BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 02/04/2001

SEI PICCOLI CASI: LINUX, NAPSTER, FREEDOMLAND, CASEIFICIO GERVASINA, BANCA POPOLARE COMMERCIO E INDUSTRIA, TISCALI 1

di Francesco Varanini

Linux: la sfida del free software

Il mercato dell’Information Technology sollecita le più accese fantasie e richiama i capitali più disposti al rischio. Ma a ben vedere ci impone anche una lettura completamente nuova del mercato ed una riconsiderazione di ciò che intendiamo per ‘impresa’, per ‘prodotto’ e per ‘servizio’.

Siamo abituati a considerare una impresa per la sua apparenza visibile: la sua sede, i suoi dirigenti, le risorse dedicate alla ricerca e allo sviluppo, gli addetti alla produzione. Anche le imprese più anticonformiste ed i prodotti più innovativi possono essere ricondotti a criteri di valutazione noti ed in fondo rassicuranti: a questo servono l’auditing, le certificazioni, il benchmarking.

Ed tranquillizza poter sostenere che sono inevitabilmente scese a patti con le regole del mercato e della Borsa anche le imprese high tech californiane – Apple, Lotus, Sun, Netscape, Yahoo – radicate nella cultura hippy e nate dall’idea ‘democratica’ rendere accessibili a tutti potenza di calcolo de informazioni.

Ma proprio dietro il nostro bisogno di conferme si nasconde il timore di un ‘qualcosa di nuovo’ che risponde a nuove regole. Un futuro dominato dalla nuove tecnologie –Internet, computer in ogni casa, commercio elettronico, telelavoro, formazione a distanza– difficile da capire, ma con il quale dovremo fare i conti.

Gettiamo dunque lo sguardo sulla storia di un caso che sfugge da tutte le parti, e che proprio per questo è ricco di insegnamenti.

Se Linus Torvalds avesse accettato le regole del gioco, sarebbe forse oggi sulla strada per diventare il nuovo Bill Gates. Ma avendo scelto di percorrere un cammino diverso, è diventato il simbolo di un futuro dove, forse, si potrà fare a meno di Bill Gates. Tutto è nato quasi per gioco: Torvalds, studente all'Università di Helsinki, all’inizio degli anni 90 pasticcia con Unix.

Unix è la madre dei migliori sistemi operativi (i programmi che ‘fanno funzionare’ i computer). Ma Unix, nato nei mitici Laboratori della Bell, ha finito per non diventare mai lo standard condiviso a livello di massa, perché ogni softwarehouse che ne ha acquistato i diritti (da Digital a Sun a IBM) ha pensato bene di svilupparne una versione, un dialetto, incompatibile con gli altri. E nessun dialetto di Unix ha mai raggiunto una sufficiente diffusione, una sufficiente massa critica. A tutto vantaggio del Dos prima e di Windows, sistemi operativi magari criticabili, ma talmente diffusi da costituire lo standard di fatto.

Torvald lavora per tre anni. Nel 94 la versione 1.0 di Linux è pronta. Il 25 gennaio 1999 è completata la versione 2.2. Il prodotto è valido, ma non è qui che sta la differenza. Due sono i fattori distintivi. Il primo: Torvalds sceglie di rinunciare alla proprietà intellettuale del suo lavoro. Il codice, l’informazione che è il cuore del prodotto, è e resterà una GNU (General Public License), liberamente utilizzabile da chiunque. Il secondo: Torvalds sceglie di non operare da solo, ma di condividere il lavoro con una miriade di sviluppatori di tutto il mondo, volontari, non remunerati, interessati come lui a crescere partecipando a un progetto.

Di Linux si sa tutto, Linux è gratuito, ognuno potrebbe crearne una propria versione, incompatibile con le altre, ma a che pro? L’interesse condiviso sta nel far crescere un ‘prodotto’ che è una sorta di bene comune, di tutti e di nessuno.

Col che si dimostra che lo sviluppo tecnologico non è sempre necessariamente subordinato alle logiche del business. Grandi progetti possono crescere anche al di fuori dei centri di Ricerca e Sviluppo sostenuti da grandi budget. Infatti, l’investimento tende a zero se si è capaci di rendere funzionali ad un obiettivo interessante una piccola parte del tempo di cui dispone nell’arco della giornata un programmatore. In questo, naturalmente, un grande aiuto viene dalla Rete: via Internet può essere coordinato il progetto, possono lavorare gruppi virtuali.

Un progetto nato per hobby, o per scommessa, privo di scopo di lucro, ha assunto così un non trascurabile rilievo in un mercato dove competono duramente i più agguerriti produttori di software: nel segmento dei sistemi operativi per server, tra il 97 e il 98, la quota di mercato di Linux è cresciuta del 215%, contro il del 4% delle diverse versioni di Unix, ed il 27% di Windows NT.

Oggi il 17% dei server funzionano per mezzo di Linux. E Linux comincia a essere preso sul serio da Microsoft. Perché è tecnicamente un buon prodotto. Ma anche perché non può essere né comprato né venduto.

Linux non può quindi essere combattuto con l’abituale arma delle acquisizioni e delle fusioni. E nemmeno può essere contrastato con i consolidati strumenti del marketing. Le politiche di prezzo aggressive sono inefficaci e perdenti, perché Linux non costa niente. E qualsiasi campagna pubblicitaria avrà come contraltare l’efficacissimo ‘advertising informale’ fondato sul passaparola di tutti coloro non solo usano un prodotto, ma si riconoscono in una idea.

(Maggio 2000)

 

Napster: il ‘peer to peer’ imperfetto

Shawn Fanning oggi ha diciannove anni. Ancora all’inizio dell’anno scorso stava ragionando attorno ad suo bisogno: come scambiare via Internet brani musicali con gli amici? Esisteva l’MP3, uno standard che permette la memorizzazione di brani musicali in files non troppo pesanti. Ma un conto è memorizzare per uso personale il contenuto di un Cd, ben altra cosa è avere a disposizione uno sterminato archivio musicale.

Così nell’estate 1999 nasce Napster. L’idea in sé è grande: utilizzare le potenzialità della Rete per condividere un archivio diffuso. Napster è un programma che permette di scambiarsi (gratuitamente) files musicali. Lo scambio avviene tra singoli, sui cui dischi sono memorizzati i brani; su un archivio centrale è archiviato solo l’elenco dei brani disponibili.

Napster si fonda dunque su uno scambio peer to peer (p2p), qualcosa di geneticamente diverso dal business to consumer (b2c). Nel primo caso, una comunità di pari; nel secondo caso, invece, ancora il vecchio Broadcasting: qualcuno che dal centro, dall’alto, da un luogo diverso dagli altri, emette messaggi o offre servizi.

L’8 dicembre ’99 l’Associazione discografici degli Stati Uniti (Riaa) fa causa a Napster, accusando di violare la legge sul copyright. Il 26 luglio – quando ormai la comunità ha raggiunto i 20 milioni di membri – il giudice Marylin Hall Pater ordina la cessazione degli scambi. Due giorni dopo la Corte d’appello blocca il provvedimento.

Arriviamo così al 31 ottobre scorso: Bertelsmann e Napster annunciano "un alleanza strategica per un ulteriore sviluppo del Napster person-to-person file sharing service". I membri di Napster – cresciuti con una rapidità che non conosce eguali nel mondo della Rete – sono nel frattempo giunti a 38 milioni .

BMG, la divisione musicale di Bertelsmann ritira la causa contro Napster. Il neonato Bertelsmann eCommerce Group (BeCG) svilupperà insieme a Napster un nuovo modello di business, che prevede l’offerta di servizi a basso costo, riappropriandosi al contempo del ruolo di intermediario che remunera i ‘detentori dei diritti’.

Il nodo sta qui: nella battaglia per la difesa del diritto d’autore. Battaglia che interessa molto più l’editore del detentore dei diritti.

La logica di Naspster mette infatti in crisi l’idea è che conoscenza, informazioni, intrattenimento, possano giungere efficacemente al pubblico solo attraverso la mediazione di un ente specializzato. Oggi la mediazione non è più necessaria. L’artista, il creativo può entrare direttamente in contatto con il suo pubblico. Può raggiungere la notorietà senza dover ricorrere al sostegno della Casa Discografica. Il ‘diritto d’autore’ ottenuto tramite l’editore o la Casa Discografica non sono l’unico ritorno possibile. L’autore può farsi remunerare dai suoi fan.

Tutto questo è vero perché esiste la Rete. Ma non solo. La dimostrazione di questo assunto viene da lontano. Negli anni sessanta i Grateful Dead accettavano che i fan registrassero liberamente i concerti. Chi ci perdeva? Non certo il gruppo rock. Le registrazioni pirata (i bootleg) ampliavano e cementavano la comunità dei fan – potremmo altrimenti dire: incrementavano la loyalty. Era così garantita una multitudinaria partecipazione ai concerti; si apriva un mercato per il merchadising; e le stesse vendite dei dischi ‘ufficiali’ non erano cannibalizzate: i Grateful Dead raggiunsero comunque le vette della classifica.

Del resto, è evidente che l’avvento di Napster non ha danneggiato la diffusione dei prodotti tradizionali: nell’ultimo anno, nonostante Napster, le vendite dei cd sono aumentate de 6%.

Eppure si teme Napster, e si cerca un accordo con Napster, perché Napster mette in crisi un modello di business consolidato, fondato sul governo delle relazioni tra autore e pubblico.

E si ha buon gioco, perché Napster ha dei limiti tecnologici: non è un peer to peer puro. L’archivio centrale contenente l’elenco dei brani disponibili è necessario per il funzionamento del sistema. Se per decisione di un tribunale l’archivio centrale è chiuso, il sistema si blocca.

Sono però già disponibili altri software più evoluti. Freenet, il sistema inventato dal ventitreenne inglese Ian Clarke, è totalmente decentrato: è progettato per non dipendere da nessuna singola persona o da nessun singolo computer. Se domani mi puntassero una pistola alla tempia e mi ordinassero di chiudere Freenet, dice Clarke, non potrei farlo.

Non si può combattere con l’innovazione tecnologica e con l’affermarsi di nuovi comportamenti sociali. Il passo compiuto da Bertelsmann, dunque, non riuscirà ad invertire il trend.

Gli editori dovranno accettare il fatto che l’offerta gratuita in rete aumenta il valore dei frutti del lavoro intellettuale. Dovranno proporre agli autori qualcosa di diverso da un impossibile controllo del mercato.Dovranno stabilire un nuovo patto. Non più royalties, ma una partnership: l’autore offre sul mercato i suoi contenuti, l’editore rinforza l’offerta con il suo brand.

(dicembre 2000)

Freedomland: Cosa si nasconde dietro l’Internet ‘facile’

Ci si chiede perché l’Italia è ai vertici europei e mondiali nella diffusione dei telefoni cellulari, mentre– nonostante le recenti campagne tese a raccogliere abbonamenti gratuiti– è in posizione di assoluta retroguardia per quanto riguarda l’uso di Internet.

Una risposta sta certamente nel fatto che l’uso del telefono cellulare risponde al bisogno di sentirsi tecnologicamente avanzati, senza niente chiedere in termini di apprendimento e di mutamento di abitudini. Il personal computer invece suscita timori perché richiede un qualche apprendimento.

Una certa pigrizia tipica della nostra cultura, una scarsa diffusione di conoscenze tecnologiche di base (conseguenza anche del malfunzionamento della nostra scuola) fanno apparire l’ostacolo più grave di quanto non sia. Come i bambini di ogni parte del mondo qualsiasi bambino italiano, messo di fronte ad un computer, sa immediatamente cosa fare. Anche agli adulti basta poco per apprendere le poche cose che servono: qualunque formatore impegnato nel campo può raccontare bellissime esperienze, anche con anziani. Ciò che manca, insomma, è semplicemente un efficace lavoro di alfabetizzazione: spiegare in modo semplice le cose essenziali, assistere durante i primi personali esperimenti.

Perché in un quadro di crescente globalizzazione, l’essere diversi non paga. Perché in un mondo caratterizzato da una capacità ovunque diffusa di usare un personal computer, l’incapacità e la resistenza del cittadino e del consumatore italiano costituiscono un grave livello di arretratezza.

Se ne stanno accorgendo perfino le catene di negozi specializzati, che si apprestano a fornire ora non solo servizio ed assistenza, ma veri e propri corsi di autoistruzione.

Qualunque imprenditore, dunque, dovrebbe trovarsi d’accordo su questo assunto: la crescita del mercato passa attraverso una maggiore diffusione presso i potenziali consumatori di quella che si chiama ‘cultura d’uso’.

Eppure, incredibilmente, anche con il sostegno di partner –IBM, Infostrada–che dovrebbero avere tutto l’interesse a lavorare semmai ad una crescita della cultura d’uso, una meschina furberia spinge imprenditori italiani a speculare su questa carente alfabetizzazione. È il caso di Virgilio Di Giovanni, che lancia Freedomland. La lancia come è suo costume nel corso di affollate Convention, dove il carismatico ideatore di una nuova, tutta italiana, via ad Internet è osannato da plaudenti forze di vendita pronte a portare l’idea in ogni casa del paese.

L’idea sarebbe un’"Internet alla portata di tutti, anche di chi non usa il personal computer, e non ha dimestichezza con le tecnologie". Come? Attraverso la tv. Così si vede nelle pagine pubblicitarie un bambino schiacciare felice il tasto di un telecomando. Come non pensare che quello stesso bambino sarebbe capacissimo di usare un computer. Come non pensare che invece di spendere per un servizio semplificato, accessibile tramite televisore (attraverso un decodificatore che costa 1.050.000 all’anno), sarebbe per ogni capofamiglia un buon investimento comprare un computer.

Ma Virgilio Di Giovanni non si limita a pensare che per gli italiani sia troppo complicato usare un personal computer, pensa anche che per gli italiani il mondo della Rete sia pericoloso, o forse ostile. Perciò ha progettato un sito, un piccolo mondo protetto, nel quale anche quegli ignoranti di italiani potranno muoversi a loro agio, trovandovi tutto quello che –ritiene Di Giovanni– può interessare loro: occasioni si divertimento e di apprendimento per tutta la famiglia, commercio elettronico. Funzionavano così anni fa negli Stati Uniti –come mondi chiusi e autosufficienti– i primi servizi on line: CompuServe, America on Line. È una vecchia idea del tutto superata: la grande attrattiva del Word Wide Web consiste nell’apertura, nella vastità sconfinata di questo mondo nel quale ognuno può viaggiare a suo piacimento, scegliendo dove fermarsi in base alla propria autonoma capacità di giudizio.

Pur condizionato da timori e da resistenze di fronte alle nuove tecnologie il consumatore italiano –non essendo più stupido dei suoi fratelli europei– saprà presto smascherare la pochezza di Freedomland. E più rapidamente ciò accadrà se i competitori –provider di accessi, motori di ricerca e portali italiani– e gli organi di informazione si daranno daffare per rendere evidenti gli aspetti retrogradi di questa proposta.

Non ci si può però esimere da una deludente conclusione. Nel momento in cui il mercato finanziario mondiale non aspetta altro che nuove iniziative Internet–based nelle quali investire, nel momento in cui il venture capital è a caccia di nuove idee, cosa sono in grado di proporre le feritili menti imprenditoriali italiane? Idee vecchie, malamente copiate, pensate per un mercato dagli orizzonti provinciali, rivolte a nicchie marginali, incapaci di aggredire il futuro, ed anzi destinate ad essere superate in un brevissimo volgere di anni.

(novembre 1999)

 

Caseificio Gervasina: l’e–Commerce visto dalla Piccola Impresa

Il Caseificio Gervasina produce formaggio, innanzitutto Grana Padano, da quattro generazioni. Nel 1937 il nonno ha la forza di dare vita a una propria impresa. La cultura contadina ha riflessi sull’atteggiamento imprenditoriale: produrre bene, ma non rischiare più di tanto. Così si va avanti dal ’37 all’82. Da quell’anno, morto il padre, Luigi, Vittorio e Alessandro Prestini portano sulle spalle con orgoglio un peso: non si tratta solo di realizzare un proprio sogno, ma di dare concretezza, oggi, a un progetto che è scritto nella tradizione della famiglia. Così il caseificio esce dal guscio e fa passi da gigante. Il fatturato passa da 2 miliardi ai 20 miliardi, si ottiene la certificazione ISO 9002, il prodotto è presente nella catena degli Autogrill.

Nei primi 10 anni si investe nell’ammodernamento del processo produttivo, in quelli successivi si lavora sull’immagine e sul marketing. Sempre in modo originale: Luigi Prestini gira per il mondo, vede altri caseifici, coglie spunti, poi porta tutto a casa e trasforma quegli spunti in idee adatte al proprio contesto. Non cerca di imitare modelli, perché considera modello la sua impresa.

Il latte arriva ogni giorno. Incrementi di volumi, con l’uso delle normali tecnologie, significano incrementi di mano d’opera insostenibili per una piccola impresa. Allora si fa innovazione, eliminando quasi completamente le operazioni manuali, per far sì che nel turno di lavoro siano indispensabili solo 5 dipendenti.

La facciata esterna del caseificio si trasforma in un coloratissimo mural di 170 metri: i pascoli con le mucche, il vecchio cascinale, la lavorazione del grana, del burro, la stagionatura e la vendita del formaggio, tutto quanto testimonia l'amore per questo lavoro. Il mural è visibile dall’autostrada, e la stessa immagine del mural è ripresa sulle confezioni. Il nuovo stabilimento quadruplica la capacità produttiva. Una intera parete del nuovo stabilimento è una enorme vetrata, e al rumore che normalmente caratterizza i luoghi di lavoro si sostituisce la musica. Una passerella vetrata si affaccia dall’alto sopra le aree produttive: potenziali clienti e scolaresche possono vedere e sentirsi partecipi senza interferire con la produzione.

E soprattutto nel nuovo stabilimento domina l’automazione, il processo è controllato e regolato da computers. Si salvaguarda la lavorazione artigianale, però eliminando le operazioni manuali.

Quali opportunità offre Internet a una impresa come questa?

Il sito web (www.gervasina.com) è attivo da cinque anni. All’inizio di quest’anno decolla l’e–Commerce. Anche qui a partire da un approccio originale.

Si dice che la piccola impresa è priva del know how necessario per muoversi autonomamente sulla Rete. Perciò l’unica strada sarebbe quella dei supermarket digitali. Possiamo pure chiamarli portali, o Mall: si tratta in ogni caso di luoghi virtuali edificati a partire da un preciso ragionamento. Qualcuno va dal piccolo imprenditore e gli dice: guarda che tu non riuscirai mai a essere abbastanza visibile sulla Rete, se vuoi che i potenziali clienti arrivino a te devi ‘esporre’ i tuoi prodotti nella piazza che noi abbiamo costruito; noi ti garantiamo che molta gente passa di lì; ti garantiamo inoltre modalità di pagamento sicure; e consegne tempestive al cliente. In cambio ti chiediamo un compenso per lo spazio occupato, una percentuale sul venduto. Sembra un ragionamento sensato – ma a ben guardare non è che la riproduzione, nel nuovo contesto tecnologico, del mercato attuale: il cliente finale può esser raggiunto solo attraverso la mediazione del trade; chi governa le relazioni con il cliente finale è in grado di dettare condizioni a chi produce. È la logica della grande distribuzione, dove il portale prende semplicemente il posto del supermercato. È la logica in base alla quale il buyer tratta con il produttore da una posizione che è sempre di vantaggio, mentre allo stesso tempo il produttore deve sostenere il proprio marchio attraverso campagne pubblicitarie su media scelti, e considerati utili, dal buyer.

Ma si sa che la forza del piccolo imprenditore italiano sta nella sua caparbietà e nella sua capacità di andare controcorrente. Così il Caseificio Gervasina, invece di cercare banalmente spazio in un portale, organizza autonomamente la propria strategia di e-Commerce. Andandosi a cercare i partner per il pagamento sicuro (Banca Sella) e per il trasporto rapido (DHL), e aprendo un Web Store (www.gervasina.it) dove si offrono diverse selezioni di formaggi (anche selezioni che il consumatore può costruire da solo), in confezioni appositamente studiate.

Se dunque il piccolo imprenditore, superati i timori, si mette a guardare con la creatività e la flessibilità che gli sono proprie le opportunità che gli offre la Rete, scoprirà che Internet può veramente avvicinare il produttore al consumatore. Scoprirà che la cosa più importante è apparire sui motori di ricerca. E che non è vero che i portali sono necessari per portare sulla Rete la piccola impresa: si potrebbe al contrario affermare che i portali sfruttano la carenza di conoscenze della piccola impresa.

(settembre 2000)

 

Banca Popolare Commercio e Industria: il difficile transito alla cultura della Rete

È domenica 12 novembre, tento inutilmente un’altra volta di accedere via Internet al servizio di Home Banking dell’Istituto di Credito di cui sono cliente. Il codice utente l’ho scritto giusto, la password è sempre quella, per non sbagliare e non dimenticarmela ho messo le prime otto cifre della mia partita IVA. Ma mi trovo di fronte una volta di più allo sconfortante messaggio: "Si è verificato il seguente errore: Il codice utente e/o la password inserita non sono valide oppure l'utente non è abilitato". Così, tanto per fare, torno all’Home Page e mi dico, mi faccio un giro per il sito, vediamo la versione in inglese. Ho presto la risposta: "Si è verificato il seguente errore: English site under construction".

Sulla Home Page trovo citata, oltre al mio istituto, Banca Popolare Commercio e Industria, la Banca Popolare di Luino e di Varese, e ONBanca. Chiunque sia abituato un minimo a navigare sulla Rete si aspetterebbe di poter accedere agli indirizzi di queste banche dall’Home Page in cui mi trovo (http://www.bpci.it/), ma non è così. Allora esco, vado sul motore Google, trovo subito una serie di riferimenti a ONBanca. Uno è –trascrivo– un "comunicato stampa congiunto Banca Popolare Commercio e Industria (bpci), Banca Popolare di Luino e di Varese (bplv), Onbanca", è del 6 marzo 2000 e inizia così: "Banca Popolare Commercio e Industria e ONBanca, la prima Banca Internet italiana", sono così seccato che non riesco ad andare avanti. Non mi importa sapere se ONBanca è o non è non è "la prima Banca Internet italiana", mi importa il fatto che ONBAnca fa parte del Gruppo Banca Popolare Commercio e Industria, e io combatto da mesi con le uniche persone di Banca Popolare Commercio e Industria con le quali riesco a parlare, che sono gli addetti allo sportello, peraltro gentilissimi. Combatto per riuscire ad avere accesso a servizi via Internet, e nessuno mi dice che nel gruppo c’è una Banca specializzata nei servizi on line.

Vado a vedere il sito di ONBanca, la grafica con tutto quell’arancione può piacere più o meno, lì c’è scritto sì sotto il logo "Gruppo Bancari Banca Popolare Commercio e Industria", ma si vede che si tratta di un altro mondo, lontano da quello dei bancari gentili che conosco. Allo sportello non sanno dare risposte alle mie esigenze, ma hanno un certo modo affabile di trattare con il cliente. Qui invece trovo foto sorridenti di Direttore Generale e Amministratore Delegato, trovo interessanti proposte di marketing: "Metti in cONto la leggerezza / Tanto, tantissimo yogurt Yomo gratis / Il nuovo conto corrente on-line dedicato / a tutti coloro che apprezzano la qualità YOMO" – ma nessuna indicazione di come, per esempio, trasferire qui il mio conto corrente.

Avevo aperto il conto alla Banca Popolare Commercio e Industria perché ne conoscevo il nome, non grandi dimensioni ma solidità e buon livello di servizio. Ma soprattutto, non lo nascondo, perché l’agenzia si trova poche centinaia di metri da dove ho casa e ufficio. Purtroppo, però, la vicinanza a casa e ufficio non vuole dire molto per una persona che è sempre in giro per lavoro.

La mia loyalty in realtà è legata alla facilità di accesso. Fino a qualche anno fa essa risiedeva nella vicinanza fisica; ma oggi con il web la vicinanza fisica perde valore, e il cliente si conserva trasformando la vicinanza fisica in vicinanza virtuale. Se potrà accedere via rete almeno ai servizi elementari –innanzitutto l’estratto conto– il cliente resterà fedele: spostare altrove la gestione delle utenze e degli investimenti è un onere che si preferisce evitare. Ma la Banca non deve tirare troppo la corda. Anzi, dovrebbe preoccuparsi di favorire il transito all’on line, almeno per i clienti che si mostrano interessati.

Dunque, questa primavera chiedo se la Banca dispone di servizi on line. Mi si risponde, certo, sì. Passa qualche mese. Mi viene consegnato un foglio sigillato, lì c’è il mio codice utente e la mia password, peccato non ci sia scritto l’indirizzo del sito. Vado in Banca, breve conciliabolo, infine qualcuno me lo sa dire. Torno a casa e provo a collegarmi, senza successo. Avviso in Banca. Passa ancora qualche mese e casualmente sono in ufficio quando mi telefona a casa una persona. Gentilmente mi spiega che devo cambiare password, scelgo appunto lì per lì le prime otto cifre della partita IVA, mi collego mentre telefoniamo, tutto bene, vedo il mio estratto conto. Ma quando mi capita di riprovare non riesco più ad entrare. Torno in banca, sono tutti disponibili, ma non sanno dirmi nulla. Chiedo un indirizzo e-mail di un servizio di assistenza, ma nessuno me lo sa dare. Mi viene dato in cambio il numero di telefono di una persona, chissà, forse quella con cui avevo già parlato. Dovrebbe essere in grado di darmi spiegazioni. Ma se avessi tempo per stare a telefonare, in orario d’ufficio, mentre provo a collegarmi, allora potrei anche andare alla banca dietro l’angolo.

Vorrei usufruire dei vantaggi della Rete, collegandomi quando mi pare. La mia Banca è interessatala soddisfare un suo cliente che vuole restare tale?

(novembre 2000)

 

Tiscali: il valore della community

La domanda alla quale oggi si cerca risposta è: come mai tanti visitano ma pochi comprano? E più in generale: cosa cerca chi naviga sulla Rete? E più in generale ancora: dove sta, e come può essere misurato, il valore di un’impresa il cui business è fondato su asset intangibili e centrato sul Web?

Domande legittime, in un momento in cui la Borsa ed il venture capital non premiano più i titoli di Intangibles-Intensitves Companies. Ma domande malposte. Dall’entusiasmo acritico per la New Economy si passa a riflessioni catastrofistiche e luddistiche: troppo facile dire che è finita la ricreazione e che è orami l’ora di tornare alle ferree leggi dell’economia ‘vera’. Solo perché per ora non decolla l’e–commerce. Ma quando mai?

La questione è un’altra: anche tra i business fondati sulle nuove tecnologie, e su Internet, si può discriminare. Ci sono idee di business che tendono a sfruttare il momento, ma che non hanno solide radici, perché poco o nulla tengono conto dei comportamenti di chi si muove sulla Rete. E ci sono invece business che colgono il cambiamento culturale, e che quindi –se anche non hanno un ricco presente– avranno ragionevolmente un interessante futuro.

Su questa base, guardando a quello che si fa in Italia, è ragionevole sostenere che –certo più di altri attori– Tiscali è sulla buona strada.

C’è chi si muove puntando su un trend tecnologico. Siano le fibre ottiche o il satellite. Può essere un trend migliore o peggiore. Ma in ogni caso non pare la scelta strategica vincente. I salti tecnologici si succedono con rapidità, quella che oggi può sembrare la scelta migliore, può rivelarsi in un vicino domani clamorosamente errata. La tecnologia, in generale, tende a diventare una commodity. Non necessariamente free ed open. Ma comunque poco remunerativa.

C’è chi ragiona ancora in una logica di broadcasting. E’ il caso di chi, anche nel nostro paese, investe in organi di informazione on line, agenzie di stampa on line. Iniziative onerose, totalmente in contrasto con lo spirito della Rete. Dal centro, da un luogo di potere, si dice agli altri cosa dovrebbero pensare. La Rete rende tendenzialmente obsoleto il ruolo del giornalista, e qui il ruolo del giornalista –del mediatore necessario nella circolazione delle informazioni– è celebrato e sta al centro di un apparente business che non potrà mai essere un vero business. Non una scelta strategica coerente con quanto può interessare a chi naviga sulla Rete, ma una operazione di lobbying che guarda allo stretto panorama politico e di mercato italiano. Non si arriverà mai per questa via a fare affari con la Rete, perché in realtà se ne rifiuta la cultura.

Tiscali, invece, sembra aver capito che la cultura della Rete impone di rovesciare la domanda da cui siamo partiti. Proprio le persone che visitano senza comprare sono i veri ‘abitatori’ della Rete. Vincerà chi rispetterà questa cultura, non certo chi la colpevolizza e la sminuisce. La Rete è innazitutto un luogo di socializzazione e di scambio peer to peer. La Rete è intelligenza diffusa. La Rete se ne frega dei confini dei mercati nazionali. Sulla Rete vince chi accetta un gioco misterioso, in apparenza strano: regalare innanzitutto.

A ben guardare, questo ci riporta alle radici dello scambio economico. Lo scambio non nasce, come oggi siamo forse portati a supporre, con la transazione monetaria (di cui l’e–commerce non è che l’ultima, banale incarnazione). Di questo, meglio di quanto fanno modernissimi guru e consulenti, ci parla un vecchio antropologo. Marcel Mauss nel Saggio sul dono (1925) si interroga a proposito della fonte della coesione sociale nelle ‘società arcaiche’, quelle società che talvolta –giudicandole inferiori– chiamiamo ‘primitive’. Ci parla proprio di questo –ancestrale, fondante– comportamento. Donando, stimolo nell’altro un comportamento fondato sulla reciprocità. L’altro non è obbligato a contraccambiare da nessuna legge, o da nessun obbligo contrattuale. Ma il ‘contratto sociale’ è più forte della legge e di ogni altra forma di obbligazione. Se qualcuno mi offre un dono, in qualche modo dovrò ricambiare.

Potremmo dire che questa stessa circolarità –il dono, e l’obbligo di ricambiare– è la vera legge in base alla quale funziona il Word Wide Web. Con il Web, così come nei sistemi economici studiati da Mauss –citiamo le sue parole– le persone "sono costantemente connesse reciprocamente e sentono di doversi tutto"–.

Tra le idee di business italiane legate alla Rete, quella di Tiscali sembra la più vicina a una lettura intelligente della New Economy. Dovrebbe però ora più consapevolmente puntare sulla crescita della community. Tiscali non solo come modalità di accesso gratuito, ma anche come luogo di incontro. Perché questo incontro tra persone genererà valore.

Questa verità non dovrebbe sfuggire agli investitori. Vale la pena di puntare sui ‘navigatori fidelizzati’. Molto più che sui trend tecnologici: un secolo fa si comprendeva bene l’importanza del trasporto aereo, ma si puntava più sul dirigibile che sull’aeroplano. E si valutava giustamente la circolazione delle informazioni, ma non si capiva a cosa potesse servire il telefono.


Note:
1 Occhio alle date: l’evoluzione dello scenario è tanto rapida che questi piccoli casi – se pur, credo, mantengono una loro validità di stimolo alla riflessione– rischiano di apparire presto superati. Non per questo si smette di scrivere e di esprimere opinioni. Ma si aggiunge la data in cui si è scritto. 

(marzo 2001)

Pagina precedente

Indice dei contributi