BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 23/07/2001

Siebel e il CRM ‘americano’: il pericolo del cliente immaginario

di Francesco Varanini

Tra i venticinque top manager segnalati da Business Week nel gennaio di quest’anno ha un posto di rilevo Thomas M. Siebel. Non tanto per i comportamenti tipici del rampante imprenditore della Silicon Valley –il jet personale, il ranch nel Montana–. E nemmeno per il fatto che Siebel Systems Inc. in sette anni è cresciuta con un trend superiore a quello di qualsiasi altra softwarehouse, Microsoft compresa.

Il punto è che si possono attribuire a Siebel ottime prospettive di crescita anche nell’attuale momento di depressione del mercato dei titoli legati alla new economy. Il business di Siebel, infatti, sta nell’offrire risposte a quella che è probabilmente la domanda chiave della new economy: come portare a valore il più significativo, ma anche il più difficile da maneggiare degli asset intangibili – i clienti fidelizzati.

Siebel Systems Inc., fondata nel 1993, è ormai leader indiscusso nel mercato del Customer Relationship Management. Lo è in virtù della bontà del modello, molto più che della mera qualità del software. L’architettura del data base non è così buona da garantire un vantaggio competitivo. Non c’è nessuna vera originalità nelle scelte tecnologiche. Ma ciò che non ha confronti è il modello complessivo. Come mantenere attiva una comunicazione a due vie con i clienti. Come avere accesso integrato alle informazioni – sia con lo scopo di gestire al meglio la relazione con ogni singolo cliente, sia con lo scopo di adeguare in continuo prodotti e servizi.

Thomas Siebel merita dunque tutta la nostra ammirazione: ha immaginato e implementato quello che è senza dubbio il miglior sistema informativo integrato per la gestione dei clienti. Peccato però che, fatalmente ed inevitabilmente, il suo software porti con se un marchio culturale: è progettato negli States, per consumatori degli States, a partire da una cultura del consumo ed in genere delle relazioni interpersonali che tutta americana.

Si ritrova qui lo stesso vizio che caratterizzava un altro software leader di mercato, il SAP. Nel disegnare l’organizzazione di una impresa, SAP portava in sé –come cavallo di Troia- una modello fortemente strutturato, non a caso pensato da ingegneri tedeschi. Niente di male, anzi molto bene. Peccato che sia solo uno dei modelli possibili, e peccato che i molti che l’hanno introdotto non abbiano riflettuto abbastanza sugli effetti di uno strumento che –in cambio di indubbi vantaggi sul piano dell’efficienza– riduce gli spazi per le differenze culturali, che sono in fondo la fonte ultima della ricchezza e del vantaggio competitivo.

Se il rischio era già evidente per il SAP, ed in genere per tutti i software Enterprise Resource Planning, più grave è per i software Customer Relationship Management. Se con gli ERP si ‘mette ordine’ dentro l’organizzazione, il CRM, potremmo dire, tenta di ‘mettere ordine’ nel mondo. Presupponendo un comportamento standard da parte di ogni singolo consumatore. Ed imponendo di fatto – attraverso la relazione instaurata– comportamenti uniformi alla totalità dei consumatori.

Se ciò accadesse, si tratterebbe di un dramma non solo per chi consuma, ma anche per chi produce e vende. Il servizio è cultura. Gli stili di vita e di consumo sono diversi da luogo a luogo. Troppo spesso si ragiona come se esistesse un mercato globale indifferenziato. Salvo poi scoprire a posteriori che motivi culturali fanno sì che –per esempio– in Italia e nei paesi scandinavi il telefono cellulare trova una diffusione che non ha paragoni altrove. E perché negli Stati Uniti, a differenza dell’Europa, è diffuso l’uso del pager, il cercapersone?

Considerare i brand sovra-nazionali, in grado di diffondersi in ogni luogo del pianeta è la legittima aspirazione delle grandi corporation, dei grandi brand, ma porta spesso a sonore delusioni. Il cliente italiano –anche il cliente fidelizzato, il customer– è diverso non solo dal cliente dello Zambia o dell’Ecuador, ma anche dal cliente del Regno Unito, o degli States. I comportamenti, gli atteggiamenti, i valori in base ai quali si muovono i consumatori italiani, francesi, tedeschi, giapponesi o statunitensi sono differenti.

Non possiamo certo imputare a Thomas Siebel, come se fosse una colpa, il fatto che anche nel nostro paese società di consulenza e System Integrator considerino ormai Siebel standard e modello. Ciò non toglie che dietro questa ormai incontrastata leadership si nasconda una minaccia. Se si vuole acquisire un vero vantaggio competitivo c’è bisogno di modelli aziendali, nazionali; c’è bisogno di letture dialettali. Si deve saper valorizzare la diversità dell’offerta. Si deve saper cogliere la specificità ‘anormale’ nei comportamenti dei clienti. Il patto tra impresa e cliente si consolida se facciamo qualcosa di diverso dagli altri.

Purtroppo, come ogni software, Siebel porta con se una inevitabile tendenza alla normalizzazione. La responsabilità di una miope gestione dei clienti sta nei vertici di quelle imprese che rinunciano a pensare ad un proprio modello, e si affidano ciecamente a Siebel. Resta il fatto che Siebel, suo malgrado, offre l’alibi.

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