BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 06/08/2001

SOLUZIONI NUOVISSIME O CRETINATE?

Dialogo sulla teoria e sulla pratica

di Francesco Varanini e Nicola Gaiarin

Caro Francesco,

Uno dei pregi di Bloom, secondo me, è la sua apertura. Il sottotitolo del progetto presenta, una accanto all’altra, due indicazioni che mi sembrano delle dichiarazioni d’intenti: narrare l’organizzazione. Come dire: l’organizzazione, il management, la formazione passano anche attraverso una specie di supplemento narrativo, un elemento dinamico, all’incrocio tra la teoria (l’elaborazione compiuta di un concetto o di una definizione) e la pratica (l’esperienza come fattore decisivo che si sottrae alle definizioni troppo rigide). I due elementi, in ogni caso, non sono poi tanto pacifici e ovvi. Ci sono in circolazione molte ipotesi teoriche più o meno raffinate ma poche fanno i conti con questa tensione tra il dire e il fare, tra la descrizione di uno stato di cose e quel qualcosa in più che catapulta l’osservatore nel panorama osservato e mette in crisi le sue certezze e, soprattutto, i suoi modelli descrittivi e conoscitivi. La narrazione, in ogni caso, non è una soluzione, ma l’apertura di un percorso che non esclude certo modelli più rigorosi. Anche perché prima del racconto ci deve essere un fatto da raccontare, uno zoccolo duro di esperienza da mettere in gioco.

Queste considerazioni, che spero non siano troppo distanti dal senso di Bloom, derivano dalla lettura di un libro molto lontano, apparentemente, dal mondo delle organizzazioni: Una Ikea di università di Maurizio Ferraris. Si tratta di un pamphlet, un libretto cattivo e tagliente, di quelli scritti per arrivare a bersaglio e per lasciare il segno. Come tutti i libelli satirici e swiftiani contiene una galleria di personaggi difficili da dimenticare: vediamo sfilare infatti lo Studente di scienze della comunicazione, l’Esperto di job placement, il Professore multimediale e quello jazzistico. Tutti personaggi di un teatrino che ci troviamo ogni giorno davanti agli occhi. Questi figuri sono accomunati da un atteggiamento che sembra ormai andare per la maggiore: la professionalizzazione spinta, la confusione tra competenze e applicazioni (come nelle mitiche applicazioni tecniche delle scuole medie), il mix scriteriato di superficialità e abissalità. In poche parole, lo sganciamento progressivo tra la formazione universitaria (soprattutto nelle facoltà umanistiche, ma non solo) e il mondo del lavoro ha portato alla proliferazione di ibridi piuttosto inquietanti. Perché la soluzione escogitata per colmare questo gap è, come sempre, improvvisata e dannosa: invece di risalire ai principi, come di solito dovrebbero fare la filosofia e l’università in genere, si scende alle conseguenze, tagliando fuori gli studenti da qualsiasi possibilità di approfondimento. Vengono offerte solo nozioni "nuovissime", senza rendersi conto che qualcun altro (Kant ma anche Taylor, Weber o Proust) le aveva già analizzate in maniera più puntuale ed efficace. Ci si avvicina alla tastiera di un computer come se si dovesse andare incontro ad un’esperienza cognitiva rivoluzionaria lasciando da parte quel bagaglio di competenze di base indispensabili che provengono dai "vecchi" lavori cognitivi (quando, per esempio, la tua attività borderline di scrittore e consulente mostra proprio la reciproca traducibilità di simili esperienze). Un corso di scienze della comunicazione (o di Scienze dell’ospitalità), dietro il nome alla moda può nascondere dei percorsi che offrono molto meno delle vecchie lauree in Lettere o Filosofia. I presunti protagonisti del futuro sono condannati a parti di secondo piano e a nozioni di seconda mano.

La differenza tra applicazione e competenza è decisiva perché spesso si riduce la necessità innegabile di acquisire competenze (che riguarda i principi, se non l’etica, come dici nei tuoi Romanzi per manager a proposito del "dover essere" di Kundera) alla conoscenza superficiale di "tecniche" (il web, i media, la comunicazione). Il problema è che le tecniche, senza la tecnologia – e quindi senza i veri esperti, quelli cioè che i computer li programmano, i media li "fanno" e le organizzazioni le gestiscono – combinano poco e questi tecnici applicativi rischiano di essere solo dei superficiali che nascono già vecchi, irrimediabilmente al traino di un mondo del lavoro che va sempre molto più veloce delle teorie usa e getta. Ecco allora che l’esperto di job placement e il teorico della comunicazione propagandano come futuro dorato la master web career (che spesso si riduce alla compilazione di pagine web) o la semiotica come scienza concreta e assolutamente nuova (quando magari per capirla davvero bisognerebbe dare un’occhiata anche ad Aristotele, Hegel o Wittgenstein). Oppure i docenti, che magari faticano ad usare un telecomando, si scoprono esperti di multimedialità e dissertano sulle illimitate potenzialità cognitive della rete. Tutto avviene all’insegna dell’approssimazione: dato che finora vi abbiamo raccontato cretinate (Marx e il Postmoderno e l’Ermeneutica come ricette universali), ve ne raccontiamo un’altra, spacciandola per incremento delle competenze e accesso al mondo del lavoro. Insomma: con un gioco di prestigio il gap si dovrebbe colmare con del materiale inesistente. E che proprio perché inesistente rappresenta una risorsa abbondante che ogni "docente" può far saltar fuori a piacimento.

Ferraris, che è stato tra i primi, in Italia, a parlare di postmoderno e che è cresciuto alla scuola dell’ermeneutica, quando critica sa bene di cosa parla, e non ha paura di correggere i propri errori. Al contrario degli esperti di vario genere, che non sbagliano mai perché non hanno mai creduto realmente a quello che facevano. Le tesi di Ferraris (che sono molto più ricche di questo mio excursus e che toccano questioni di grande rilievo filosofico) si possono condividere o respingere, ma meritano di esser prese in esame. Credo che da te e dagli amici di Bloom potrebbero venire indicazioni importanti proprio perché "narrare l’organizzazione" dovrebbe essere il contrario di "spacciar frottole per la realtà". Chi si muove su Bloom ha molto spesso competenze reali, vocazioni intrecciate ad esperienze di vita, attività in cui le idee sono giocate strategicamente sul piano della pratica. Qualcuno viene dalla fisica e qualcuno dall’antropologia, qualcuno usa gli strumenti della sociologia e qualcun’altro parla di quello che fa ogni giorno. La selezione del personale offre l’occasione per costruire esperimenti mentali penetranti e uno scrittore può mostrare il funzionamento di un’impresa. Insomma, ci sono pochi "Esperti" e molte persone che cercano di unire i principi – le competenze, le conoscenze, i modelli teorici ma anche le loro scelte di vita – all’attività. Da questi percorsi possono forse venire delle risposte ai problemi della formazione e del legame scuola-professioni evitando l’atteggiamento di chi offre soluzioni solo perché si trova tagliato fuori dalla stanza dei bottoni in cui nascono i problemi davvero rilevanti (come la vecchia di Bocca di rosa, che non può più dare il cattivo esempio).

A presto,

Nicola


Caro Nicola,

condivido quasi tutto quello che dici, e quello che dici si rispecchia, mi pare, nel mio personale percorso di crescita e di avvicinamento alla professione. Proprio per questo non mi è facile risponderti. Sono una persona che porta con sé i segni e le tracce di un percorso, e allo stesso tempo sono anche un professionista, che si confronta con altri professionisti che operano su uno stesso mercato –quello della consulenza, della formazione–. E in quanto professionista non posso chiamarmi fuori, sono implicitamente bersaglio delle critiche dell’autore che prendi a spunto (autore che, mentre ti rispondo, non ho ancora letto).

Non posso chiamarmi fuori, sono operatore di un mercato fatto di soluzioni ‘nuovissime’, che appaiono tali a chi voglia, ma che sono in realtà modeste applicazioni di pensiero ‘forte’ e spesso remoto: il pensiero manageriale non è altro che un ri–dire, ri–confezionare pensieri e soluzioni già masticati da filosofia, matematica, scienze. E perché no, letteratura. Si incarta il pacco in qualche modo, si danno nomi eclatanti, ma di nuovo –per chi sapesse e volesse vederlo– non c’è niente. Non può esserci: il pensiero del management è pensiero di seconda mano.

(Mi sono trovato molte volte in riunioni di amici e colleghi, anche di fronte a clienti, riunioni dove l’unica forma di ‘produzione’ era la costruzione dell’immagine di sé. Voglio dire: siamo colleghi, ci conosciamo da una vita, eppure ci concediamo a vicenda i nostri dieci minuti di esibizione, in cui sfoderiamo citazioni di testi sacri e di pretese ultime novità, cenni a persone importanti che ci gratificano di amicizia e stima, richiami a nostre gloriose esperienze di lavoro. A turno ognuno fa il suo discorsetto esibitivo, con gli altri che senza un minimo di ironia approvano e sottolineano. Tutto di seconda mano, anche l’immagine di noi stessi!)

La domanda che mi pongo, ripercorrendo il tuo ragionamento, è allora questa: ci si deve rassegnare a diffidare comunque della produzione di chi scrive intorno al management, e si deve necessariamente andare a cercare nuovo pensiero altrove, più a monte? Oppure si può sperare comunque di trovare nelle riflessioni sul management qualcosa di nuovo e illuminante?

La mia risposta è questa: si può trovare qualcosa di nuovo, ma solo lì dove il manager stesso, o il progettista di sistemi informativi, o lo studioso o il ricercatore, accettano di vivere il loro ruolo come esperienza soggettiva – anziché solo come ‘riproduzione’ di un sapere che non contiene nulla di nuovo, perché è sostanzialmente di seconda mano. (Dicevo sopra tra parentesi del consulente, ma guardiamo anche al progettista di sistemi informativi: il suo lavoro è tutto di seconda mano, monta moduli e organizza costrutti già esistenti, già prodotti da altri).

Mi permetto quindi un salto logico, e paso a una citazione: "Beato chi è diverso/ essendo egli diverso./ Ma guai a chi è diverso/ essendo egli comune./". Sono versi di Sandro Penna, cristallini e in apparenza semplicissimi – ma nascondono una grande verità. Non si è resi diversi dallo status: un docente universitario di organizzazione aziendale non diventa creativo con la cattedra, uno sviluppatore non sviluppa in modo innovativo solo perché usa questo o quest’altro strumento di sviluppo.

Conta –è banale dirlo?– la vita che c’è dietro.

(Per questo –mi accordo che sto abbondando in parentesi ed incisi, ma non importa: certi discorsi non sono mai lineari– è fondamentale saper guardare agli interstizi dell’organizzazione. Lì si annidano i talenti nascosti che dovremmo saper portare alla luce, lì sta la conoscenza che fa la nostra organizzazione diversa e potenzialmente migliore. Il vero Knowledge Management sta in questo: nel guardare negli interstizi. La ridondanza, la conoscenza apparentemente inutile è potenzialmente la vera ricchezza. Permettimi, Nicola, una citazione, tratta dal mio libro di poesie aziendali –T’adoriam budget divino 1994, frutto di verissime esperienze di lavoro–.

 

INTERSTIZI

Ho conosciuto palombari,
piloti di Cessna e di bob,
commercianti di monili, portaborse,
poeti d'avanguardia, guardiacaccia,
ali destre, catchers,
veterinari, collezionisti di farfalle,
autisti di ambulanze, falegnami,
studiosi di cimbro e di eschimese
ma per l'Azienda solo anonimi impiegati
al massimo, di primo livello.)

 

Dunque: di fronte a tanta retorica ingannevole messa in scena dai professionisti d’azienda –il discorso, ripeto, vale sia per manager che per consulenti e formatori– esplicitare le premesse probabili di ciò che si va dicendo. Esplicitare la propria storia di vita. Questa è la retorica ‘buona’. Il ruolo a cui penso, potrei dire, si costruisce attorno alla propria diversità e alla propria autobiografia. ‘Dico questo perché ho fatto queste esperienze, non perché ho letto questi libri’. Esperienze e percorsi, è ovvio, che non si riassumono nel tempo passato a lavorare dentro una organizzazione, dentro un ruolo. Troppe ‘esperienze’ sono svalutate attraverso il semplice artificio di considerarle frutto di hobby, ‘tempo libero’. Mentre spesso proprio lì sta la vera ricchezza.

(I manuali di management sono salvo eccezione freddi repertori. Per lo più, spiegano le organizzazioni–mondo a partire da chiavi di lettura esterne, desunte da mode o modelli. La consulenza – a partire da modelli esterni– pretende di restituire a chi lavora in una organizzazione una immagine di sé, ma non tiene conto dell’immagine che l’organizzazione ha già di sé. Un buon libro abbastanza recente ne è caso esemplare. Gedeon Kunda, nell’Ingegneria della cultura, ed. originale 1991, ci parla da antropologo di una grande impresa high tech di successo, racconta con acume, ma come partendo dal presupposto che chi vive nell’organizzazione non sa cosa sta vivendo, e come sta vivendo. Ma perché Kunda si interessa a questo argomento? Perché si appassiona per questo oggetto d’indagine? Solo alla fine, mollando il rigoroso autocontrollo tenuto fin lì, Kunda si apre, e apparentemente divagando parla di sé, di come il suo essere ebreo lo ha spinto ecc. ecc. Solo alla luce di questa chiusa –che naturalmente a molti critici appare inutile e immotivata– la ricerca acquista senso).

Non tutto il mercato capirà questo approccio. Ma lì dove il management, la consulenza e la formazione ‘normale’ appaiono insufficienti, saranno apprezzati un management, una consulenza ed una formazione che non percorrono strade del tutto consuete.

Del resto le piste ‘consuete’ del management, della consulenza e della formazione sono sempre più ristrette, e necessitano sempre meno di veri manager, consulenti, formatori: sempre più diffuse le formule già scritte, codificate, chiuse in software e modelli. Software e modelli non chiedono altro che ‘applicazione’ – e troppi manager, consulenti e formatori accettano di fatto che il loro ruolo sia ridotto a quello di ‘applicatori’. La banalizzazione del ruolo va di pari passo con l’esigenza di enfatizzare il ruolo: ed il condiviso lavoro degli attori teso a farsi apparire reciprocamente ‘importanti’. Ed ecco i sottocodici esoterici dell’esperto di I&CT, del consulente, del manager. Non di rado, purtroppo, cretinate –ecco che dopo qualche giro, caro Nicola, torno al tuo discorso, e ti cito– "cretinate, ve ne raccontiamo un’altra, spacciandola per incremento delle competenze e accesso al mondo del lavoro".

Senza pensare di scoprire la luna – altri ci sono arrivati prima di noi– Bloom si interroga a proposito dei ruoli. Si può fare il manager, il consulente, il formatore in tanti modi. Visto che Nicola mi sbilancio e dico la mia.

Invece di considerare dovere etico il limitarsi a ciò che è pertinente, essere impertinenti per scelta. Invece di rifarsi a fonti (scolasticamente) giuste, ragionare attorno a labili nessi e connessioni che visitano la mente in quel momento, apparentemente per caso. Guardare – osservando un’organizzazione – ai luoghi nascosti ed oscuri. Muoversi nelle nicchie e nelle zone di confine.

Privilegiare la dimensione del racconto: se evito la griglia di schemi interpretativi troppo rigidi, comprenderò meglio il mondo che ho di fronte, e rispetto al quale sono straniero.

I sistemi che abbiamo di fronte, e anzi: i sistemi dei quali facciamo parte, sono irrimediabilmente complessi. La narrazione –nella sua apparente confusione– riesce a restituire una immagine efficace della complessità. La narrazione non sempre è in grado di evidenziare i punti chiave della lettura di un mondo, ma perlomeno li contiene. Mentre fallaci si dimostrano gli approcci fondati su metodi tesi a semplificare la complessità evidenziando solo questo o quest’altro aspetto: in base a quale criterio questo e quest’altro aspetto sono i più rilevanti?

Un saluto

Francesco

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