BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 06/11/2000

Flexibility: la sesta lezione americana di Italo Calvino1

di Francesco Varanini

Siamo così giunti alla sesta lezione, l’ultima. Per introdurne il tema, mi sia permesso un intermezzo che è personale, ma come vedrete anche strettamente legato alla genesi di quanto sto per dirvi.

Abbiamo viaggiato attraverso Lightness (leggerezza), Quickness (rapidità), Exactitude (esattezza), Visibility (visibilità), Multiplicity (molteplicità).

Mi ripromettevo, in conclusione, di completare il discorso presentandovi la Consistency. Così stava scritto nel programma, e su questo tema mi ero proposto di lavorare qui ad Harvard. Mentre le altre lezioni erano state preparate in Italia, per scelta, o per impossibilità di fare altrimenti, avevo lasciato inconclusa la sesta. Mi ripromettevo di portarla a termine anche tenendo conto delle mie sensazioni americane. Poiché di lezioni si tratta, parole destinate non alla pagina scritta all’oralità e al dialogo. Se per l’autore di un romanzo è possibile, forse, progettare il proprio lettore ideale, del tutto impossibile mi pare prevedere le sensazioni del conferenziere durante la lettura del suo testo. C’è in questo secondo caso una ‘attualità’ intrinseca che si presenta nuova di volta in volta. È la messa in scena, il teatro. E voi, che siete qui presenti ad ascoltarmi, con le vostre reazioni, con i vostri commenti, mi avete impedito di concludere parlandovi di Consistency.

Consistency: densità, compattezza, coerenza logica, conformità, costanza, risolutezza. Continuo a ritenere che questo sia un valore letterario inestimabile. E continuo a pensare che il testimone esemplare di questo atteggiamento sia un personaggio tanto americano quanto universale, misterioso eppure straordinariamente vicino a noi. Penso allo scrivano Bartleby.

Il racconto di Melville (non più di cinquanta pagine, uno dei The Piazza Tales) è denso e compatto, e allo stesso tempo ci parla della costanza e della risolutezza del protagonista. Conoscerete la storia: siamo attorno alla metà del secolo scorso, Bartleby, scrivano presso un avvocato di Wall Street, ha una concezione tutta particolare dell’etica del lavoro. Bartleby è coerente con se stesso fino all’assurdo, nel suo rifiutarsi di svolgere mansioni legittimamente richieste. Bartleby lavora, ma accetta solo un certo tipo di lavoro; a tutto il resto gentilmente ma inflessibilmente risponde: ‘I would prefer not to’, ‘preferirei di no’. L’avvocato chiede ciò che normalmente chiede ad ogni dipendente, ma si scontra con un muro – anzi, un sipario verde: di questo colore è il paravento dietro al quale lavora Bartleby, e il paravento è simbolo e conferma dell’insondabilità dei mondi soggettivi, dello spazio privato che ognuno sempre si ritaglia nel lavoro.

Fin qui, potremmo dire, siamo in pieno nel campo della Consistency. Ma dove ci porta la nostra costanza e la nostra risolutezza? Possiamo, scrivendo, veramente controllare un testo? E possiamo, allo stesso modo, guidando le persone che lavorano con noi, condurre veramente le loro azioni là dove vorrebbe la coerenza, la pura logica? Possiamo, in una parola, dominare i sistemi a partire dalle nostre buone intenzioni e dalle nostre capacità?

Per quanto non sia facile ammetterlo– e qui, lo ammetto, parlo di Italo Calvino scrittore di romanzi, di opere che vorrei totalmente progettate e controllate– per quanto non sia facile ammetterlo, proprio lì dove più importante ci appare esercitare il controllo, ci accorgiamo della labilità degli strumenti e dei limiti delle nostre stesse capacità.

La scrittura di Melville, al di là della sua estrema, ma superficiale Consistency, è a ben guardare un affastellarsi di eccessi e di digressioni – che però si apre in momenti di aerea leggerezza, in cenni rapidi, in sottili allusioni psicologiche. Il meglio di Melville, forse, sta proprio in questi momenti di abbandono: allora la pagina sembra crescere involontariamente, a prescindere dall’autore. La pagina raggiunge una sottile, aerea trasparenza, nel mentre –dietro l’oggettività della cronaca– si carica di significati arcani. Di questo Melville conciso e metafisico Bartleby è l'esempio più compiuto. "Bartleby era uno di quegli esseri su cui nulla si può appurare". Resta misterioso non solo per noi lettori, ma per l’autore stesso.

Quale è la dura lezione? Il disordine deve essere accettato. Non tutto può essere ricondotto a regole. Perciò i privilegi e le esenzioni inaudite che Bartleby sa conquistarsi e misteriosamente difendere sono a prima vista aurea manifestazione di Consistency. Ma sono anche, molto più profondamente, esemplare indizio di un atteggiamento che è forse l’esatto opposto della Consistency: la Flexiblility.

Cercherò di spiegarmi. Del resto, quella brava persona che è l’avvocato, datore di lavoro, ce lo dice chiaramente: ‘con qualsiasi altra persona sarei andato subito su tutte le furie, non avrei ascoltato un'altra parola; avrei cacciato ignominiosamente il dipendente’. ‘Ma vi era qualcosa in Bartleby che non solo mi disarmava stranamente, ma che anche in modo straordinario mi toccava e sconcertava’.

Con lui, l’arma gestionale della Consistency si mostra inefficace. Bartleby ci disarma, ci tocca nel profondo e ci sconcerta: ci costringe ad essere flessibili. Così l’avvocato trasferisce a Turkey e Nippers, gli altri due scrivani, le mansioni dalle quali Bartleby è perpetuamente esentato.

E così, leggendo, ci appare evidente che l’interna coerenza del testo del racconto resta inspiegabile, e trova spiegazione solo nella sua stessa negazione. Il testo è resto coerente dall’incoerenza di Bartleby, personaggio estraneo allo stesso racconto che di lui ci parla. In questa maniera, Bartleby ci impone di essere flessibili: anche il testo più meravigliosamente progettato si scontra con il mistero del personaggio protagonista che prende il sopravvento sulle stesse intenzioni dell’autore.

Così lo scrittore che vi sta parlando –che ha ritenuto suo dovere progettare al meglio le proprie opere– si è reso conto, nelle sue giornate harvardiane, di non essere riuscito a scrivere l’ultima lezione proprio perché il tema pensato per essa tradiva un eccessivo controllo. Quel controllo eccessivo che, lo ammetto ora di fronte a voi, spesso danneggia il romanzo, appesantendolo, togliendogli quelle qualità che insieme abbiamo esplorato, e che abbiamo considerato essenziali per la narrativa avvenire: leggerezza, velocità, esattezza, visibilità, molteplicità.

Dunque, Consistency e Flexiblility, tra queste due strade io oscillo continuamente e quando sento di aver esplorato al massimo le possibilità di una mi butto sull’altra. Ora, contrariamente a quanto pensavo, sento di dover camminare con voi per i sentieri della Flexibility.

Sulle stesse parole, si può ragionare: ero in dubbio se parlarvi di Resilience: ‘rimbalzo’, ‘elasticità’, ‘capacità di recupero’; ‘To have resilience’: ‘avere capacità di ripresa’, ‘tener botta’. Siamo di frotnea d un atteggiamento strettamente imparentato con la Flexibility, ma c’è una sfumatura diversa. Resilience ci parla in qualche modo di re–salire, ‘tornare indietro, recoil, ‘indietreggiare’, ‘rifuggire’. Un atteggiamento ancora fondato sulla rigidità che, mi pare, mal si compendia con la leggerezza, la velocità, , l’esattezza, la visibilità, la molteplicità. Flexibility, invece, non presuppone il ritorno ad uno stadio iniziale, ad un atteggiamento precedente. È arrendevolezza, docilità, duttilità, adattabilità, prontezza nell’afferrare e nell’adeguarsi alle situazioni, sensibilità.

Non per questo la flessibilità è assoluta. La canna si piega al vento, non per questo essa ha una resistenza assoluta alla flessione: un vento eccessivo la spezzerà. Così si conclude tragicamente la vicenda umana di Bartleby.

La flessibilità, potremmo dire, è la continua ricerca di condizioni tali da garantire la possibilità di piegarsi senza spezzarsi. Di questo ci parla uno stretto parente di Bartleby, un altro impiegato, l’eterno protagonista delle pagine di Robert Walser. Bancario, operaio, magazziniere, libraio, anche lui copista, archivista, infermiere, segretario ed anche domestico in un castello della Slesia, cerca in apparenza l’umiliazione, ci racconta di come sia sempre possibile nascondersi dietro a un ruolo, e trovando in questo fonte di flessibilità. Come dire: non sono totalmente in gioco, posso flessibilmente adattarmi alle condizioni di lavoro che il mercato mi propone, perché sono sempre anche altrove, sono sempre, anche, un’altra persona.

Potrò quindi accettare la dura legge di un severo mercato del lavoro, il lavoro come servizio offerto a progetti non propri, potrò anche amare una uniforme, perché dietro di essa si può sfuggire all'attenzione dell'autorità.

Quello di Walser, è un atteggiamento che ha radici ottocentesche –l'apologia romantica della vita vagabonda e spensierata del giovane perdigiorno–, eppure, contemporaneamente, ci appare in anticipo sui tempi. Si affaccia sul mercato del lavoro all’alba del ventesimo secolo, in anni in cui non si erano ancora affermati il taylorismo e il fordismo. E già critica la scientifica parcellizzazione delle mansioni, il cottimo, il paternalismo padronale, la centralità della fabbrica. Walser però non oppone alla nuova norma organizzativa la nostalgia di un passato preindustriale, si chiede invece come –facendo esercizio di flessibilità– si possano coniugare i bisogni del lavoratore con le esigenze dell'organizzazione.

Walser arriva fino all’estrema manifestazione di flessibilità. Pur di non subire lo stillicidio quotidiano delle aggressioni alla propria soggettività, raggiunta la mezza età, senza essere realmente ‘malato’, smette di scrivere e si rinchiude volontariamente in una casa di cura. E così, a differenza di Bartleby, non soccombe. Si piega, senza spezzarsi. Si piega, per non spezzarsi.

Come fare? Non esiste una risposta, una sola risposta. Usando un’altra cifra linguistica, quella della scienza contemporanea, potremmo dire che di fronte a un sistema sociale ed economico in apparenza caotico, e comunque intimamente complesso, non possono esistere soluzioni semplici, né one best way buone per tutte le occasioni. Anche l’accettare questo è manifestazione di flessibilità. Flessibilità di fronte alla conoscenza, alla possibilità di dominare il sistema –qualsiasi sistema, il sistema testuale, il romanzo che al suo stesso autore appare in certi momenti magma insondabile, così sistema socioeconomico. Le speranze ottocentesche fondate sulla scienza e sulla tecnologia –illusorie speranza la cui ultima manifestazione ci appare attraverso i romanzi di Zola– sembravano garantire possibilità di controllo. Ma ora, guardando al millennio prossimo venturo, appare fondamentale apprendere la lezione della flessibilità: che è rinuncia a capire tutto, e rinuncia allo stesso tempo alla illusione di una piena soddisfazione delle aspirazione soggettive. Solo così sarà possibile un equilibrato rapporto con il mondo.

‘Non bisogna andare a scrutare dietro a ogni segreto’, ci ammonisce Walser, e questo vale per l’autore di un libro come per il direttore del personale di una qualsiasi organizzazione.

E vale per l’imprenditore. Mi sia permesso qui di parlare a voi, che conoscete le più avanzate frontiere dell’atteggiamento imprenditoriale, di una specie particolare di imprenditore. La cui arte, credetemi, risiede proprio nella estrema flessibilità.

Ne troviamo rappresentazione esemplare in un recentissimo romanzo italiano. Aldo Busi, nel Venditore provvisorio di collant, ci presenta una figura di imprenditore che credo destinata a restare nella storia della letteratura. Lometto, incolto e volgare imprenditore, è un campione di flessibilità. ‘Sapeva che saper perdere subito significava già di per sé una fonte di guadagno assicurato, sulle perdite future’. ‘Il ritornello: saper perdere subito era il miglior guadagno e investimento. E passare immediatamente all'attacco su fronti non previsti dai "cucchi"’.

Ai fattori di rischio e di crisi si risponde con la capacità di adattamento. Il ciclo ha una sua evoluzione naturale, drammatica, che non può essere normalizzata da nessun ottimismo keynesiano. Gli ammortizzatori sociali non producono altro che ritardo. Lometto lo sa, e conosce un solo brutale modo per guadagnarsi la stima nel mondo del lavoro: ‘mandare a cagare e passare a altri cessi, senza tirare lo sciacquone’.

L’atteggiamento di Lometto indigna Bazarovi, l’intellettuale protagonista del romanzo, trasparente alter ego dell’autore, e indigna anche noi. Ma bisogna ammettere che è indignazione estetica. Ci piace dire che alla bruttura fisica corrisponde alla bruttura morale. Ci piace leggere la sguaiataggine e la volgarità come sinonimi di sconfitta. Di fronte alle brutture ci piace essere inflessibili. Si tratta, però, di un atteggiamento difensivo sul quale dovremmo interrogarci.

Al fisico sfatto di Lometto corrisponde un realismo che è sì sguaiato e volgare, ma è anche vincente. Il mondo sognato da Bazarovi –un mondo dove prevalgano l'autolimitazione, la conoscenza, il rispetto delle regole– resta una utopia: il mondo che ha luogo –il mercato– è quello di Lometto.

La stalla dotata di ascensore industriale e maioliche di Faenza all'ingresso, stalla edificata con mutui agevolati che è in realtà un impianto industriale, è l’irridente simbolo del modello di sviluppo lomettiano. Lometto non perde tempo a dire che lo spirito imprenditoriale è penalizzato da lacci e lacciuoli. Per lui non cambia molto se c’è intorno un sistema di leggi o di assenza di leggi. Si tratta sempre e solo di vincoli da rimuovere, da trasformare in opportunità.

Vi ho così parlato della particolare forma di flessibilità che trova il suo campione nel piccolo imprenditore italiano.

Ma voglio tornare ora, in conclusione, a rendere omaggio all’America, che –in fondo– è per noi europei sempre la terra del sogno. La terra dell’utopia.

Chiuderò perciò questa ricognizione dei valori che dovranno accompagnarci nel prossimo millennio con un sogno americano. L’unico Kafka cristallino e sognante. L’unico Kafka lontano da ogni Consistency. Dove si legge la fiducia negli ampi spazi del mercato. Dove poeticamente si parla di come il lavoro c’è, purché si sia disposti a credere che siamo capaci di crearlo. È la ‘società dello spettacolo’: la stessa selezione del personale è trasformata in un evento giocoso, en plein air.

È questo il Kafka che vi consiglio, il Kafka flessibile, assurdo ma giocoso, il Kafka–non–kafkiano. Il Kafka di America.

In un ippodromo –all’ingresso angeli che suonano trombe, alti su trampoli– è messa in scena la selezione del personale per il Teatro Naturale di Oklahoma. (Impresa di cui non si sa nulla: anche accettare questa non–conoscenza è manifestazione di flessibilità).

‘Nei chioschi dove di solito si accettano le scommesse sono disposti gli uffici assunzioni’. Il ragazzo europeo, il giovane emigrato Karl si sente chiedere: ‘Per quale lavoro pensa di essere adatto?’ In questa domanda, si accorge Karl, c’è una trappola. Prima gli era stato detto che sarebbe stato assunto come attore. Ma Karl sa reagire con flessibilità: ‘Io non so se sono adatto a fare l’attore. Cercherò però di sforzarmi e di eseguire tutti gli incarichi’.

Karl ebbe l’impressione di avere risposto come doveva, riprese coraggio e attese impettito la prossima domanda. Questa risuonò così: "Che cosa voleva studiare in origine?". Karl disse: "Pensavo di fare l’ingegnere".

Il signore lo prese sul serio, come prendeva sul serio tutto."Eh sì, per ora" egli disse "sarà difficile per lei fare l’ingegnere, ma forse le andrebbe bene di ricevere qualche lavoro meccanico un poco più semplice."

"Certamente" disse Karl, molto contento. È vero che se accettava questo incarico, egli passava dalla categoria degli attori a quella degli operai meccanici, ma veramente era persuaso di potersi fare più onore con un lavoro di questo genere. Inoltre non cessava di ripetersi che importava poco il genere di lavoro che aveva trovato, la cosa interessante era di aver trovato lavoro.


BIBLIOGRAFIA

BUSI, ALDO, Vita standard di un venditore provvisorio di collant, Milano Mondadori, 1985.

CALVINO, ITALO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano, 1988 (postumo).

CALVINO, ITALO, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, 1979.

HERMAN MELVILLE, Bartleby, the Scrivener. A Story of Wall Street Le relazioni ambigue [1853], in The Piazza Tales, New York, Dix and Edwards, 1856.

KAFKA, FRANZ, Amerika, München: Kurt Wolff Verlag, 1927 (postumo [1912]).

OULIPO, La Bibliothèque Oulipienne, Paris, Ramsay, 1987.

WALSER, ROBERT, Geschwister Tanner, 1907.

1Nel giugno del 1984 Italo Calvino, allora sessantunenne, è invitato dall’Università di Harvard a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures, un ciclo di sei conferenze che dovranno aver luogo nel corso dell’anno accademico 1985-1986. Le Norton Lectures, iniziate nel 1926, hanno avuto per protagonisti illustri; tra gli altri T.S. Eliot, Stravinskij, Borges, ma nessun italiano. All’ospite è lasciata piena libertà per quanto riguarda i contenuti. Calvino si dedica con grande impegno a preparare le conferenze. Sceglie di dedicarle “ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura che mi stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del prossimo millennio”. Il titolo del ciclo è perciò Six Memos for the Next Millennium

Ma il 19 settembre del 1985, quando si appresta a partire per gli States, vittima di una emorragia cerebrale, Calvino muore. Lascia perfettamente dattiloscritte cinque conferenze –Lightness, Quickness, Exactitude, Visibility, Multiplicity. Le conferenze saranno pubblicate nel 1988 dalla moglie, con il titolo Lezioni americane. Della sesta conferenza si conosce il titolo provvisorio Consistency, e si sa che avrebbe contenuto riferimenti al Barteleby di Melville. Calvino si riprometteva di mettere in ordine gli appunti ad Harvard. Non si può parlare di caso o di trascuratezza: così come era stato accurato nel concludere per tempo le prime cinque conferenze, l’autore sceglie consapevolmente di  rinviane la stesura  della conferenza conclusiva al momento in cui il dialogo con il suo pubblico è instaurato.

È perfettamente plausibile che Calvino avesse letto Il venditore provvisorio di collant di Busi: il romanzo esce nell’estate di quell’anno.

Ricordiamo, infine, che il falso, in quanto gioco letterario e allo stesso tempo esercizio critico, fu sperimentato dallo stesso Calvino (si pensi agli incipit di romanzi in Se una notte d’inverno un viaggiatore). Non a caso Calvino apparteneva –insieme ad altri scrittori: Queneau, Perec, ma anche a matematici ed informatici– all’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle). A loro, che usavano come risorse letterarie tanto l’enigmistica come i primi elaboratori elettronici,  non sarebbe apparso per nulla strano questo tentativo di usare una forma calviniana per trattare un tema Calvino non avrebbe mai trattato. Ma siamo poi sicuri che Calvino non avrebbe mai trattato questo tema?

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