BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 28/01/2002

STILE DI LEADERSHIP E SPIRITO DEL TEMPO

di Francesco Varanini

1. ACCANIMENTO MANAGERIALE
Chiamiamo accanimento manageriale l'illusorio tentativo di determinare gli eventi, di forgiarli, piegandoli alla personale volontà di dominio.
Pensiamo a Napoleone. Al Napoleone personaggio storico, e ancora di più al Napoleone personaggio letterario, così come è ritratto da Tolstoj in Guerra e Pace. Napoleone emana norme, stabilisce linee guida, elenca priorità, attacca. In una parola, comanda. Ma si può veramente comandare agli eventi? Un sereno ragionamento sulla complessità dei sistemi organizzativi dovrebbe far riflettere. E' impossibile controllare tutte le variabili, è inutile pensare di possedere gli elementi per decidere 'razionalmente'. Non disponiamo mai degli elementi per 'prendere la decisone migliore'. Ogni nostra decisione, checché ne pensiamo, è subottimale. Se ci va bene, niente più che 'la meno peggiore delle decisioni possibili'.
La vita aziendale funziona in base alle procedure vigenti, ma solo in apparenza. Le disposizioni operative continuano ad essere emanate, ma esistono solo sulla carta; gli ordini di servizio non riflettono i rapporti di potere effettivi; tutti fingono di lavorare nell'interesse dell'organizzazione, ma i veri obiettivi sono altri. Ciò è particolarmente evidente in situazioni di crisi. Come scrive Tolstoj: "ognuno pensava solo a se stesso e al modo di andarsene al più presto e di mettersi in salvo".
Corto Maltese, l'avventuroso personaggio creato da Hugo Pratt, convinto di poter forzare il destino, si guarda il segno della vita sul palmo della mano, e non soddisfatto se lo prolunga con il coltello. Anche il comportamento di Corto Maltese è una forma di accanimento. La 'linea della vita' non può essere mutata, può solo essere compresa.
Accanirsi: 'ostinarsi sulla preda'. Insistendo su un obiettivo, su un punto di vista. A che scopo? Il mondo cambia sotto i nostri occhi, le scelte formulate ieri sono oggi probabilmente già inadeguate. L'accanimento in fondo è una rinuncia a guardare come il quadro muta sotto i nostri occhi. L'accanimento è un atteggiamento che prescinde dai dati di realtà. Perché la 'realtà' -l'ambiente- è un mutevole, sfuggente, inafferrabile quadro privo di confini, del quale noi stessi facciamo parte. C'è una relazione profonda tra persona e ambiente. Tra le nostre scelte e il mondo. Una relazione che -come aveva ben capito Jung- riguarda più il nostro inconscio che i comportamenti consapevoli. Una relazione che ci appare misteriosa. Eppure, le nostre decisioni sono efficaci proprio quando accettiamo questo mistero, e seguiamo l'intuito, diamo valore alle coincidenze.
L'accanimento manageriale va nel senso opposto: intuizioni, coincidenze, 'segnali deboli', appaiono poca cosa rispetto al gesto d'imperio. Alla ferma decisione. Ciò non toglie che anche dove vogliamo illuderci di aver deciso in funzione di informazioni certe, scegliamo di fatto a partire da credenze, punti di vista opinabili, conoscenze discutibili, parziali letture del contesto.
Meglio allora prendere ad esempio e a modello il generale Kutusov. Anche qui, più che al personaggio storico, facciamo riferimento al personaggio tolstojano. E' un vecchio uomo stanco, richiamato solo per disperazione a capo dell'esercito che deve combattere l'invasione napoleonica. Durante le battaglie si addormenta, o legge romanzi. A ragione, perché in quel momento il gesto di comando non aggiunge niente a quello che l'esercito potrà fare. Basa la sua azione sulla cultura, sulla conoscenza del modo di pensare dei suoi soldati. Accetta questo modo per quello che è. Mette in conto la distruzione di Mosca, accetta che la capitale sia bruciata e rasa al suolo in nome di uno scopo più alto, salvare la Russia. A differenza di Napoleone, non domina gli eventi. All'opposto, accetta di esserne dominato. Non pretende di cambiare il mondo. All'opposto, lascia che il mondo lo cambi. Non si illude di sapere, ma è disposto sempre ad apprendere. Non impone a se stesso l'obbligo di essere all'altezza di un ruolo, di un modello dato. Adatta il ruolo a se stesso, al proprio carattere.
L'ambiente ecologico -che è un sistema vivente, un sistema complesso fatto di uomini, cultura, storia, ambiente naturale (pensiamo all'inverno russo, che stronca il Napoleone glorioso vincitore)- si evolve: ciò che realisticamente è per noi possibile, ci insegna Kutuzov, è comprendere questa evoluzione, e muoversi in sintonia con essa.
Vince il manager che 'coglie il trend', legge gli eventi, si adegua. Kutusov, con gli occhi semichiusi, è in sintonia con il mondo più di Napoleone, che si accanisce, e sbarra gli occhi nello sforzo di sognare il futuro.
Molto ha da insegnarci il pensiero orientale. Pensiamo all'I Ching, o Il Libro dei Mutamenti, summa filosofica del pensiero cinese, nutrimento spirituale, fonte di saggezza, strumento di divinazione. Il Libro appare così misteriosa testimonianza di una situazione che ci sovradetermina, che non ci è dato di cogliere pienamente attraverso la nostra misera razionalità.
Così la nostra soggettiva capacità di percezione è ricondotta a confrontarsi con la sua inefficacia, con la sua incapacità di abbracciare l'enorme complessità dei sistemi organizzativi. Epperò con tutto questo la nostra soggettiva capacità di percezione non è negata. Il Libro ci indica la Via, ma sta a noi saper leggere le sue parole, decifrarne il messaggio.
Senza accanimento. Tenendosi lontani dai grandi gesti, soggettivamente gratificanti, ma alla fin fine inutili.

Napoleone Kutusov
Guglielmo II Francesco Giuseppe
Bettino Craxi Aldo Moro
Thomas Buddenbrook 1 Zeno Cosini 2
Fabio Capello Carletto Mazzone

Figura 1. Matrice delle prevalenze: atteggiamenti napoleonici versus atteggiamenti kutusoviani.


2. UNDICI FATTORI MENTALI POSITIVI
Consideriamo il comportamento di manager, dirigenti e capi che conosciamo. Consideriamo il comportamento di colleghi e collaboratori. Consideriamo innanzitutto il comportamento di noi stessi.
Esperienze infelici spingono a non concedere fiducia. Non fidarsi è meglio. Non credere senza verifiche in ciò che ci è stato detto, in ciò che ci si dice sia stato fatto, appare normale ed auspicabile manifestazione di prudenza.
Accettare i compromessi appare indispensabile: i condizionamenti sono forti, i vincoli non modificabili. Appare saggio rinunciare a manifestarsi per come si è, accettando di apparire come gli altri sono disposti a vederci.
E parallelamente la considerazione per gli altri è, con ragione, segnata da pregiudizi. Facile accorgersi degli evidenti limiti delle persone, di come si sopravvalutano e sono sopravvalutate.
Di fronte a persone inadeguate, che non meritano fiducia, o che approfittano delle situazioni, è necessario difendere il proprio spazio. Regola dell'ambiente competitivo è appropriarsi per primi delle informazioni, espropriare agli altri le informazioni in loro possesso. Conservare e tesaurizzare il proprio vantaggio.
I rapporti di lavoro sono regolati da comportamenti formali, da un galateo che prevede il rispetto dell'altro, dipendente o superiore che sia. Ma spesso la forma nasconde rabbia e disprezzo.
Se la realtà lavorativa ed i risultati raggiunti non soddisfano, è facile crearsi giustificazioni, e trasformare queste giustificazioni in certezze indiscutibili. Certezze sui perché, convinzioni in merito alle colpe, pretese sicurezze a proposito del futuro.
Anche l'inadempienza altrui, l'inefficienza diffusa, offrono giustificazioni. Non paga essere diligenti se nessuno se ne rende conto.
Cala così l'attenzione, perché ci sono cose che si preferisce non vedere. Meglio non sapere troppo, meglio farsi i fatti propri.
Raramente l'oggetto del lavoro merita davvero attenzione. Raramente le persone con cui lavoriamo meritano attenzione. Si ha spesso la sensazione di dare troppo.
La competizione e l'insoddisfazione amareggiano. Le tensioni sfociano in comportamenti anche gratuiti, ma che costituiscono uno sfogo.
Le energie sono male indirizzate, il tempo è speso senza ragione, gli sforzi sono inevitabili ma scarsamente produttivi.
È sensato lavorare così? Si può lavorare meglio?
Domande che si preferisce non porsi, o che sembrano avere risposte scontate. Perché non riusciamo a far di meglio 'in casa nostra'. E preferiamo non interrogarci troppo a questo proposito. O perché riguardano altre persone ed altre organizzazioni, e tutto sommato a che scopo preoccuparci per il fatto che altrove si lavora male?
Ma il fatto è che diventa sempre più difficile evitare queste domande. Lo spreco di risorse insito in un modo di lavorare 'nevrotico' è uno spreco che ci riguarda in ogni caso. Ci riguarda perché, lavorando male, stiamo male. Ci riguarda perché così operando la nostra organizzazione peggiora i propri risultati. Ma ci riguarda anche perché il modo di lavorare 'nevrotico' è un costo sociale, un costo del quale tutti subiamo le conseguenze. Non possiamo infatti dimenticare che operiamo nel quadro di una rete interponeva, in un 'sistema ecologico': e vale il paragone di come l'inquinamento di un terreno influenza inevitabilmente anche la qualità dei terreni vicini.
Quale risposta possiamo dare a questi interrogativi? Non c'è una risposta. Eppure la risposta può essere cercata. Arrivando per questa via alle motivazioni profonde del cambiamento. Perché una organizzazione che appare efficiente dovrebbe cambiare? E perché dovremmo -la domanda vale per ognuno di noi- cambiare atteggiamento? Tendere al cambiamento sembra comunque opportuno. Per ridurre questo spreco di energie. Per avvicinarci ad un più profondo equilibrio. Con vantaggi per la persona e per il complessivo sistema. (Il cambiamento in questo senso non è ricerca di un futuro diverso; è ritorno all'equilibrio).
Di questo ci parlano voci remote, che provengono da luoghi apparentemente lontanissimi dai territori del management e del business. Se proviamo a gettare uno sguardo sulla lezione del Buddhismo 3 -anche a guardare con gli occhi superficiali dello straniero, di chi è distante culturalmente- troviamo l'indicazione di come rovesciare in positivo l'atteggiamento 'nevrotico' sopra ricordato.
Un comprensivo interesse per gli altri può rimpiazzare l'ansia e l'irritazione generate dall'egoismo. Come sarebbe l'ambiente di lavoro che frequentiamo, e quale ricchezza produrrebbe, se prevalesse questo atteggiamento?

3. GLI UNDICI FATTORI 4

1. CONFIDENZA - FIDUCIA (sraddha)
2. RISPETTO PER SE STESSI (hri)
3. CONSIDERAZIONE PER GLI ALTRI (apatrapya)
4. NON ATTACCAMENTO (alobha)
5. NON - ODIO (advesa)
6. NON - ILLUSIONE (amoha)
7. DILIGENZA (virya)
8. VIGILANZA (prasrabdhi)
9. SOLLECITUDINE (apramada)
10. SERENITÀ D'ANIMO (apeksa)
11. NON - VIOLENZA (ahimsa)


Note:
1 Thomas Mann, I Buddenbrook.

2 Italo Svevo, La coscienza di Zeno.

3 Senza addentrarci qui in riflessioni più approfondite sul Buddhismo e più in generale sulla lezione delle filosofie orientali, rimandiamo a due testi.
Ananda K. Coomaraswamy, Hinduism and Buddhism, New York, The Philosofical Library, 1943; trad. it. Induismo e Buddismo, Milano, Rusconi, 1973 (e 1987).
Francisco J. Varela, Evan Thompson, Eleanor Rosch, The Embodied Mind. Cognitive Science and Human Experience, Massachusetts Institute of Technology, 1991; trad. it. La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell'esperienza, Milano, Feltrinelli, 1992.

4 Tratti da Francisco J. Varela, Evan Thompson, Eleanor Rosch, The Embodied Mind, cit.


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