BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 31/07/2000

COME PORTARE A BILANCIO LE NUOVE IDEE?
Le tecniche contabili di fronte alla New Economy

di Francesco Varanini

Nel 1994 e nel 1995 America Online aveva capitalizzato parte dei costi di acquisto della clientela. Secondo America Online, quei costi erano risorse: tramite l’acquisto di quei clienti, l’impresa avrebbe in futuro prodotto più reddito. Ma gli esperti di controllo di gestione, e gli stessi analisti finanziari, criticarono aspramente la scelta, giudicandola un artificio: America Online, si diceva, manipola i conti, attribuisce indebitamente valore di investimento a quello che è un mero costo di gestione.

Così, nell’ottobre del 1996 America Online cede alle pressioni e inserisce tra le uscite 385 milioni di dollari spesi per acquisire i clienti. Confezionato in questo modo, il bilancio appare a tutti più realistico. Ma oggi America Online ha un valore di mercato che si aggira sui 142 miliardi di dollari. E gran parte del valore si fonda sull’esistenza di un parco clienti costruito nel tempo.

Dunque, America Online aveva ragione a considerare investimento i clienti. Quei 395 milioni di dollari forse nel 1995 erano troppo pochi. Forse ora America Online è anche sopravvalutata da un mercato finanziari che punta molto sui titoli Internet – ma ormai appare chiaro a tutti che la valutazione delle risorse intangibili è un problema chiave; e appare anche chiaro che le modalità consolidate di rilevazione contabile, di controllo di gestione, di costruzione dei bilanci, appaiono inadeguate.

Così, forzata dai modelli contabili consolidati, durante la sua incredibile crescita America Online ha messo tra le uscite tutti i costi relativi all’acquisizione dei clienti: come se i clienti fossero fonti di perdite. Poi, una volta acquisiti i clienti, la società ha visto, in virtù di quei clienti, aumentare i suoi profitti.

In entrambi i momenti, a ben guardare, i rendiconti finanziari non erano corretti. Appare evidente la forbice tra la valutazione di una impresa costruita in base ai principi contabili, e la valutazione data dagli investitori.

I contabili –e gli stessi manager d’impresa– tendono a restare fedeli a valutazioni consolidate: preferiscono non mettere a bilancio patrimoniale nulla che potrebbe rivelarsi in futuro senza valore. Invece i venture capitalist e la borsa qualche volta magari esagerano e sopravvalutano, ma sanno guardare al valore futuro nascosto in quelli che oggi appaiono solamente costi. Di qui l’apparente assurdità di una situazione che vede premiate dagli investitori imprese che accumulano perdite.

Tutto questo, naturalmente, è reso particolarmente significativo dal fatto che Information & Communication Tecnology, Internet, biotecnologie, ci mostrano che le imprese di successo sono Research & Development based Enterprises; Science-based Companies; Knowlwdge-based Enterprises; Intangibles-Intensitves Companies. Imprese il cui valore sta in risorse immateriali. Sta nel parco clienti acquisiti, ai quali in futuro potranno essere offerti più prodotti o servizi. Sta nel brand, che permette di vendere in futuro prodotti o servizi a prezzi più alti della concorrenza. Sta nella capacità organizzativa, non grandi innovazioni o invenzioni, ma l’attitudine a realizzare sistemi di lavoro sempre nuovi, più efficaci e snelli rispetto alla concorrenza. Sta in ciò che si sta sviluppando nei laboratori di ricerca, e che in futuro potrà trasformarsi in prodotti vendibili. Sta, infine, ‘nella testa delle persone’, o nelle basi dati che raccolgono ciò che le persone hanno pensato, sta insomma nel knowledge.

È ormai cosa comune sentir dire: "il futuro è l’economia della conoscenza". A questo modello si sforzano di avvicinarsi anche le grandi corporation abituate fino ad oggi a misurare il loro valore attraverso ‘cose tangibili’: le automobili prodotte, le scatole di detersivo vendute. Perché i prodotti diventano presto obsoleti, possono essere facilmente copiati. Ciò che non può essere copiato è la nostra capacità di innovazione, quello che non si è ancora fatto.

Ma come si fa a stabilire il valore della conoscenza? Come si fa a mettere a bilancio le idee?

Misurare il valore di in immobile, o di un impianto industriale, o di un prodotto o servizio consolidato, è relativamente facile. Perché ci si basa sul passato: su ciò che si è già fatto e quindi si è imparato a misurare. Misurare il valore della conoscenza, invece, significa formulare inferenze particolarmente rischiose, tutte giocate su ‘cosa accadrà domani’. Significa saper intercettare i trend: di ciò che oggi stiamo studiando in laboratorio, cosa interesserà ai clienti? Del resto, chi prevedeva gli straordinari effetti di Internet, un protocollo di comunicazione nato per scopi militari, usato fino agli novanta solo in ambito universitario?

Servono dunque strumenti contabili nuovi, in grado di quantificare le risorse e i profitti intellettuali. L’economista americano Baruch Lev (The Philip Bardes Professor of Accounting and Finance, Stern School of Business, New York University, , and the Director of the Intangibles Research Project at NYU, www.stern.nyu.edu/~blev) propone per esempio una misura che si basa al contempo sui profitti passati e futuri. L’indice –il "profitto normalizzato"– tiene conto della redditività attuale delle conoscenze, e –sulla base delle stime degli analisti– della reddittività che le conoscenze saranno in grado di generare in futuro. Dal profitto normalizzato è sottratto il rendimento medio delle attività materiali e finanziarie, partendo dal presupposto che si tratta di risorse sostituibili. Si ottiene così il profitto legato alla conoscenza. In concreto: una industria farmaceutica ha laboratori e stabilimenti di produzione. Le attrezzature sono sostituibili, mentre non lo sono le persone, i brevetti le conoscenze. Si sottrae quindi dal profitto normalizzato un rendimento ragionevole attribuito alle attività slegate dall’innovazione: la produzione fondata su investimenti già ammortizzati, il valore degli immobili e via dicendo. Resta così evidenziato, appunto, il profitto esclusivamente legato alle conoscenze.

In questa maniera Lev giunge a determinare che Microsoft possiede risorse intangibili per 211 miliardi di dollari (è il record mondiale). Mentre Intel ne possiede per 170 miliardi. E la società farmaceutica Merck & Co si attesta sui 110 miliardi (a fronte di una capitalizzazione di mercato di 154 miliardi). Si tratta di imprese la cui ricchezza sta innanzitutto nella Ricerca e Sviluppo, e nell’alto livello di conoscenze dei dipendenti. In altri casi la risorsa intangibile fonte di grande valore è pressoché esclusivamente il brand: è il caso della Philip Morris (160 miliardi), o della Coca Cola (60 miliardi).

Su questi temi, in particolare negli Stati Uniti, ferve il dibattito. Si parla tanto della ‘bolla speculativa’, che certamente esiste. Esistono società sopravvalutate in funzione del loro valore futuro. Ma esistono anche una miriade di imprese, in particolare nel settore dell’informatica e delle biotecnologie, che hanno investito molto nella ricerca e che sono sistematicamente sottostimate dagli investitori. Hanno bassi o inesistenti profitti, come visto anche a causa dei metodi contabili usati. Per loro il costo del capitale è notevolmente alto, e questo ne impedisce la crescita.

Cosa fare? In linea di principio si è tutti d’accordo sul fatto che se si inizia a ragionare sugli asset intangibili, come oggi si deve necessariamente fare, qualcosa deve cambiare negli strumenti di misurazione del valore. Però, di qui a cambiare qualcosa nei GAAP, i Generally Accepted Accounting Principles, gli standard ed i criteri di valutazione in base ai quali vengono redatti i bilanci ed efettuati i controlli, ce ne passa.

Il fatto è che gli strumenti adottati, se penalizzano la crescita della new economy, rispondono ad abitudini ed interessi consolidati.

Gli investitori istituzionali e gli analisti finanziari perderebbero un ‘vantaggio competitivo’ se le informazioni riservate diventassero pubbliche e note a tutti. Contabili ed auditors sono restii ad adottare criteri di valutazione intrinsecamente più rischiosi. E poi si dovrebbe buttare a mare buona parte del know how accumulato da società di auditing. Si dovrebbero modificare norme di legge. Si dovrebbe rifare tanto software di gestione.

Si dovrebbero soprattutto mettere in discussione i fondamenti del metodo contabile –la partita doppia– che adottiamo da cinquecento anni, e che fino ad oggi si è dimostrato efficace. Luca Pacioli, il frate minore francescano che l’inventò, matematico, umanista, amico di Pier della Francesca, Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci, tipico esponente del rinascimento italiano, aveva creato un sistema perfetto. Si mettono a confronto le entrate e le uscite; di conseguenza si ottiene una cifra affidabile che corrisponde al profitto o alle perdite. Dunque, la creazione di valore è legata al momento dello scambio, della transazione (di qui tutti quei comportamenti economici che ci sembrano ovvi: si pensi all’iva: si tassa ogni passaggio, pensando che al passaggio sia legato l’incremento di valore).

Quando si lavora con le risorse intellettuali, però, il valore si genera senza transazioni. Quando un nuovo software esce dalla fase di sviluppo e supera la fase di test, si crea un gran valore, senza che ci sia stata alcuna transazione, alcun passaggio di denaro. Altrettanto dicasi per la distruzione del valore: se una grande casa editrice impiega troppo tempo a trasformarsi in produttore di contenuti multimediali viene distrutto un grosso valore. Ma questa distruzione non appare in nessun bilancio.

In entrambi i casi nessuno ha comprato o venduto nulla. Eppure niente è come prima.

Se non è ancora tempo per parlare di nuove regole per l’accounting e di nuovi indicatori, si possono comunque perlomeno elencare con chiarezza quegli asset che normalmente sono nei bilanci pressoché invisibili. Ma che appaiono, oggi, la principale fonte del valore.

Attività associate alle innovazioni di prodotto (o servizio). Attività di Ricerca & Sviluppo, sia svolta in laboratori, sia svolta nel quadro del normale ciclo di produzione, nella logica del miglioramento continuo.

Fattori legati alle politiche di marchio. Caratteristiche del brand, o dei brand, che –a parità di contenuto tecnologico– differenziano il prodotto o servizio da quello dei competitori.

Risorse strutturali. Capacità organizzative, orientamento al cambiamento continuo, flessibilità, attitudine ad adattarsi ai mutamenti del contesto, individuando di volta in volta il processo più efficace.

Mercati protetti. Scomparse le situazioni di monopolio, restano situazioni di vantaggio legate a concessioni, licenze di esclusiva, limitato numero di competitori definito per legge, presenza di barriere difficilmente per i competitori.

Si tratta, insomma, di portare alla luce, anche da un punto di vista contabile, quei fattori sui quali si fonda la capacità di creare ricchezza nel mercato della new economy. Dove ciò che conta sono le risorse intangibili. E dove ciò che è veramente importante, e che il mercato finanziario premia, non è ciò che si è già fatto –i successi o le best practices passati– è ciò che forse noi (solo noi) si sarà capaci di fare domani.

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