BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 14/03/2011

 

KRACAUER, LA VITA E IL LAVORO

di Francesco Varanini

Viviamo in tempi assurdi. Tra le tante prove di ciò, cito queste. Si parla di work life balance, come se il tempo dedicato al lavoro non facesse parte della nostra vita; come se fosse qualcosa di esterno alla vita stessa.  Deteriori esempi ci propongono come valore la ricerca di una eterna giovinezza mostrata nelle maniere più volgari, attraverso le prestazioni sessuali, attraverso la chirurgia plastica. Si rifiuta il lavoro così come si rifiuta il trascorrere del tempo e così come si rifiuta il nostro stesso corpo.
Di qui la biopolitica e le riflessioni sul desiderio espulso dal lavoro, un pensiero che arriva a noi per tramite di pensatori acuti -anche se talvolta oscuri senza motivo- Bataille, Foucault, Deleuze. (Le riletture estremiste e con la puzza sotto il naso degli eredi italiani dell’operaismo Anni Settanta aggiungono ben poco).
Però ben prima di loro -con impressionante lucidità , in un libo illuminante, Impiegati (1)- ci parla di tutto questo Siegfried Kracauer. Kracauer, scrivendo al termine degli Anni Venti del secolo scorso, ci insegna a leggere il nostro presente economico-produttivo, sociale e politico. Un libro profetico, recita il sottotitolo della traduzione italiana dei Einaudi. Peccato che la traduzione sia del 1971 e da allora non sia stata ristampata (2) Siegfried Kracauer e l'azienda interamente razionalizzata

Kracauer, geniale sociologo, potrei dire storico del presente, è criticato da compagni di strada -intellettuali non dappoco: Adorno, Benjamin, Bloch- per una caratteristica che ci appare come enorme pregio: l'essere un dilettante, un outsider, un irregolare, di profonda formazione, ma fuori da ogni scuola. Perciò lontano da chi, penso in particolare ad Adorno, si fa paladino del 'pensiero critico', un pensiero che va oltre scuole e confini disciplinari -filosofia e sociologia e ammonimento profetico-, fonda il pensiero critico, ma subito lo vuole trasformare in scuola, in interpretazione hegeliana del mondo.
Adorno, in quanto intellettuale di professione, si propone come figura sociale alla quale il mondo deve riconoscere speciale statuto, alla quale devono essere garantite da fondazioni e mecenati le risorse perché possano essere svolte quelle ricerche  che mostreranno alla classe politica cosa fare. All'opposto Kracauer si fa vanto del 'dilettantismo' -che è anche piacere o bisogno di scegliersi istante dopo istante l'oggetto di osservazione- e si paga la libertà facendo un altro lavoro. Laureato in ingegneria, ma attento frequentatore delle lezioni di Husserl, si è mantenuto per la maggior parte della  vita facendo l'architetto. E ha studiato quello che interessava, quello che appariva inevitabile oggetto d'attenzione. Ha scritto romanzi, ha studiato la strana natura del libro giallo, ha raggiunto la maggior notorietà con la sua originale, eccentrica riflessione sul cinema espressionista tedesco: film cupi, con i primi accenni di pazzi, vampiri e terrore sullo schermo, segno dell’inconscio collettivo della Germania pre-hitleriana,  sonno a occhi aperti che ha partorito il mostro. Opera originalissima, fino al punto che le normalizzatrici enciclopedie preferiscono Kracauer solo per questo.
Ma Kracauer, naturalmente, era molto di più. Il tema della direzione d'azienda e dell'organizzazione del lavoro gli salta agli occhi. Scrive nella fase terminale degli anni '20, pubblica all'inizio del 1930, senza preoccuparsi di rispettare standard metodologici, rinuncia a citare fonti illustri, cita semmai periodici di attualità, e si basa sullo spirito di osservazione e sugli incontri personali, sul 'puro sguardo' di Husserl, sul 'lasciar parlare le cose'.
Ecco qui, dico per inciso, un esempio di sovrano disinteresse per la scrittura accademica, per il rito della citazione legittimante e deresponsabilizzante. Ecco qui il dilettante dallo sguardo acuto, privo di pregiudizi e di appartenenze, lontano da qualsiasi tesi da difendere. All'opposto, Adorno incarna fino all'estrema pretesa di indipendenza nel giudizio la figura sociale che vediamo replicata nei teorici del management, anche nei migliori: sempre ammonitori e possessori di una verità, di una chiave di lettura, in fondo sempre parte di una classe dirigente che rinnova e aggiorna la propria lettura del mondo per restare in sella. 
Kracauer ha sotto gli occhi un cambiamento, l'emergere di un modello: non guarda  ai luoghi della politica e della protesta sociale, non guarda nemmeno alla fabbrica, mitico luogo di contropotere, guarda ad un  luogo raramente oggetto di attenzione di studiosi: i grandi saloni occupati dai tavoli degli impiegati, le mense aziendali, i raffinati uffici dei dirigenti.
Ha sotto gli occhi la crisi finanziaria che ha distrutto il valore creato dalla produzione. Ha sotto gli occhi gli effetti della 'razionalizzazione' che ha ha investito le aziende. L'onda dell'organizzazione scientifica del lavoro ha investito le fabbriche, ora organizzate come un nastro trasportatore, un processo. L'operaio, non più creatore dell'oggetto ma esecutore, l'operaio è costretto a star fermo, a non pensare. Il lavoro da fare, già definito nei minimi dettagli da un programma, gli si presenta inevitabile davanti agli occhi. Ma adesso, nota Kracauer, l'onda dell'organizzazione scientifica ha attraversato la fabbrica ed è salita ai piani superiori, ha raggiunto e invaso e assoggettato al suo controllo gli uffici. Maschi al lavoro attorno alle grandi macchine dei centri meccanografici, e nella sala accanto ragazze addette alla perforazione di schede, dattilografe allenate alla velocità attraverso appropriata formazione fondata sull'uso della musica - ovvero: cultura ed arte trasformate in strumento di controllo: il ritmo a tutti imposto dalla grande organizzazione orologio.
La tecnologia è al servizio del controllo: non più solo documenti redatti da scrivani, ancorché dotati di macchine da scrivere, ma moduli, schede e procedure codificate da macchine: il centro meccanografico è il cuore dell'azienda, il controllo si consolida e abbraccia ogni aspetto dell'azienda.
Il dirigente stesso è assoggettato alla macchina. Affida alla macchina la direzione: i piani strategici, così come il daffarsi quotidiano sono descritti e definiti da schede perforate. La direzione si riduce al controllo: il manager si limita a leggere i risultati e gli andamenti attraverso gli output forniti dalla macchina. L'organizzazione è una macchina che si impone ai gestori.

Il direttore commerciale di una fabbrica moderna mi spiega il funzionamento dell'azienda. “La preparazione commerciale del processo lavorativo -dice-, è interamente razionalizzata, fin nei minimi particolari”. Indica le tabelle, dove sistemi di linee colorate illustrano l'andamento dell'azienda. I piani sono incorniciati e appesi a una parete della sua stanza. Su un'altra parete si trovano due strane cassette che ricordano pallottolieri per bambini. Palline variopinte sono infilate le une vicine alle altre in corde verticali e raggiungono altezze diverse. Un'occhiata  a quelle palline e il direttore è subito al corrente della situazione dell'azienda in quel preciso momento. Ogni due giorni le palline vengono nuovamente raggruppate da un impiegato esperto di statistica. (p. 23 della trad. it.)

Di qui all'informatica, alla “ferraglia pensante” che trent'anni dopo avrebbe inquietato l'Heidegger anziano, di qui al Sap, il passo è breve.

Quanto più l'organizzazione è pianificata, tanto meno gli uomini hanno a che fare gli uni con gli altri. Coloro che occupano i posti direttivi non hanno praticamente la possibilità di sapere qualcosa degli impiegati delle regioni inferiori, che a loro volta non riescono mai a spingere lo sguardo nelle alte sfere. (...)
Ma dove stanno i signori dirigenti superiori, che hanno veramente la responsabilità dell'azienda? Anche il direttore (…) si trova per lo più in posizione di dipendenza, e si autodefinisce volentieri un impiegato, quando vuole farsi piccolo. Sopra di lui ci sono i consigli di amministrazione e le banche, e il vertice della gerarchia si perde nell'oscuro cielo del capitale finanziario. (pp. 33- 34 della trad. it.)

La macchina organizzativa, fondata su tecniche, sostituisce la direzione: la guida, il governo, la cura sono assenti dalla presenza della macchina. Di questa macchina il dirigente è vittima, ma anche causa, perché tutto origina da una sua  rinuncia ad essere realmente, affettivamente ed emotivamente presente come persona. Rinuncia a mettersi in gioco con la propria intelligenza, con la proprie conoscenze, con il proprio intuito. Rinuncia a comprendere l'azienda, e a valorizzare l'intelligenza collettiva che è la prima ricchezza dell'azienda. Rinuncia a 'tenere insieme' l'organizzazione, rinuncia ad essere disponibile all'ascolto dei diversi interessi compresenti.
Così, isolato in stanze chiuse, lontane dalla vita, autolimitato nel  proprio raggio d'azione, ridotto a far uso di procedure di controllo, perde la partita anche nei confronti delle banche e del capitale finanziario – di cui diviene vittima sacrificale ed esecutore.
Si arriva per questa via, per mano del manager, al prevalere, anche all'interno dell'azienda, al prevalere di oscuri interessi, originati in oscuri cieli: lontani investitori, invisibili soggetti tesi a trarre un loro profitto dalla vita dell'azienda. Il loro acume è premiato, l'azienda, in fondo, produce per loro. Il loro interesse prevale su ogni altro

Lavoro e vita: dove sta il senso

Ne consegue la perdita di senso. Cosa è mai questa organizzazione, asservita a interessi lontani, a persone invisibili? Gli altri portatori di interessi non possono riconoscersi nell'immagine dell'azienda che, ad uso e consumo degli investitori finanziari, appare sui mass media. Il lavoratore che quotidianamente vive in azienda vede negata, svalutata, contraddetta, la realtà che ha sotto gli occhi. Distorsioni originate in lontani luoghi si traducono in scelte che localmente, qui ed ora, appaiono assurde. Per chi sto lavorando? Quale scopo ha il mio lavoro? Privare le persone del costruttivo rapporto con il proprio lavoro, è privarle della vita.

Quanto meno [l'organizzazione aziendale razionalizzata] è sicura del suo senso, tanto più rigorosamente vieta alla massa degli uomini che lavorano di chiedersi qual è il suo senso. Ma se gli uomini non possono guardare ad un fine che abbia un significato  sfugge loro anche la fine estrema, la morte.  La loro vita, che per essere tale dovrebbe essere confrontata con la morte, si ingorga e tende a risalire ai suoi inizi, alla giovinezza. (…) Il mondo economico dominante non vuole essere scrutato al suo interno, per questo la pura vitalità deve necessariamente vincere. L'eccessiva esaltazione della giovanezza è una rimozione non meno della svalutazione della vecchiaia. (…) Entrambi i fenomeni provano indirettamente che nelle condizioni economiche e sociali attuali gli uomini non vivono la vita. (p. 49 trad. it.)

Togliere senso al lavoro, è togliere senso alla vita. Così la vita vissuta dal lavoratore finisce per essere forzosamente sostituita da una vita immaginaria. Essendo negata la possibilità di essere se stessi nel lavoro, si finisce per cercare soddisfazione nel consumo. Il tempo di lavoro è estratto dalla vita. La vita stessa è sostituita da un suo feticcio.
Disconosciuto dal dirigente il ruolo di testimone della compresenza di diversi sguardi, sconfessato
il compito di mantenere vivo il senso del lavoro di ognuno, il danno si allarga al di fuori dell'azienda, fino a togliere senso alla vita intera.

La giovinezza è il feticcio dei giornali illustrati e del loro pubblico, i più anziani la corteggiano, si cerca di conservarla mediante cosmetici e  mezzi di ringiovanimento. Se invecchiare significa andare incontro alla morte, questa idolatria della giovinezza ha il senso di una fuga dalla morte. (...)
La morte e la vita  sono intrecciate l'una con l'altra in un modo così profondo che non si può avere la seconda senza la prima. E dunque se la vecchiaia è detronizzata la giovinezza ha vinto, certamente, ma ha anche perso la vita. Nulla caratterizza il fatto che non si diventi padroni di essa che il gioco di rincorrere la giovinezza, che è un fatale malinteso chiamare vita. Non c'è il minimo dubbio sul punto che l'organizzazione aziendale razionalizzata favorisce questo malinteso, se non addirittura lo produce. (pp. 48-49 della trad. it.)

Kracauer ci apre gli occhi sul “fatale malinteso”, la rincorsa della giovinezza significa sostituire alla vita vera una illusoria vita a ritroso. E ci mostra il nesso. Il dare valore alla vita a ritroso nasce dalla perdita di senso del lavoro.
Guardare al senso della vita, significa guardare innanzitutto al senso del lavoro. Il lavoro ha senso se è illuminato contemporaneamente dallo sguardo del giovane e dallo sguardo dell'anziano. L'esperienza si costruisce con il passare degli anni. Dal lavoro nasce l'opera che sopravvive alla morte. Lavorando si costruisce la conoscenza – ma la conoscenze è peritura, perché nasce e muore con la persona.
Se la vita dotata di senso discende dal lavoro dotato di senso, qui si coglie pienamente il peso etico del ruolo. Creare condizioni nelle quali a tutti sia consentito un lavoro creatore di senso, è il primo dovere etico di una classe dirigente. Non credo che un dirigente degno del suo ruolo possa sottrarsi a questa riflessione. Eppure, i manager che conosciamo costruiscono il proprio ruolo su tutt'altro: accettano di essere killer, cancellando posti ed opportunità di lavoro. Prendendo per buono l'inganno della giovinezza e dell'apparenza virtù la giovinezza – considerando inadeguato al lavoro la persona che ha superato una certa età. Accettano di negare valore alla nuova vita, espellendo dal mercato del lavoro appena possibile le donne che potrebbero restare incinte.


1 - Siegfried Kracauer, Die Angestellten. Aus dem neuesten Deutschland, Frankfurt am Main, 1930; trad. it. Gli impiegati. Un'analisi profetica della società contemporanea, Einaudi, Torino, 1971.

2 - Estraggo queste pagine attualissime da Francesco Varanini, Contro il management, Guerini e Associati, 2011.

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