BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 19/03/2001

Il conflitto c’è anche dove non si vede, per fortuna

di Francesco Varanini

Il conflitto, diciamolo subito, non può essere eliminato. Può essere tacitato, nascosto, ignorato, rimosso, dimenticato. Il conflitto può essere gestito, maneggiato, diretto, controllato. Si può anche girare la testa dall’altra parte facendo come se non esistesse – ma non può essere eliminato.

Lasciando perdere quello che si può leggere in tanti testi di management –si tratta sempre si riflessioni di seconda mano– vale la pena di risalire ad una fonte ormai classica. Il sociologo statunitense Lewis A. Coser, nel 1956, in The Functions of Social Conflict, mette un punto fermo: Intanto ci propone una insuperata definizione: il conflitto "è una lotta per valori e diritti a status, potere e mezzi economici disponibili in grado ridotto, nella quale i contendenti mirano a individuare, danneggiare o eliminare i loro antagonisti".

Il conflitto si distingue dalla competizione. Quest’ultima ha per oggetto il raggiungimento di una meta sociale per la quale concorrono più individui, ma il suo obiettivo principale non è la sconfitta dell’avversario. Dunque ciò che spesso chiamiamo ‘competizione’ è –in realtà– ‘conflitto’: se, di fronte ad un nostro concorrente, operiamo per sottrargli quote di mercato, o magari possibilmente tutto il mercato, non siamo solo ‘in competizione’ con lui. Siamo in conflitto. Se io ed un collega ambiamo ad una certa posizione dirigenziale, non siamo solo in competizione, siamo in conflitto: la posizione è una, o vinco io o vince lui.

È un comportamento sociale che secondo alcuni deriva da innate tendenze aggressive dell’uomo (la lotta per la sopravvivenza); secondo altri deriva da una oggettiva contrapposizione di interessi sociali ed economici. Si può anche sostenere che le due letture possono benissimo convivere: dall’individuo al gruppo, dalla sopravvivenza della persona alla sopravvivenza del gruppo, il passo non è poi tanto lungo. Si tratta solo di due diversi modi di vedere le cose.

In ogni caso, il conflitto c’è. Se ci riflettiamo, un sano orientamento al conflitto, a ben guardare, spiega molti nostri comportamenti.

Il conflitto, si potrebbe dire, non gode di buona fama. Per quieto vivere, per conformismo, per una naturale tendenza seguire le idee ‘di moda’, o ‘politicamente corrette’, siamo portati a pensare che i nostri comportamenti siano guidati più che altro da una tendenza alla solidarietà, al bene comune, all’aiuto per gli altri. Ma a ben guardare anche lì, molto spesso, sta una qualche forma di aggressività. Si tratta non di rado –anche dove non sembra– di comportamenti orientati a prevalere sugli altri. Un solo esempio: anche nel fare beneficenza può esserci dell’aggressività: aiutandoti, ti dimostro che valgo più di te, ti costringo nelle condizioni di inferiore, di persona bisognosa di sostegno. E io nel farlo mi gratifico: mi sento superiore. Ecco: anche qui è in gioco un conflitto.

Quello che ci si può chiedere questo punto –è uno dei temi centrali della riflessione sociologica– è se si deve intendere il conflitto come una manifestazione patologica, un difetto magari ineliminabile. O se al contrario il conflitto è segno di vitalità e di buona saluto di un gruppo,o di una organizzazione.

Non pretendo di imporvi il mio punto di vista (espresso al meglio nel libro di Coser sopra citato), ma propendo per la seconda ipotesi. Non solo il conflitto è ineliminabile, ma è utile e costruttivo. Un sistema economico, una singola impresa, cresce in virtù del conflitto. Il conflitto stimola la crescita, il miglioramento. In fondo proprio qui sta la radice dell’atteggiamento imprenditoriale –quell’atteggiamento che vediamo messo in pratica in modo esemplare nel nostro paese da una miriade di piccoli imprenditori–. L’imprenditore è la figura sociale che –più e meglio di ogni altra– comprende il senso e l’esistenza del conflitto. E si comporta di conseguenza. Il grande teorico dell’atteggiamento imprenditoriale, Joseph Schumpeter, parlava non a caso di ‘risposta creativa’: costretto a lottare per la sopravvivenza, l’imprenditore inventa nuove soluzioni –tecnologiche, organizzative, di mercato–. L’innovazione dunque, che è la fonte di nuova ricchezza, è figlia del conflitto.

Il manager, al contrario, può facilmente illudersi che il conflitto sia evitabile. All’interno di una organizzazione articolata per funzioni il conflitto è meno visibile. Sembra possibile lavorare per un unico scopo, senza entrare in conflitto. Ma è, appunto, una illusione. Senza entrare in conflitto si potrà difendere la propria posizione, il proprio status, si potrà godere di una ottima immagine. Ma di veri risultati, utili per l’organizzazione, per gli investitori, se ne otterranno ben pochi.

Il lavoratore dipendente non è in una situazione molto dissimile. Si può dire che ognuno è oggi, sempre di più, un imprenditore di se stesso. Ognuno gioca le sue carte in una sana gara, dove ci sarà chi vince e chi perde. I contratti collettivi, gli inquadramenti per livelli, gli automatismi di carriera, sono strumenti che tendono a diventare sempre più obsoleti ed inutili –spesso dannosi– proprio perché si propongono come modalità di eludere il conflitto. Certo, si può ottenere il risultato di eliminare la conflittualità: ma il risultato sarà un livellamento in basso. Se non ho stimoli ad apprendere, non apprendo. Se non ho stimoli a crescere, non cresco. Se sono remunerato a prescindere dai risultati, non solo il mio rendimento, ma la soddisfazione che posso ricavare dal lavoro –intellettuali, economiche, di ogni tipo–, la soddisfazione sarà certamente minore.

Per questa via si arriva ad un punto chiave: se la ‘gara’ è inevitabile ed anzi salutare, ciò che va garantito è un ragionevole sistema di regole: non protezioni, ma punti di partenza il più possibile uguali per tutti, norme trasparenti. Insomma, almeno la possibilità di giocarsela, anche a partire da condizioni di svantaggio. La gara, infatti, è una cosa ben diversa dal litigio. Essere litigiosi è, ancora, un modo di evitare il conflitto. Litigare, infatti, significa mettere continuamente le regole in discussione, non rispettarle, pretendere di cambiarle quando la ‘gara’ è in corso e si sta perdendo. Facendo così non si evita di perdere. Semplicemente, si costringono gli altri a perdere con noi.

E’ vero che non siamo molto abituati a ragionare in questo modo. Si può sostenere che –con le importanti eccezioni del mondo della piccola industria, e del crescente settore dei lavoratori indipendenti, il ‘popolo della partita IVA– il nostro Sistema Paese è particolarmente carente sotto questo punto di vista: manca una ‘cultura del conflitto’. Sarà certo anche per questo che sullo scenario dei mercati globali vinciamo abbastanza di rado.

Ma non demoralizziamoci. Anche ‘vivere il conflitto’ ci si può allenare. Inoltre, è chiaro che il conflitto può e deve essere vissuto in modi diversi. Ognuno, a seconda del suo carattere e delle sue attitudini, giocherà in modo diverso.

A rischio di apparire semplicistici proviamo dunque a proporre cinque modi diversi di ‘vivere il conflitto’. Ognuno potrà trovarsi più a proprio agio in un modo, o in un altro. Si noterà che, in fondo, si tratta di atteggiamenti strategici che si rifanno, in fondo, all’‘arte della guerra’. Questo non deve meravigliare: le radici di ogni teoria del management e del marketing vengono da lì. (Citiamo un libro recente Arduino Paniccia, Edward N. Luttwak, I nuovi condottieri. Vincere nel XXI secolo, Marsilio, 2000; ed un classico del marketing: Al Ries e Jack Trout, Positioning: The Battle for Your Mind, McGraw-Hill Professional, 1981).

Provate voi ad applicare questi esempi abbastanza astratti a casi concreti nei quale vi trovate in questi giorni.

Minimizzare. Si può vincere ‘non agendo’. L’aggressore si trova in difficoltà se l’aggredito rifiuta lo scontro diretto, si nasconde, si mimetizza, adotta una tattica attendista. Le munizioni non sono infinite. Con il tempo, l’aggressore può stancarsi o demotivarsi. Può cambiare il contesto. E nel nuovo contesto l’aggressore può trovarsi senza armi, o con le armi spuntate. (Attenzione: al di là di qualche apparenza questa strategia è ben diversa dal ‘far finta che il conflitto non ci sia’, dal ‘rifiutarsi di vederlo’. Il conflitto è invece perfettamente percepito dal soggetto. Che sceglie di consapevolmente di reagire in un certo modo).

Massimizzare. E’ la strategia opposta, forse la più usata, certo la più celebrata. Non necessariamente la migliore. Si getta il guanto della sfida, si esplicitano e si enfatizzano le ragioni del conflitto. Si usano al massimo, nel più breve arco di tempo possibile le armi a disposizione. Solitamente accade che questo atteggiamento porti alla vittoria se la guerra si risolve in tempi brevi, se non si trasforma in una logorante guerra di posizione.

Giocare di rimbalzo. Potremmo dire anche ‘giocare in contropiede’, o prendere ad esempio la guerriglia. Si può sempre cogliere di sorpresa l’avversario, facendo qualcosa di inatteso, in un momento ed in un luogo inaspettato. Si possono rivoltare contro l’avversario le sue stesse azioni.

Favorire le elaborazioni. Ci sono sempre dietro le azioni dei motivi, esplicitati o no. Portarli alla luce influisce sugli esiti dello scontro. Si possono smascherare e rendere noti i veri motivi dell’azione dell’altro, anche quando sono ammantati di nobili ragioni. Si può cercare sostegno in altri attori facendoli riflettere sulle conseguenze del conflitto in atto. Potremmo chiamarla guerra psicologica, o anche uso degli strumenti di comunicazione.

Pensare al dopo. Perché prima o dopo, in un modo o in un altro, un conflitto si chiude. Se ho investito lì tutte le mie energie, ho perso di vista ciò che è accaduto nel frattempo, mi trovo impreparato di fronte alla nuova situazione. Si può ben accettare di perdere una battaglia, senza sentirsi per questo umiliati e senza accanirsi a combatterla consumando tutte le energie. Una battaglia non è la guerra. Si può vincere cominciando prima degli altri a pensare cosa accadrà più tardi.

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