' con un luogo comune. Al luogo 'reale' è infatti sostituita una figura banalizzata: l'Italia delle gondole dei mandolini, di Venezia e di Napoli fuse in una unica città ideale dell'Advertising. Una narrazione messa in scena in spot diffusi dal Broadcasting televisivo. L'Italia eco delle gesta della nazionale di calcio, l'Italia culla del cibo mediterraneo, l'Italia delle dimore di ricchi anglosassoni sulle colline toscane, l'Italia di Capri e di Taormina. Nella migliore delle versioni l'Italia eco del Rinascimento.
Si evoca in ogni caso un luogo che non c'è. Il Made in Italy è l'appello all'immaginario, la costruzione di un legame tra prodotto ed un luogo che non c'è. L'Italia del Made in Italy è un sogno creato da copywriter e da giornalisti.
Risulta evidente che questo immaginario può essere venduto da chiunque, non solo dagli italiani. Accettare di essere conosciuti attraverso simili immagini è rinunciare ad essere se stessi. Non si può essere radicati in un non luogo. Il non luogo è un furto di identità.

Cultura e produzione
Il prodotto è, nelle intenzioni del manager-come-si-deve, localizzato, mentre la fabbrica, invece, è, nelle intenzioni del manager-come-si-deve, privata del proprio luogo. Il manager-come-si-deve pretende che il luogo sia indifferente, Tychy in Polonia, o Pomigliano, o Mirafiori.
Pensa che norme per organizzare il lavoro valgano allo stesso modo in contesti culturali e sociali diversi. Basta una breve narrazione.
Ho lavorato per anni a Verona, nella Direzione del Personale di un grande sito produttivo. Bisogna sapere che a Verona, nella stagione della vendemmia, gli operai chiedono le ferie. Se non sono ferie sono permessi. Se non sono permessi saranno giornate di malattia, ma anche -atteggiamento che trovo di grande valore simbolico, e certo più etico della malattia programmata- donazioni di sangue: si dona il sangue per poter fruire in concomitanza della vendemmia di giorni di riposo, che sono in realtà di secondo lavoro, secondo lavoro che è nel sangue, radicato nella cultura.
Ma questo il  manager-come-si-deve non vuole vederlo, non sa vederlo, non può vederlo: non importandogli nulla di cosa e come pensa un operaio, per lui un operaio veronese o bergamasco, di Pomigliano d'Arco, Mirafiori o Tichy uguali sono. E programma così la produzione come se la cultura non esistesse.
Eppure, anche se le regole organizzative in base alle quali si produce sono le stesse, anche se le specifiche tecniche e gli strumenti di controllo sono gli stessi, se è diverso il luogo, è diverso il modo ed è diverso il risultato, perché è diversa la cultura del lavoro.
Luogo per luogo, cultura per cultura, il punto di partenza dal quale si inizia a formare un operaio è differente, il punto di arrivo al quale si può arrivare è differente. Il manager-come-si-deve vede in questa differenza un difetto da minimizzare. Eppure nella differenza tra un italiano, un polacco e un cinese sta un valore che può essere portato alla luce.

Dall'antro buio al paesaggio
Se il luogo dove si produce, la fabbrica, la sede dell'industria, finisce per essere intesa come un non luogo, un luogo situato non-importa-dove, è anche per un vizio di origine.
Troviamo in Omero l’espressione busso-doméuein: ‘costruire in profondità’, ‘dedicarsi a macchinazioni segrete’. Il latino ne offre un parallelo, probabilmente una traduzione letterale: endo-(‘all’interno’, ‘di nascosto’) -struos, da cui industria.
Già in latino industria sta anche per ‘diligenza’ e poi ‘attività’. E poi nelle lingue moderne il senso si allarga: ‘assiduità’, ‘abilità’, ‘capacità’, ‘skill’,‘professione’, ‘arte’, ‘mestiere’.
Ma il senso più strettamente legato al luogo del produrre resta in qualche misura sempre toccato dall'originaria accezione greca e latina. Potremmo dire che lo struere, ‘costruire’, è viziato dall'endo-. Così come una certa lettura vuole che il lavoro sia sofferenza, fatica, dolore, un certo modo di leggere la produzione, da Omero a noi, un diffuso atteggiamento, vede la fabbrica, l'industria, il sito produttivo, come un antro buio, un luogo segreto e sotterraneo. Un 'sotto luogo', un sottomondo dal quale è buono e giusto tenersi lontani.
Perciò accade che la la fabbrica possa essere ubicata indifferentemente a Tychy in Polonia, o Pomigliano, o Mirafiori o in qualsiasi luogo dell'estremo oriente. In Cina o in Pakistan o in Corea. Perché già in origine l'ubicazione della fabbrica è negata. Perché la fabbrica non è, nell'immaginario, ubicata in un luogo visibile, in luogo che non sta sulla terra, ma è ubicata invece un sotterraneo 'non luogo'. La fabbrica è vista come bruttura da nascondere, da cancellare. E' simbolicamente cancellata così dalle mappe del mondo che ci è permesso di vedere – come certi siti militari.
Acquista per contrappasso grande rilievo -contrappasso al tradizionale 'sotto luogo' e al moderno 'non luogo'- la visione di Adriano Olivetti: la fabbrica di Pozzuoli affacciata sul verde, immersa nel paesaggio. Un paesaggio indiscutibilmente italiano.

L'estetica dell'esserci
La fabbrica è il luogo dell'esserci e della cura: dell'essere insieme, attivamente all'opera, impegnati nella comune costruzione di ricchezza. Essere nel tempo e in un luogo: essere quando e dove serve.
Cura: sollecitudine, grande ed assidua diligenza, vigilanza premurosa, assistenza. Inquietudine: nel senso di preoccuparsi, farsi carico, non prendersela comoda.
Acquista così un profondo senso etico il rispetto dei tempi, dei turni, e la partecipazione all'organizzazione: necessità vitali, intimamente legate alla produzione, e quindi al perseguimento nella personale realizzazione attraverso il lavoro.
La fabbrica, così intesa, ha luogo. Sta in un posto preciso, perché lì stanno le persone al lavoro. 
Antichissima la radice indoeuropea stha-: ‘stare in piedi, momentaneamente fermo’. Status: ‘atto dello stare fermo’. Statione: ‘stare fermo’, e quindi il ‘luogo’, il ‘posto’, da cui sia la stagione, il 'fermarsi in un luogo' che la stazione, il 'luogo di sosta'. Di qui non a caso anche stabilimentum. origine ‘appoggio’, ‘sostegno’.  Da qui anche costo: dall'‘essere stabile’ emerge il ‘valore’.
In questa ottica possiamo rileggere il vizio d'origine che ci fa intendere la fabbrica come luogo sotterraneo, dal quale tenerci lontani. In questa ottica l'immagine della forgia, dell'officina del fabbro, buio antro illuminato dalla fiamma, trova il suo riscatto.
E' l'officina di Faust, è il laboratorio dell'alchimista. E' il luogo della poiesis, creazione di ricchezza, luogo virtuoso dove si realizza la necessaria trasformazione alchemica della materia prima in prodotto finito. Non è luogo che debba restare segreto, ma invece luogo dove il segreto -le nostre tecnologie, il nostro sapere distintivo, le nostre conoscenze- può manifestarsi e tradursi in risultati.
E' il luogo, anche simbolico, della produzione: Producere: 'condurre innanzi' il processo di lavoro, la 'lavorazione'; 'portar fuori': la fabbrica è il 'dentro' necessario a 'portar fuori' la ricchezza implicita nelle conoscenze e nei materiali.
Troviamo qui il legame tra la produzione e l'estetica. L'estetica è allo stesso tempo atteggiamento e punti di vista. E' l'atteggiamento ed il punto di vista di chi consapevolmente lavora, produce, crea ricchezza. L'estetica nasce nel luogo dove si lavora, si produce, si crea ricchezza. Asthetés: colui 'che sente, percepisce'. Aisthetikós colui 'che ha la facoltà di sentire, percepire'.

Bello e buono
Dove sta il bello. Il bello è intrinsecamente, originariamente legato, al bene e al buono. Bello: 'carino', diminutivo di buono. Bene: 'in modo buono'. Buono: secondo l'etimo: 'fornito di doni o virtù'.
Il bello, se non è finzione, se non è artificiosa costruzione di una apparenza vendibile, inganno dell'Advertising, è un prodotto 'fatto bene', frutto della consapevole azione del lavoratore, dell'“uom felice in sua operazione”. E d'altro canto, in modo complementare, il prodotto 'bello', 'fatto bene', è il prodotto che soddisfa concretamente le attese del cliente, è lo strumento che lavora con lui.
Dunque il bello, il bene, il buono, non sono che aspetti, sfaccettature della qualità complessiva. Qualità che si identifica con ciò che considerano valore i lavoratori ed i clienti. I lavoratori vedono il valore nel compenso che ricevono, ma non solo, vedono il valore nella possibilità di realizzare se stessi attraverso il lavoro. Analogamente, i clienti vedono il valore non solo nell'utilità materiale, e nel rapporto tra prezzo e qualità, ma anche nel valore d'uso.
Gli oggetti maneggevoli ed usabili, che accompagnano l'uomo nella sua quotidianità, hanno una loro intrinseca bellezza, intrinsecamente legata al buon funzionamento. Può essere bello solo un buon prodotto. Può essere bella solo l'automobile, comoda, sicura, durevole, maneggevole, dal giusto prezzo. Il rapporto tra etica ed estetica sta qui: è, in fondo il legame virtuoso tra la persona 'fornita di doni o virtù' e il prodotto, o bene, o servizio 'fornito di doni o virtù'.

L'etica come ottica e il malocchio della finanza
L'etica è un ottica, un punto di vista, un modo di guardare. O meglio, l'etica è il luogo di incontro di diverse ottiche. L'ottica del lavoratore, l'ottica del cliente, l'ottica del finanziatore, l'ottica della comunità locale con la quale l'industria interagisce, l'ottica del paese, l'ottica di chi vive in ogni altro luogo del mondo.
Potremmo aspettarci che i manager -buona classe dirigente- lavorassero per trovare un punto d'incontro tra le diverse ottiche. Ma no. Il manager-come-si-deve è al servizio di un solo padrone: la finanza. Questa è la globalizzazione: “ the process enabling financial and investment markets to operate internationally, largely as a result of deregulation”. Deregulation da parte di stati e organismi sovranazionali significa, per tutti, essere assoggettativi alle regole della finanza globalizzata e globalizzante.
Marchionne è il campione. La dottrina Marchionne, il suo vivere “dopo Cristo”, si riduce a questo: subordinare la produzione, e quindi il bello, il bene, il buono, a quello che conviene ad un solo attore: la finanza, nelle sue diverse incarnazioni. La finanza  definisce gli obiettivi e l'ambito d'azione. Niente può esulare da questo quadro. Niente di più e di diverso può e deve essere visto.
La finanza, in origine, è legata all'idea di fine: allo stesso tempo, 'scopo' e 'senso del limite'. Lo scopo nativo della finanza è sostenere la produzione. Il limite, sta nella consapevolezza del rischio e della vanità insiti nella continua accumulazione di ricchezza destinata solo a generare altra ricchezza.
Non possiamo non rimarcare la divaricazione. L'azienda produttiva vive della presenza, del perseguimento di uno scopo. L'attività finanziaria -che pure denominiamo con una parola che ci parla di scopo, e di senso del limite- si sviluppa e si alimenta e si gonfia, sempre più astratta, priva di altro scopo che non sia la propria esistenza. Senza fine, senza un attimo di respiro. Ricchezza virtuale.

Sotto il tallone della finanza
Anche i competitori  globali della Fiat sono costretti ad operare su un mercato dominato dalla finanza. Ma evidentemente a loro la qualità e il valore dell'automobile, il bello e il buono interessano di più. Se non fosse così, non sarebbe così evidente la differenza tra un'automobile tedesca e un'automobile italiana.
Possiamo, a ragion veduta, dire che, da un punto di vista etico, Marchionne guadagna troppo, visto le brutte automobili che la Fiat produce. Ma possiamo, a maggior motivo, dire che la Fiat fa brutte automobili perché Marchionne guadagna troppo.
Quando c'era Valletta le automobili della Fiat erano più belle, più ricche di valore percepito da lavoratori e da clienti. Valletta guadagnava venti volte più di un operaio della Fiat. Non era troppo lontano. Riusciva a capire, gli interessava capire, come pensa e come vive un operaio. Dedicava tempo all'organizzazione del lavoro, della produzione. La sua retribuzione dipendeva dal consenso dei sindacati, era dunque consapevolmente pagato anche dagli operai. E al contempo era pagato da chi comprava automobili Fiat. Considerava importante l'opinione dei clienti, degli automobilisti.
Marchionne guadagna quattrocento volte quanto guadagna un operaio. E' troppo lontano da operai e clienti. Non ha tempo per loro. Non gli interessa capire come pensa e come vive un operaio, né come coltivare e portare a valore le conoscenze dell'operaio. Dedica tempo innanzitutto agli investitori finanziari. Il suo scopo non è, in realtà, vendere o produrre automobili. Il suo scopo è rispondere alle aspettative del mercato finanziario. E' pagato non da operai e da clienti, ma da rentier -famiglia Agnelli, investitori di borsa, banche, operatori del mercato finanziario: banche, società di rating- in fondo come lui disinteressati alle automobili.
Agli investitori finanziari, ai percettori di reddito legato al valore di borsa -tra cui sta anche la famiglia Agnelli, e sta lo stesso Marchionne- non importa nulla dove sono prodotte le automobili, come sono prodotte le automobili. Non importa nulla produrre automobili che siano giudicate buone dai clienti. Importa solo che, con artifici contabilità o di comunicazione, il titolo faccia bella figura in borsa.
Il fatto che la Fiat di Marchionne produca automobili non è che un accidente, una infausta coincidenza. Si potrebbe anzi dire che Marchionne  ha motivo di disprezzare per le automobili. Ha motivo di essere indispettito perché il comparto produttivo automotive è meno redditizio dal punto di vista finanziario di altri comparti, come elettronica, o energia.

La lezione di Nishida: basho
Nei primi anni del Ventesimo Secolo, a partire da tradizioni filosofiche molto differenti,  in luoghi lontanissimi l'uno dall'altro, grandi pensatori ragionano sul senso dell'esperienza, ragionano attorno alla necessità di allontanarsi dagli scivolosi terreni della metafisica, e dai cieli dei modelli trascendenti: bisogna tornare al 'puro sguardo', al 'lasciar parlare le cose', senza imporre loro un senso estraneo. Edmund Husserl a Gottinga, William James a Harvard, Kitaro Nishida a Kyoto.
A Nishida mi avvicino con cautela. Difficile cogliere il senso di un pensiero che viene da un luogo così lontano. Ma credo che sia utile a tutti noi questo sguardo nutrito di cultura buddista e Zen. Del resto, nessuno sguardo filosofico, già cent'anni fa, era così attento a cogliere il senso di ciò che oggi chiamiamo globalizzazione, e a indicarcene i rischi.
Pur consapevoli di fermarci alle soglie di un pensiero sottile e raffinato, ci appare evidente che Nishida ci fa apparire grossolano e ipocrita l'ideologia marchionnesca.
Non ci può essere produzione, non ci può essere estica ed estetica, non c'è bello, né bene, né buono se non c'è basho.
Basho: dove, ubicazione, posto, topos, terra, focolare, base materiale e allo stesso tempo spirituale. Non radici alle quali siamo vincolati, ma luogo che abitiamo. L'esperienza che in ogni istante stiamo vivendo si situa in un qui. Solo se c'è basho c'è impresa e organizzazione che le persone possono intendere come dotata di senso.
Sensazioni, percezioni, corpo, contribuiscono al fenomeno emergente. Il fenomeno è questo, si manifesta così, solo in questo istante e solo in questo luogo. La produzione ha senso perché produco qui o , comunque in un luogo.
Solo se il basho -per sé e per gli altri, ognuno il suo basho- è accettato e vissuto, è possibile un pensiero globale che non resti affermazione vuota. Ed è possibile una produzione che tragga valore dal luogo.

 

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Qualche lettura per approfondire
A proposito del basho, e più in generale a proposito di etica della globalizzazione, di bello e di buono: Kitarō Nishida, Zen no kenkū, Iwanami Shoten, Tokio, 1911; trad. inglese An Inquiry into the Good, New Haven, Yale University Press, 1990; trad. it. Studio sul bene, a cura di Enrico Fongaro, Torino, Bollati Boringhieri 2007.
Sugli stessi temi, guardati dal punto di vista del management, ma al contempo a partire da una solida prospettiva etica, è particolarmente interessante questa intervista a Ikujiro Nonaka: Claus Otto Scharmer (ed.), Knowledge Has to Do with Truth, Goodness, and Beauty. Conversation with Professor Ikujiro Nonaka, Tokyo, Japan, February 23, 1996, http://www.dialogonleadership.org/interviews/Nonaka-1996.shtml
Oggetti maneggevoli ed usabili, che accompagnano l'uomo nella sua quotidianità: Heidegger parla di Zuhandenheit. Martin Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, Niemeyer, 1927; diciottesima edizione: 2001. Trad. it. L'essere e il tempo, ed. a cura di Alfredo Marini, con testo tedesco a fronte, Milano, Mondadori, I Meridiani, 2006, pp. 206-207 e p. 1412.
L'atteggiamento di Ottiero Ottieri selezionatore è criticabile, come del resto c'è da riflettere sull'atteggiamento dei lavoratori campani, ieri e oggi. Proprio per questo il romanzo di Ottieri è attualissimo. Ottiero Ottieri, Donnarumma all'assalto, Milano, Bompiani, 1959, ora siponibile in edizioni Garzanti e TEA.
Sarei ipocrita se non ricordassi anche, sui temi trattati nell'articolo, il mio Contro il management. La vanità del controllo, gli inganni della finanza e la speranza di una costruzione comune, Milano, Guerini e Associati, 2010.


1 - Su questi temi si ragiona nel primo percorso del ciclo 'Condividere conoscenze, costruire conoscenza', a cura di Francesco Varanini, presso La Casa di Vetro, via San Felice 3, Milano, il 28 ottobre 2010, dalle 18,30 alle 21,30, con la Tavola Rotonda iniziale alla quale partecipano Alberto Peretti, Luigi Cepparrone. Bruno Bonsignore, Walter Ginevri, e quindi nei tre seminari di approfondimento, l'11, il 18 e il 25 novembre, sempre presso la Casa di Vetro dalle 18,30 alle 21,30. Vedi il programma: http://www.scribd.com/doc/39528853/L-Etica-al-Lavoro-Ciclo-di-Incontri-a-Milano-presso-La-Casa-di-Vetro.

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