BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 08/03/2000

L’innovazione latente (dietro alle parole)

di Francesco Varanini

Cosa significa dire che l’innovazione è un processo? Dove risiede la capacità innovativa?

Siamo così abituati a confrontarci con modelli stranieri, anglosassoni, in particolari statunitensi, che tendiamo a leggere innovazione come imitazione di ciò che altri, all’estero, hanno già fatto. Ci sembra giusto e doveroso confrontarci con indicatori validi in ogni contrada –non a caso parliamo di globalizzazione e di internazionalizzazione come inevitabili necessità– ma così facendo ci dimentichiamo che molto spesso la capacità innovativa dalla quale nasce il successo della nostra piccola e media impresa dipende dalla fedeltà ad un proprio modello di sviluppo. Dimentichiamo che in ultima analisi innovare significa proprio restare lontani da quei modelli che costituiscono, a livello planetario, il punto di riferimento. Se tutti fanno così, l’innovazione sta nel tenersi lontani da quel modello.

Di fronte ad una normalizzazione di ciò che si intende per innovazione, acquista importanza lo stesso fatto di parlarne usando parole non consuete. Proviamo quindi a usare, invece di parole inglesi, parole latine.

Come pensa e come agisce l’imprenditore italiano che persegue l’innovazione? Parte dalla sua testardaggine, da una sua idea relativa all’uso di tecnologie, al ciclo di produzione, a modalità distributive, ad aspettative del cliente. Parte da questa idea, e cerca di tradurla in pratica. Certo ut certum fiat in re quod certum in mente: ‘combatto perché sia certo nei fatti ciò che è certo nella mente’.

Quando l’imprenditore ha successo? Si dice: quando intercetta un trend. Ma anche qui, guardiamo dietro alle parole.

Ci sono parole inglesi il cui uso pare del tutto immotivato, perché esistono termini italiani di identico significato. Così, sembra, per trend, espressione che può essere tradotta facilmente ed efficacemente con tendenza. Della correttezza della traduzione testimonia del resto il fatto che anche in inglese trend è considerato più o meno sinonimo di tendency (‘the general course or prevailing tendency’). Ma in questo caso l’apparenza inganna. All’origine di tendenza sta ten-, una radice indoeuropea particolarmente ricca e prolifica: da essa derivano tenere, mantenere, ma anche tono; derivano attendere, contendere, distendere, ma anche portento, tenerezza, standard. E ancora: intenzione, ostentare, ma anche tetano, tenia. L’idea originaria è la ‘tensione’. Pensiamo ad un punto di partenza, un punto fisso. Possiamo provare ad allontanarci, a tendere l’elastico. Ma il condizionamento originario resta, perché la radice ten– porta con sé un senso di ‘rigidità’, di ‘contrazione’.

Nel nostro secolo la parola assume con più precisione il significato di movimento che si realizza all’interno di fenomeni culturali, storici, economici. Un movimento che però, stando al significato remoto nascosto nell’etimologia, non è libero di esprimersi; un movimento già in partenza condizionato nei suoi sviluppi.

Dal nostro punto di vista: se l’imprenditore resta legato a una tendenza non fa innovazione. Lasciamo quindi da parte la tendenza e passiamo al trend. L’origine della parola (da cui nell’inglese di oggi trundle, ‘rotella’, ‘disco’; ed il verbo to trundle) sta una povera parola germanica, che ci parla semplicemente del movimento di un oggetto circolare o sferico.

È così che mentre la tendenza rimanda a un sistema chiuso, ad un quadro governato da forze e controforze, dove ogni massimizzazione è vincolata, il trend ci parla di movimenti irreversibili e destinati a crescita costante. Ci parla di ‘effetto valanga’, o per dirla con Bob Dylan di fenomeni che si evolvono like a rolling stone.

Qual è l’imprenditore capace? È chi a partire da una idea abbandona i punti di partenza e le sicurezze. Non è chi ri–struttura, re–ingegnerizza, rin–nova. È chi in– nova. Il prefisso ri– esprime ripetizione, duplicazione, ritorno a una fase anteriore. All’opposto in- indica mutamento, cambiamento di stato (il commerciante in–cassa ciò che prima non aveva in cassa).

All’origine dell’innovazione sta la radice indoeuropea new–, da cui il sanscrito návah (návas), ed il greco neós, sempre nel senso di ‘nuovo’. Novum nel latino tardo assume con più ampiezza il valore di ‘fresco’, ‘da poco tempo’, ‘non ancora adoperato’.

Nell’italiano delle origini, dal diminutivo latino novellum, si afferma –prima di nuovo– l’aggettivo novello. Da cui novella: ‘cosa, fatto nuovo’, e quindi anche ‘racconto immaginario di un fatto’: è questa l’origine del francese nouvelles ‘cose recenti’, e quindi (dal 1500) ‘informazioni’; e dell’inglese novel, che fino al 1400 stava per l’attuale news, e che dalla metà del metà 1600

sta per ‘fictitiuos prose narrative’. News, che aveva dal 1330 il valore di novelties, ‘novità’, acquista dal 1400 il senso di ‘notizie’.

Interessante ricordare che dalla stessa radice indoeuropea derivano non solo il sostantivo e l’aggettivo nuovo e new, ma anche la forma avverbiale indicante il ‘tempo presente’: il greco nun, il latino nunc, il gotico, sassone, antico alto tedesco, antico inglese, e oggi olandese, nu; il tedesco nun; l’inglese now.

Ciò che è nuovo –però– non è di per sé ‘migliore’. Ciò che è nuovo si oppone radicalmente a ciò che è vecchio. Ed è adatto e corrispondente alle esigenze del ‘tempo presente’. Il nuovo è ciò che serve adesso. Adesso deriva da ‘ad ipsum (tempus)’, ‘allo stesso tempo’; è ciò che serve ora: ‘ipsa hora’, ‘ea ora’: ‘in questa (stessa) ora’.

Si potrebbe così dire che è nuovo ciò che è attuale: ‘che agisce’, ‘che è in atto’, ‘che ha superato lo stato potenziale e si è fatto realtà’. L’italiano è ricalcata sul francese actuel, dal 1750 espressione tecnica del linguaggio medico: così è la medicina somministrata al malato, ‘produce i suoi effetti in un dato momento’.

Innovare, dunque, non significa cercare qualcosa di diverso da ciò che già si ha, o creare a partire da un progetto. Significa dare concretezza alle cose che il tempo presente, o anzi l’attimo fuggente, rendono necessarie. Perciò processo innovativo: ‘cammino in avanti’ che non può conoscere soste. Eppure, nemmeno se abbiamo consolidato questa capacità potremo ritenerci soddisfatti. All’imprenditore è richiesto qualcosa di più. Perché l’innovazione rispondente ai bisogni dell’oggi apparirà domani inutile o obsoleta.

La nostra idea imprenditoriale poteva essere buona in un tempo passato, ci garantisce ancora oggi un qualche vantaggio competitivo – ma quale valore avrà domani? Scendendo terra terra: cosa accadrà domani, quando imprenditori coreani o cinesi o sloveni o turchi saranno effettivamente competitivi con i nostri piccoli e medi imprenditori?

Sotto questo punto di vista il successo di oggi non ha, purtroppo, nessun rilievo. Ancora ci aiuta il latino: factum è ciò che è compiuto, realizzato, ciò che ha ormai preso una forma inalterabile. Ciò che è fatto è fatto. I facta leggono l’oggi a partire dal passato. Perciò la vera innovazione non abita qui. Futurum è –invece– ciò che è tuttora in corso, allo stato fluido, capace di realizzarsi e di compiersi in maniere diverse. È il regno delle possibilità. È la speranza di prevalere sui mercati nel domani.

A questo ha saputo guardare negli anni

del dopoguerra il piccolo e medio imprenditore italiano. Dovremmo domandarci: saremo capaci di farlo domani, in uno scenario che possiamo solo intravedere? Aspettare di ‘vederci chiaro’ significherebbe arrivare troppo tardi –lo sa bene l’imprenditore che nei decenni scorsi aveva saputo muoversi in base a intuizioni, congetture, sogni. Ma appunto, saremo capaci di farlo domani? Anche senza ‘vederci chiaro’ sappiamo che dovremo confrontarci con competitori diversissimi da noi per cultura, con nuove tecnologie che mutano il senso della distanza e del tempo? Siamo preparati?

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