BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 23/05/2001

QUESTIONI DI METODO 1

di Francesco Varanini

Sono da guardare con sospetto "tutte le idee che comportano il tentativo di ‘far prendere coscienza agli altri’ di qualcosa, pretendendo di sapere meglio di loro stessi cosa sia meglio per loro" (Peter Berger, in Hunter e Ainley, 1896; vedi Berger et al. 1973, Berger 1979). Purtroppo, in troppi casi, è proprio ciò che accade: gli ‘esperti’ pretendono di essere in grado di dire al piccolo imprenditore chi è e cosa deve fare. È un approccio pericoloso, perché nasconde un implicito giudizio, una lettura della differenza come deficit (Fabbri 1973), una sottolineatura della distanza: "tu sei completamente diverso, ma io ti perdono" (Rohéim 1950; vedi anche Bastide 1970, Varanini 1977).

Perciò preferiamo scrivere ‘piccola e media industria’, rinunciando alla abusata sigla PMI, perciò preferiamo prescindere da quanto sulla piccola e media industria italiana è già stato scritto. Perciò, più che ai molti studi sul ‘fenomeno PMI’ ci sembra utile fare riferimento a poche fonti, apparentemente non ortodosse: qualche romanzo (Levi 1978, Busi 1985; vedi Varanini 2000b); l’insuperata riflessione di Schumpeter (1947); un saggio, inedito italiano, che descrive con chiarezza e con rispetto l’economia informal spontaneamente cresciuta alla periferia di Lima (Soto 1986).

E perciò ci è sembrato fondamentale ragionare senza pregiudizi sul metodo: come conoscere un mondo; come raccontarlo. Non per questo rinunciando a prendere spunto da ricerche ormai classiche.

Pensiamo all’immenso lavoro svolto da Thomas e Znaniecki per testimoniare l’odissea dei contadini polacchi, di qua e di là dall’oceano: la loro opera ci mostra come i materiali prodotti dagli attori parlino da soli, meglio di qualsiasi commento e di qualsiasi autorevole interpretazione (Thomas e Znaniecki 1918–1920). Whyte ci mostra invece come ricostruire un mondo ‘urbano’ e ‘moderno’ (Whyte 1943), ben lontano dai mondi esotici di cui di solito di parla l’antropologia. Kracauer ci racconta storie di impiegati berlinesi, con l’arte di chi sa raccontare, e anche da vero sociologo – ma senza preoccuparsi troppo di questioni metodologiche (Kracauer 1930). Wright Mills torna a parlarci del lavoro d’ufficio, in America, immediatamente prima dell’office automation (Wright Mills 1959). Più recentemente Kunda ci fa conoscere una grande impresa high tech di successo, in particolare ci porta ‘dentro’ dentro una divisione dell’azienda (Kunda 1991).

Mentre Thomas e Znaniecki lasciano lavorare i materiali –lettere e documenti diversi appaiono in primo piano, costruendo una sorta di romanzo collettivo, a più voci– Kracauer, Whyte, Wright Mills, Kunda, ci parlano in prima persona in quanto ‘autori forti’: la ricerca, le fonti, restano nella cucina del libro, che ci appare come racconto costruito senza inciampi. Kunda,anzi, mostra una particolare attenzione alla buona scrittura, e nelle pagine finali si allontana esplicitamente dal ruolo dell’etnografo per virare sul personale, sulle motivazioni soggettive che l’hanno spinto verso questa ricerca.

Si afferma parallelamente una diversa forma di restituzione del lavoro svolto sul campo: la storia di vita. Esemplari in questo senso le opere messicane di Lewis: qui funziona già la mediazione tecnologica, l’uso del registratore. Ma il prodotto, narrato in prima persona dal protagonista, è un quasi-romanzo (Lewis 1951, 1961, 1964), veramente difficile da distinguere dalla narrativa latinoamericana contemporanea (che non è poi tanto ‘di invenzione’ perché si rifà quasi sempre a storie orali già raccontate a voce). Sulla scia di Lewis si muove il cubano Barnet. Ci presenta il racconto autobiografico di un ultacentenario ex schiavo (Barnet 1966) come ‘racconto etnico’, affermando nell’introduzione: "far parlare un informatore è, una certa misura, fare letteratura". È aperta così la strada per libri presentati come romanzi, ma che sono ancora, esattamente come nel caso di Lewis e di Barnet, storie di vita raccolte al registratore: è il caso dell’operaio di Balestrini , che non a caso qualche hanno dopo pubblicherà la continuazione del ‘romanzo’ di Balestrini firmando l’opera come autore (Balestrini 1971; Varanini 1982).

Questi testi appaiono al lettore fluidi e levigati; ma dietro c’è una macchina al lavoro. Anche nel caso di Kunda, un anno di ricerca. Prima una attenta analisi di materiali documentari: house organ, procedure, slogan, dépliant commerciali, videoregistrazioni, resoconti di discorsi; poi una osservazione della vita quotidiana dell’organizzazione, dalle riunioni del board agli incontri informali in mensa; poi una serie di interviste.

 Modalità di restituzione e rappresentazioni della realtà

Ora, bisogna notare che l’inizio degli anni novanta, e cioè il momento in cui conduce la sua ricerca Kunda, segnano un punto di svolta: fino ad allora il libro può essere considerato lo strumento esclusivo di restituzione di un lavoro di ricerca. E il libro porta con se una forma: sequenziale, ordinata restituzione, controllata da una figura che la domina, il responsabile della ricerca che firma il libro. Con gli anni novanta si affermano la multimedialità, l’ipertestualità e l’interattività. Di conseguenza, la restituzione non può più essere quella di prima. I risultati della ricerca possono e debbono essere presentati attraverso media diversi. La Rete permette una continua interazione tra attori coinvolti nella ricerca e ricercatore, tale per cui le restituzioni, sempre parziali, avvengono in momenti diversi, e la ricerca non è mai definitivamente chiusa: la chiusura, intesa come soluzione di continuità, esiste solo perché il libro, in un dato momento è ‘chiuso in redazione’ e mandato in stampa; questa cesura tecnologica è assente, ad esempio, nel caso di un sito web (Ong 1982, Bolter 1991, Turkle 1995).

Questo per dire che il libro contenente i risultati di una ricerca, oggi, è solo una delle diverse forme di restituzione. Una restituzione diversa e complementare è, ad esempio, una base dati dei risultati fruibile via Rete. Va detto inoltre che con il mutare dello scenario mediatico cambia l’aspettativa nei confronti del libro. Nessuno si aspetta più che il libro sia un contenitore fluido e levigato, da leggere sequenzialmente dalla prima all’ultima pagina (Nelson 1981, Landow 1992). Si è ormai abituati a leggere porzioni staccate di testo, navigandovi all’interno, dedicando alla lettura, di volta in volta, solo brevi frazioni di tempo. Perciò appare opportuna una forma-libro che si avvicini per quanto possibile, più che al testo sequenziale, all’ipertesto. E cioè al baule di ‘galassie testuali’ che il lettore può di volta in volta montare a piacere (Cortázar 1963).

A ciò si aggiunga che la forma sequenziale, liscia e chiusa, appare coerente ad un atteggiamento fondato sul ‘far prendere coscienza agli altri’ di qualcosa. Se si trattasse, dunque, di una ricerca che ha come obiettivo il mostrare al piccolo o medio imprenditore il ‘come deve comportarsi’ sarebbe consona una forma-libro tradizionale, un autorevole testo chiuso. Se invece, come nel nostro caso, si cerca di portare alla luce, attraverso frammenti, il punto di vista collettivo di una pluralità di imprenditori, si dovrà scegliere una via diversa.

È per questo che si è scelto di organizzare la parte narrativa come scatola di tessere sparse di un possibile mosaico, ognuna dei quali riproduce la spontanea espressione orale di un imprenditore o (in qualche caso) di un suo collaboratore. Siccome il libro è fatto di pagine legate sequenzialmente l’una all’altra, anche nel nostro caso i testi sono montati un ordine. Ma speriamo apparirà chiaro che si tratta nient’altro che di una delle organizzazioni possibili. L’ordine potrà essere liberamente stravolto dal lettore.

Si tratta di una scelta non gratuita, ed anzi strettamente legata alla logica sulla quale si fonda la ricerca. Essa tenta di restituire, attraverso spezzoni, brani, brandelli, il senso complessivo di un discorso corale che, si immagina, il piccolo e medio imprenditore bresciano, inteso come entità collettiva, farebbe ad un ascoltatore disposto a concedere una qualche attenzione.

Non a caso parliamo di discorso: ‘discorrere’ vuol dire ‘correre qua e là’. Quindi: ‘ragionare senza confini troppo precisi’ (Zadeh 1979), e soprattutto prescindendo dai confini imposti da altri. Muoversi in una direzione, ruotare attorno a un punto di riferimento, ma senza un ordine vincolante, motivati anche dal piacere e dal sogno, dal desiderio di farsi conoscere per chi si è realmente.

Qualcosa di simile al gioco di un bambino (Wittgenstein, 1953) e allo stesso tempo alla navigazione nella Rete. Qualcosa che trova riferimento nelle ultime frontiere della ricerca scientifica: la teoria dei quanti ci sbatte sotto gli occhi una immagine della realtà che appare come rete di probabili interconnessioni (Accardi 1997).

Il mondo – e il libro che ne restituisce una possibile immagine– è un sistema complesso, apparente disordinato. Una trama di elementi interdipendenti, dove nessuna delle proprietà di una qualsiasi parte della trama è fondamentale; esse derivano tutte dalle proprietà delle altre parti, e la coerenza globale delle relazioni reciproche determina la struttura dell’intera trama (Bateson 1972, Kauffman 1995).

 Il ‘ricercatore debole’

Sarà possibile avvicinarsi a questo obiettivo – lasciare spazio, in un libro, alla voce narrante del piccolo e medio imprenditore – solo se chi conduce la ricerca e organizza i risultati in un libro sceglie consapevolmente di limitare il proprio ruolo.

Mantenendosi lontano da pur notevoli modelli. Kunda è ancora un ‘autore forte’, che impone il suo punto di vista. Sono ‘autori forti’ anche Lewis e Barnet e Balestrini: per loro, quasi-romanzieri, far parlare l’altro è ‘fare letteratura’. Sono ‘autori forti’, in fondo, anche gli esponenti della recente scuola fondata su un Narrative Approach to Organization Studies se – come appare – non si preoccupano tanto di lasciare spazio alla narrazione, quanto di ‘leggere autorevolmente’, ‘interpretare’ ciò che viene raccontato (Czarniawska 1997, Czarniawska 1998). Se Lewis e Barnet sono quasi-romanzieri, Czarniawska è un quasi-critico letterario, o un quasi-filologo.

All’opposto di questi modelli, che impongono all’opera il sigillo della loro pretesa originalità, sta la figura del cantastorie, lo storyteller, il narratore semiprofessionista itinerante che troviamo ancora attivo in tutte le periferie del mondo. Un rimaneggiatore di storie già raccontate, di parole già dette che – da questo ruolo – non si sente umiliato.

Del resto, è impossibile, o irrilevante determinare il momento in cui la storia è stata raccontata la prima volta. Ciò che conta è che la capacità della storia di esprimere un modo socialmente condiviso di vedere la realtà (Berger e Luckmann 1966). La fonte del sapere, qui, non sta nella mediazione dell’autore. L’opera si costruisce ‘da sola’, nel tempo: è la trasmissione di conoscenze e pratiche di interessi sociale o collettivi fatta in tutto o in gran parte oralmente, dai vecchi ai giovani, di generazione in generazione (Menéndez Pidal, 1924, Ong 1982).

Sembrano forse riflessioni lontane dal nostro tema, ma sono invece assolutamente pertinenti. A prima vista il piccolo imprenditore segue la via della praxis, ‘azione’; ma a ben guardare segue il sentiero poiesis: ‘produzione’, ‘creazione’, edificazione di un mondo unico e irripetibile, uguale solo a se stesso (Maturana e Varela 1980). Il piccolo imprenditore vive immerso in una vita quotidiana ricca e soddisfacente; la sua capacità creativa e produttiva si manifesta nel lavoro quotidiano – perciò, se pur ha storie meravigliose da raccontare, non ha tempo per scrivere, o ritengono inutile scrivere (Lotman 1985). Ed è particolarmente a proprio agio con l’oralità, e rifiuta le parole scritte inutilmente complicate ed artefatte.

In ogni piccola impresa si ‘raccontano storie’: ogni mondo crea i suoi miti, trasforma in leggenda la storia delle proprie origini, ricorda attraverso aneddoti i momenti di cambiamento. La conoscenza sta in queste storie, e queste storie dobbiamo – in quanto ricercatori, testimoni, ‘autori deboli’ – dobbiamo essere capaci di far affiorare.

Se il ‘ricercatore forte’ arriva sul campo di indagine bardato delle sue sicurezze metodologiche, delle sue ipotesi di lavoro. Il ‘ricercatore debole’ arriva ricco solo di dubbi. Il ‘ricercatore forte’ lavora per ‘far prendere coscienza agli altri’, pretendendo di spiegare come funziona un mondo ai suoi stessi abitatori. Mentre il ‘ricercatore debole’ si sforza di scoprire e di mettere in mostra i racconti nati in un mondo – partendo dalla convinzione che la sua capacità di comprendere è comunque limitata, e che la sua interpretazione, lungi dall’aggiungere, toglie qualcosa al racconto.

 La logica della scoperta ed il ‘tirare a indovinare’

Jung parla per la prima volta di ‘sincronicità’ in una prefazione all’I Ching. Nel concetto c’è quindi un evidente rimando al pensiero orientale. Dove il pensiero occidentale vede un rapporto causa–effetto, il pensiero sincronico vede un evento (soggettivo o oggettivo) come elemento di una totalità. Ed è in funzione della sua appartenenza a questa totalità che l’evento trova la sua spiegazione (Jung 1952).

Pensiero orientale a parte, siamo vicini a quell’atteggiamento che filosofo e scienziato americano Peirce (troppo geniale, eccentrico ed innovatore per essere compreso dai suo contemporanei) chiamava abduzione. Un processo logico che si basa sulla fiducia che esista un’affinità tra la mente di chi ragiona e l’ambiente, sufficiente a rendere il tentativo di indovinare non completamente privo di speranza. "È evidente che se l’uomo non avesse avuto una luce interiore tendente a rendere vere le sue congetture", scrisse una volta Peirce, "la razza umana si sarebbe estinta per la totale incapacità nella lotta per la sopravvivenza". (Peirce 1935-1966). È importante notare come questa frase mette in luce l’approccio metodologico di questa ricerca, ma anche e soprattutto l’approccio metodologico che fa di ogni piccolo imprenditore un ricercatore. Se l’imprenditore non sapesse formulare congetture, verificarle, costruire su queste nuove soluzioni ai problemi, infatti, la sua impresa non sarebbe sopravvissuta alla quotidiana lotta per la sopravvivenza.

L’imprenditore, a partire da una profonda conoscenza del contesto nel quale si muove, tira a indovinare. Dice a se stesso: ‘se le cose stanno così, allora probabilmente…’. Naturalmente poi sottopone tutto alla verifica dei fatti. Spesso funziona, talvolta no. Ma è importante notare che se si fosse mosso nel quadro di soluzioni già ipotizzate da autorevoli esperti la possibile soluzione non gli sarebbe mai ‘venuta in mente’.

E vediamo proprio nelle storie raccolte gli imprenditori dirci di come mantenendo la mente in uno stato passivo e recettivo ‘vengono le idee’. L’idea è un mettere insieme quello che prima non avremmo mai sognato di mettere insieme. E’ una nuova connessione, che appare come una illuminazione, come un lampo di luce. L’abduzione è sempre associata con un certo tipo di emozione.

C’è un altro paragone che può aiutare a parlare delle radici di questo atteggiamento. A ben guardare, è lo stesso atteggiamento che ritroviamo in Sherlock Holmes. "Ho sempre notato che c’è un metodo nella pazzia di Holmes" dice Watson all’Ispettore Forrester. Al che l’Ispettore replica: "Qualcuno potrebbe dire che c’è della pazzia nel suo metodo". Cosa è la pazzia? Dice Voltaire: "Avere delle erronee percezioni e ragionare correttamente a partire da queste".

"Etimologicamente", scrive Umberto Eco, "‘invenzione’ è l’atto di scoprire qualcosa che già esisteva da qualche parte, e Holmes inventa nel senso inteso da Michelangelo quando dice che lo scultore scopre nella pietra la statua che è già circoscritta e nascosta nella materia sotto il marmo in eccesso (‘soverchio’)" (Eco e Sebeok 1983). Quando la soluzione al problema è stata trovata, inventata –ma solo allora– appare chiaro che quella, e solo quella, è la soluzione che poteva emergere in quel contesto. La soluzione, in un certo senso, ‘esisteva già’. Doveva solo essere scoperta. (Non per questo è la ‘soluzione migliore in assoluto’: la soluzione ottimale anzi non esiste; guardando il problema in un altro modo sarebbe stata trovata un’altra soluzione , forse ugualmente efficace).

Eccoci di fronte a un punto chiave del nostro approccio: il metodo, per essere efficace, per essere in grado di dare voce a un mondo, deve essere ‘autosomigliante’ al mondo indagato, deve emergere dal mondo indagato. Se l’imprenditore usa una logica abduttiva, altrettanto dovrà fare il ricercatore.

Deriviamo spesso dall’osservazione forti indicazioni di verità, senza essere in grado di specificare quali circostanza dell’esperienza hanno convogliato quelle indicazioni. Se siamo ‘ricercatori forti’, di fronte a questi stimoli provenienti dall’ambiente, cercheremo di ricondurli a una qualche nostra previa ed esterna teoria interpretativa. Ma perderemo così tempo, e ci allontaneremo dal contesto e dalla possibilità di comprendere. Se invece ci abbandoneremo all’emozione della scoperta, se ci lasceremo guidare dalle tracce, dagli indizi, dai segnali deboli, se lasceremo che pur con molti tasselli mancanti il quadro si ricostruisca da sé, allora forse cominceremo a capire qualcosa.

A partire da questo ‘stare in situazione’ la storia che il mondo visitato ha da raccontarci si costruisce da sola.

Un percorso di avvicinamento

A partire da questi presupposti, abbiamo definito l’approccio metodologico, l’avvicinamento a quel mondo, o a quell’insieme di mondi che è la piccola e media impresa bresciana.

La ricerca stessa non può essere letta nella giusta luce se non a partire dal suo contesto e dalla sua genesi esterna.

Francesco Varanini è incaricato di mettere in luce, con gli strumenti della narrazione, gli aspetti meno evidenti di un grande progetto di sviluppo finanziato dalla Comunità Europea rivolto alle piccole e medie industrie lombarde, realizzato nell’ambito dell’iniziativa comunitaria Adapt (Varanini 2000a). Nel corso del lavoro, intervista imprenditori e ricercatori-consulenti impegnati nel progetto. Con alcuni di essi si instaura una relazione. Accade così che Maurizio Lambri, Massimo Redolfi, Mauro De Martini, Francesco Varanini si rendono conto di formare un gruppo informale, alimentato dal desiderio di portare a fondo una esperienza di ricerca-intervento che vada oltre quanto è possibile fare nel quadro di un progetto finanziato. Nel gruppo Lambri, Redolfi e De Martini apportano in particolare la conoscenza del settore e della cultura, la conoscenza di figure di riferimento nel mondo della piccola e media impresa, l’esperienza di intervento formativo ed organizzativo presso un variegato panorama di piccole imprese. Varanini apporta soprattutto un bagaglio metodologico, l’esperienza nella conduzione di progetti di ricerca, una antica esperienza di ricerca antropologica.

L’iniziativa comunitaria Adapt si proponeva del resto proprio di stimolare innovazione capace di autogenerarsi: perciò questa ricerca può considerarsi un coerente frutto di quella precedente esperienza. Quel progetto, però, soffriva di vantaggi e di vincoli. Soprattutto, era affidato a organizzazioni di peso, dotate di una propria immagine forte nel capo della formazione e della ricerca. Qualsiasi intervento da esse condotto sarebbe stato, dunque, un intervento ‘di parte’, fondato su una esperienza, su un metodo, su una scuola. Anche una nuova ricerca, condotta con un approccio etnografico, sarebbe stata inevitabilmente la ricerca condotta da un ente autorevole, portatore di esperienza. La ricerca avrebbe certo prodotto risultati – ma i risultati sarebbero stati il frutto dell’incontro di due mondi, di due punti di vista, il punto di vista dell’ente responsabile della ricerca ed il punto di vista del ‘mondo visitato’. Il risultato, dunque, sarebbe stato sempre il frutto di una mediazione.

Diverso l’obiettivo che si poneva il gruppo di ricerca. Un obiettivo che poteva essere perseguito solo lavorando senza marchi e vincoli istituzionali: il gruppo di ricerca, soggetto debole, entra a far parte del mondo, con un suo specifico e limitato ruolo: contribuire a mostrare all’esterno la cultura ed i valori di quel mondo.

Si stringono così rapporti con Massimiliano Bontempi, Presidente della Sezione Piccola Industria della Associazione Industriale Bresciana. Ripetuti incontri informali permettono di fare chiarezza sugli obiettivi raggiungibili tramite una ricerca condotta con un approccio etnografico, e con strumenti tesi a ‘portare alla luce ciò che non è immediatamente visibile’. È proprio attraverso una riflessione condivisa sul metodo che si arriva a definire l’oggetto di indagine. Se l’approccio metodologico ha queste caratteristiche, allora è probabilmente lo strumento adeguato per smascherare un paradosso: le ricerche condotte da esperti, e le tesi condivide dagli opinion leaders esterni al mondo della piccola impresa, vedono la piccola impresa incapace di innovazione. Si può presumere che l’opinione sia frutto dell’approccio conoscitivo: l’opinione è frutto di luoghi comuni, e nella migliore delle ipotesi di ricerche quantitative, condotte tramite strumenti ‘freddi’, tipico esempio il questionario a domande chiuse inviato via fax.

Mantenendosi fedele al suo ruolo di imprenditore e di potenziale committente, Massimiliano Bontempi entra di fatto a far parte del gruppo. Le opzioni di metodo sono vagliate alla luce dell’obiettivo, oltreché con sano pragmatismo, in funzione della sostenibilità dell’investimento. Quest’ultimo è un punto importante. Una ricerca ha un costo. Ma è ben diverso se il costo è stabilito, in vista di una superiore autorevolezza, dall’ente di ricerca, o da un organismo comunitario. Qui invece i ricercatori negoziano direttamente con il mondo indagato la propria remunerazione. Sia i ricercatori, sia il committente sono innanzitutto mossi dall’interesse per una esperienza di conoscenza. Ma allo stesso sono stimolati dalla situazione a cercare il più efficace equilibrio tra costi e benefici. Appare evidente a tutti, in fin dei conti, la soglia sulla quale è necessario attestarsi.

Si tratta di una ricerca-intervento. Il suo stesso impianto metodologico contempla che non tutto possa essere previsto a propri: una esperienza di cambiamento non può essere vincolata ad un piano ‘scritto prima’. D’altra parte i vincoli di budget funzionano come virtuoso vincolo fare solo ciò che veramente serve allo scopo.

Si inizia con la formulazione di un concept. Se, infatti, gli obiettivi sono chiari, possono riassunti in poche parole. Il concept è limato e consolidato. Costituirà la linea-guida dell’intero progetto.

Si coinvolgono gli attori. Bontempi, nella sua veste isituzionale di Presidente della Sezione Piccola Industria, propone agli associati il coinvolgimento nel progetto. In una ricerca siffatta non conta tanto il numero dei partecipanti, quanto la qualità del coinvolgimento. Si rinuncia quindi a cercare una partecipazione massiva. In considerazione del metodo adottato, si ritiene sufficiente un campione di quaranta–cinquanta imprese. Uno spontaneo processo di autoselezione porta alla costituzione di un campione di sessantuno imprese. Il progetto è presentato agli imprenditori nel corso di un incontro, che è fruttuosa occasione di messa a punto delle finalità e del metodo.

Per ogni impresa, si intervisterà l’imprenditore, e –nel caso l’imprenditore non abbia nulla in contrario– un suo collaboratore. L’intervista al collaboratore ha scopi di controllo e di rinforzo: approfondimento di specifiche tematiche tecniche, occasione per far emergere fatti sfuggiti all’imprenditore, o da lui sottaciuti. Ma non solo. Ogni piccola e media impresa è un mondo dotato di una sua cultura. E la cultura d’impresa, anche in una piccola impresa, non ha ovviamente come unica fonte l’imprenditore. Se pur l’obiettivo della ricerca non sta nella ricostruzione dei diversi punti di vista che contribuiscono a formare la cultura, resta importante ascoltare anche altre voci: emergerà dalla ricerca, non a caso, che di molte innovazioni sono autonomi autori soggetti diversi dall’imprenditore.

Viene intanto messa a punto la griglia, destinata a costituire il supporto delle interviste. È costruita per supportare un dialogo. Si dà per scontato che l’intervistato possa parlare liberamente, già a partire da una domanda iniziale particolarmente aperta. In questo caso la griglia ha lo scopo di fornire strumenti per contenere il ‘fiume di parole’, delicatamente indirizzandolo verso il tema dell’innovazione. All’opposto, nel caso l’intervistato sia parco di parole, la griglia offre spunti per rilanciare il discorso. La traccia contiene solo una domanda proposta all’intervistatore come ‘obbligatoria’. È una domanda in apparenza chiusa; il suo scopo è –nel caso ciò risulti necessario– ‘rompere il ritmo’ e garantire un rilancio del discorso. L’obbligo è rivolto a vincolare i comportamenti dell’intervistatore prima che i comportamenti dell’intervistato. La libertà nel dialogo deve avere un limite. È in gioco la coerenza del materiale che le interviste devono garantire. Anche questa domanda, del resto, può essere posta in qualsiasi momento dell’intervista. La traccia è volutamente ridondante, sia nel numero delle domande, sia nei suggerimenti all’intervistatore. Perché appunto, definiti i vincoli, sarà lasciata agli intervistatori la massima libertà. Partendo dall’ipotesi che se l’intervistatore è messo nelle condizioni di lavorare in modo consono con il proprio atteggiamento personale, contribuirà in modo più efficace alla raccolta di materiale qualitativamente valido.

Gli intervistatori sono perciò preparati all’attività attraverso due giornate di formazione ed un approfondito incontro di briefing. Nel corso dell’attività di formazione sono simulate situazioni di intervista. La formazione garantisce che gli intervistatori, con il loro personale contributo, partecipino alla ricostruzione del contesto ed alla lettura delle situazioni A maggiore garanzia della coerenza tra progetto e fase di lavoro sul campo, comunque, sei interviste sono personalmente realizzate da De Martini, Redolfi e Varanini.

Terminate le interviste, gli intervistatori sono ancora chiamati a partecipare a un incontro di debriefing. I materiali disponibili in forma digitalizzata sono particolarmente ricchi: le sbobinature delle interviste, i verbali trascritti dagli intervistatori, le schede sul clima relative a ogni industria visitata, le relazioni finali di ogni intervistatore. Il materiale è ridondante. Ma è proprio questa ridondanza che permette, al contempo, la formulazione di ipotesi interpretative e l’organizzazione dei contenuti in forma narrativa.

 Rappresentatività ed autosomiglianza

Il lavoro sulla gran massa dei contenuti testuali è fondato non sulla distanza, sul distacco critico, ma sulla vicinanza. Su un atteggiamento empatico: un processo di identificazione, una sorta di comunione affettiva pone, si spera, nelle condizioni di comprendere ‘cosa vogliono dire’ gli imprenditori. Tutto questo non vale necessariamente per ogni ricerca, ma –almeno in questa occasione– ricercatori e mondo si sono reciprocamente scelti.

Gli osservatori non sono estranei al mondo osservato (Maturana e Varela 1980): ne fanno parte, con un loro specifico ruolo, fondato su una competenza, ma anche su una fiducia. Su questo si fonda l’opera.

Così come l’imprenditore costruisce il suo mondo, organizzando il lavoro di persone e di macchine, così gli osservatori organizzano le parole raccolte. In entrambi i casi, una forma di produzione. Se valgono i presupposti, il frutto del lavoro degli imprenditori ed il frutto del lavoro dei ricercatori saranno legati da una relazione di autosomiglianza.

C’è una simmetria intrinseca dell'insieme. I discorsi liberamente pronunciati dai singoli imprenditori si autorganizzano in un insieme coerente. Il tutto è simile a un suo componente. Se analizziamo una parte d'immagine e la ingrandiamo, osserviamo che il particolare è simile o identico all'immagine completa. (Non è questa la sede per un approfondimento della relazione tra ricerca sociale e ricerca scientifica di fronte ai sistemi complessi (Kauffman 1995). Per una rassegna rimandiamo a Capra 1997).

Analogamente, possiamo dire della relazione tra campione e universo. Il gruppo di imprenditori che sceglie di partecipare alla ricerca ha una sua intrinseca omogeneità, fondata sulla condivisione di un progetto: mostrare come si è, fare ascoltare la propria voce. Si può sostenere che in ogni luogo dell’universo costituito dalla piccola e media industria bresciana esistano soggetti interessati a questo obiettivo. Così il campione, non scelto dai ricercatori, ma frutto di spontanea autoselezione, rappresenta fedelmente l’universo, è legato all’universo da una relazione di autosomiglianza. Anche qui, a cose fatte appare che il tutto è simile a un suo componente. E che se analizziamo una parte d'immagine e la ingrandiamo, osserviamo che il particolare è simile all'immagine completa.

Questo è, in effetti, quanto è emerso quando è entrato a far parte del gruppo di lavoro Gianfranco Tosini, del Centro Studi dell’Associazione Industriale Bresciana, ricercatore consapevolmente estraneo all’approccio ‘etnografico’ e ‘qualitativo’, legato anzi a sani strumenti quantitativi (Spinelli, Tosini e Vitali 2000). La sua partecipazione al gruppo è stata particolarmente fertile proprio per la sua estraneità. Tosini ragiona sulle sue serie statistiche, per lui dire che il mondo è costruito da visioni soggettive non significa nulla. Però Tosini ha avuto a disposizione, tramite questa ricerca, materiali che, per quanto difficili da maneggiare, sono più ricchi del frutto di qualsiasi ricerca qualitativa. Materiali che, in virtù del clima creato, portano alla luce informazioni altrimenti non raggiungibili, informazioni che possono essere rese anche sotto forma schematica. E che costituiscono base per eventuali approfondimenti quantitativi.

Ma c’è di più, il lavoro di Tosini dimostra che il campione è autosomigliante all’universo.

Infine, il lavoro sugli indicatori. Redolfi ha lavorato ben sapendo dell’esistenza di indicatori elaborati in sedi prestigiose e già consolidati. Ma si tratta di indicatori che, di fatto, non hanno saputo spostare nell’opinione pubblica l’idea che la piccola e media impresa è incapace di innovazione. Gli indicatori proposti potevano nascere solo ‘ripartendo da zero’ e tenendo conto di nient’altro che di quanto è emerso da questa ricerca. Si tratta in questo caso certo di un lavoro da affinare, e l’affinamento potrà avvenire per prove ripetute solo proseguendo nel lavoro con gli imprenditori coinvolti nel progetto. Ma ciò che conta è l’impostazione, fondata sull’autosomiglianza. Il metodo di rilevazione è scelto in funzione dello scopo. Il metodo deve essere, in principio, rappresentativo della cultura e del ‘modo di vedere le cose’ dei piccoli e medi imprenditori bresciani.

Il lavoro sugli indicatori può in questo senso ben rappresentare il lavoro svolto, fondato sul tentativo di saldare –come ci insegnano i piccoli e medi imprenditori– l’orientamento ad iniziative di grande respiro, anche ambiziose con l’attenzione rivolta alle cose pratiche e concrete.


Note:
1 - Questo testo (salvo alcune modifiche di dettaglio apportate in sede redazionale) è il capitolo metodologico di una ricerca sull’innovazione nella piccola e media impresa bresciana. (Mauro De Martini, Maurizio Lambri, Massimo Redolfi, Gianfranco Tosini, Francesco Varanini, L’innovazione latente. Un campione di piccole e medie imprese bresciane si racconta, Il Sole 24 ore, 2001).
Francesco Varanini, responsabile dell’impianto metodologico e della direzione della ricerca, ha scritto i capitoli Ogni piccola industria è un mondo e Scelte di metodo, e ha curato l’organizzazione dei materiali sotto forma narrativa.
Maurizio Lambri e  Mauro De Martini hanno lavorato in particolare ad una prima organizzazione dei materiali, tesa a far emergere le chiavi di lettura, ed hanno scritto il paragrafo Appunti per una sintesi dei risultati. Una ipotesi interpretativa.
Massimo Redolfi è autore del capitolo Per una misura della capacità innovativa.
Gianfranco Tosini è autore del capitolo Le relazioni tra campione ed universo.

 

Bibliografia
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