STILE DI LEADERSHIP E SPIRITO DEL TEMPO
1. ACCANIMENTO MANAGERIALE
Chiamiamo accanimento manageriale l'illusorio tentativo di determinare gli eventi,
di forgiarli, piegandoli alla personale volontà di dominio.
Pensiamo a Napoleone. Al Napoleone personaggio storico, e ancora di più
al Napoleone personaggio letterario, così come è ritratto da Tolstoj
in Guerra e Pace. Napoleone emana norme, stabilisce linee guida, elenca
priorità, attacca. In una parola, comanda. Ma si può veramente
comandare agli eventi? Un sereno ragionamento sulla complessità dei sistemi
organizzativi dovrebbe far riflettere. E' impossibile controllare tutte le variabili,
è inutile pensare di possedere gli elementi per decidere 'razionalmente'.
Non disponiamo mai degli elementi per 'prendere la decisone migliore'. Ogni
nostra decisione, checché ne pensiamo, è subottimale. Se ci va
bene, niente più che 'la meno peggiore delle decisioni possibili'.
La vita aziendale funziona in base alle procedure vigenti, ma solo in apparenza.
Le disposizioni operative continuano ad essere emanate, ma esistono solo sulla
carta; gli ordini di servizio non riflettono i rapporti di potere effettivi;
tutti fingono di lavorare nell'interesse dell'organizzazione, ma i veri obiettivi
sono altri. Ciò è particolarmente evidente in situazioni di crisi.
Come scrive Tolstoj: "ognuno pensava solo a se stesso e al modo di andarsene
al più presto e di mettersi in salvo".
Corto Maltese, l'avventuroso personaggio creato da Hugo Pratt, convinto di poter
forzare il destino, si guarda il segno della vita sul palmo della mano, e non
soddisfatto se lo prolunga con il coltello. Anche il comportamento di Corto
Maltese è una forma di accanimento. La 'linea della vita' non può
essere mutata, può solo essere compresa.
Accanirsi: 'ostinarsi sulla preda'. Insistendo su un obiettivo, su un punto
di vista. A che scopo? Il mondo cambia sotto i nostri occhi, le scelte formulate
ieri sono oggi probabilmente già inadeguate. L'accanimento in fondo è
una rinuncia a guardare come il quadro muta sotto i nostri occhi. L'accanimento
è un atteggiamento che prescinde dai dati di realtà. Perché
la 'realtà' -l'ambiente- è un mutevole, sfuggente, inafferrabile
quadro privo di confini, del quale noi stessi facciamo parte. C'è una
relazione profonda tra persona e ambiente. Tra le nostre scelte e il mondo.
Una relazione che -come aveva ben capito Jung- riguarda più il nostro
inconscio che i comportamenti consapevoli. Una relazione che ci appare misteriosa.
Eppure, le nostre decisioni sono efficaci proprio quando accettiamo questo mistero,
e seguiamo l'intuito, diamo valore alle coincidenze.
L'accanimento manageriale va nel senso opposto: intuizioni, coincidenze, 'segnali
deboli', appaiono poca cosa rispetto al gesto d'imperio. Alla ferma decisione.
Ciò non toglie che anche dove vogliamo illuderci di aver deciso in funzione
di informazioni certe, scegliamo di fatto a partire da credenze, punti di vista
opinabili, conoscenze discutibili, parziali letture del contesto.
Meglio allora prendere ad esempio e a modello il generale Kutusov. Anche qui,
più che al personaggio storico, facciamo riferimento al personaggio tolstojano.
E' un vecchio uomo stanco, richiamato solo per disperazione a capo dell'esercito
che deve combattere l'invasione napoleonica. Durante le battaglie si addormenta,
o legge romanzi. A ragione, perché in quel momento il gesto di comando
non aggiunge niente a quello che l'esercito potrà fare. Basa la sua azione
sulla cultura, sulla conoscenza del modo di pensare dei suoi soldati. Accetta
questo modo per quello che è. Mette in conto la distruzione di Mosca,
accetta che la capitale sia bruciata e rasa al suolo in nome di uno scopo più
alto, salvare la Russia. A differenza di Napoleone, non domina gli eventi. All'opposto,
accetta di esserne dominato. Non pretende di cambiare il mondo. All'opposto,
lascia che il mondo lo cambi. Non si illude di sapere, ma è disposto
sempre ad apprendere. Non impone a se stesso l'obbligo di essere all'altezza
di un ruolo, di un modello dato. Adatta il ruolo a se stesso, al proprio carattere.
L'ambiente ecologico -che è un sistema vivente, un sistema complesso
fatto di uomini, cultura, storia, ambiente naturale (pensiamo all'inverno russo,
che stronca il Napoleone glorioso vincitore)- si evolve: ciò che realisticamente
è per noi possibile, ci insegna Kutuzov, è comprendere questa
evoluzione, e muoversi in sintonia con essa.
Vince il manager che 'coglie il trend', legge gli eventi, si adegua. Kutusov,
con gli occhi semichiusi, è in sintonia con il mondo più di Napoleone,
che si accanisce, e sbarra gli occhi nello sforzo di sognare il futuro.
Molto ha da insegnarci il pensiero orientale. Pensiamo all'I Ching, o
Il Libro dei Mutamenti, summa filosofica del pensiero cinese, nutrimento
spirituale, fonte di saggezza, strumento di divinazione. Il Libro appare così
misteriosa testimonianza di una situazione che ci sovradetermina, che non ci
è dato di cogliere pienamente attraverso la nostra misera razionalità.
Così la nostra soggettiva capacità di percezione è ricondotta
a confrontarsi con la sua inefficacia, con la sua incapacità di abbracciare
l'enorme complessità dei sistemi organizzativi. Epperò con tutto
questo la nostra soggettiva capacità di percezione non è negata.
Il Libro ci indica la Via, ma sta a noi saper leggere le sue parole, decifrarne
il messaggio.
Senza accanimento. Tenendosi lontani dai grandi gesti, soggettivamente gratificanti,
ma alla fin fine inutili.
Napoleone | Kutusov |
Guglielmo II | Francesco Giuseppe |
Bettino Craxi | Aldo Moro |
Thomas Buddenbrook 1 | Zeno Cosini 2 |
Fabio Capello | Carletto Mazzone |
Figura 1. Matrice delle prevalenze: atteggiamenti napoleonici versus atteggiamenti kutusoviani.
2. UNDICI FATTORI MENTALI POSITIVI
Consideriamo il comportamento di manager, dirigenti e capi che conosciamo. Consideriamo
il comportamento di colleghi e collaboratori. Consideriamo innanzitutto il comportamento
di noi stessi.
Esperienze infelici spingono a non concedere fiducia. Non fidarsi è meglio.
Non credere senza verifiche in ciò che ci è stato detto, in ciò
che ci si dice sia stato fatto, appare normale ed auspicabile manifestazione
di prudenza.
Accettare i compromessi appare indispensabile: i condizionamenti sono forti,
i vincoli non modificabili. Appare saggio rinunciare a manifestarsi per come
si è, accettando di apparire come gli altri sono disposti a vederci.
E parallelamente la considerazione per gli altri è, con ragione, segnata
da pregiudizi. Facile accorgersi degli evidenti limiti delle persone, di come
si sopravvalutano e sono sopravvalutate.
Di fronte a persone inadeguate, che non meritano fiducia, o che approfittano
delle situazioni, è necessario difendere il proprio spazio. Regola dell'ambiente
competitivo è appropriarsi per primi delle informazioni, espropriare
agli altri le informazioni in loro possesso. Conservare e tesaurizzare il proprio
vantaggio.
I rapporti di lavoro sono regolati da comportamenti formali, da un galateo che
prevede il rispetto dell'altro, dipendente o superiore che sia. Ma spesso la
forma nasconde rabbia e disprezzo.
Se la realtà lavorativa ed i risultati raggiunti non soddisfano, è
facile crearsi giustificazioni, e trasformare queste giustificazioni in certezze
indiscutibili. Certezze sui perché, convinzioni in merito alle colpe,
pretese sicurezze a proposito del futuro.
Anche l'inadempienza altrui, l'inefficienza diffusa, offrono giustificazioni.
Non paga essere diligenti se nessuno se ne rende conto.
Cala così l'attenzione, perché ci sono cose che si preferisce
non vedere. Meglio non sapere troppo, meglio farsi i fatti propri.
Raramente l'oggetto del lavoro merita davvero attenzione. Raramente le persone
con cui lavoriamo meritano attenzione. Si ha spesso la sensazione di dare troppo.
La competizione e l'insoddisfazione amareggiano. Le tensioni sfociano in comportamenti
anche gratuiti, ma che costituiscono uno sfogo.
Le energie sono male indirizzate, il tempo è speso senza ragione, gli
sforzi sono inevitabili ma scarsamente produttivi.
È sensato lavorare così? Si può lavorare meglio?
Domande che si preferisce non porsi, o che sembrano avere risposte scontate.
Perché non riusciamo a far di meglio 'in casa nostra'. E preferiamo non
interrogarci troppo a questo proposito. O perché riguardano altre persone
ed altre organizzazioni, e tutto sommato a che scopo preoccuparci per il fatto
che altrove si lavora male?
Ma il fatto è che diventa sempre più difficile evitare queste
domande. Lo spreco di risorse insito in un modo di lavorare 'nevrotico' è
uno spreco che ci riguarda in ogni caso. Ci riguarda perché, lavorando
male, stiamo male. Ci riguarda perché così operando la nostra
organizzazione peggiora i propri risultati. Ma ci riguarda anche perché
il modo di lavorare 'nevrotico' è un costo sociale, un costo del quale
tutti subiamo le conseguenze. Non possiamo infatti dimenticare che operiamo
nel quadro di una rete interponeva, in un 'sistema ecologico': e vale il paragone
di come l'inquinamento di un terreno influenza inevitabilmente anche la qualità
dei terreni vicini.
Quale risposta possiamo dare a questi interrogativi? Non c'è una
risposta. Eppure la risposta può essere cercata. Arrivando per questa
via alle motivazioni profonde del cambiamento. Perché una organizzazione
che appare efficiente dovrebbe cambiare? E perché dovremmo -la domanda
vale per ognuno di noi- cambiare atteggiamento? Tendere al cambiamento sembra
comunque opportuno. Per ridurre questo spreco di energie. Per avvicinarci ad
un più profondo equilibrio. Con vantaggi per la persona e per il complessivo
sistema. (Il cambiamento in questo senso non è ricerca di un futuro diverso;
è ritorno all'equilibrio).
Di questo ci parlano voci remote, che provengono da luoghi apparentemente lontanissimi
dai territori del management e del business. Se proviamo a gettare uno sguardo
sulla lezione del Buddhismo 3 -anche
a guardare con gli occhi superficiali dello straniero, di chi è distante
culturalmente- troviamo l'indicazione di come rovesciare in positivo l'atteggiamento
'nevrotico' sopra ricordato.
Un comprensivo interesse per gli altri può rimpiazzare l'ansia e l'irritazione
generate dall'egoismo. Come sarebbe l'ambiente di lavoro che frequentiamo, e
quale ricchezza produrrebbe, se prevalesse questo atteggiamento?
3. GLI UNDICI FATTORI 4
1. CONFIDENZA - FIDUCIA (sraddha)
2. RISPETTO PER SE STESSI (hri)
3. CONSIDERAZIONE PER GLI ALTRI (apatrapya)
4. NON ATTACCAMENTO (alobha)
5. NON - ODIO (advesa)
6. NON - ILLUSIONE (amoha)
7. DILIGENZA (virya)
8. VIGILANZA (prasrabdhi)
9. SOLLECITUDINE (apramada)
10. SERENITÀ D'ANIMO (apeksa)
11. NON - VIOLENZA (ahimsa)
Note:
1 Thomas Mann, I Buddenbrook.
2 Italo Svevo, La coscienza di Zeno.
3 Senza addentrarci qui in riflessioni
più approfondite sul Buddhismo e più in generale sulla lezione
delle filosofie orientali, rimandiamo a due testi.
Ananda K. Coomaraswamy, Hinduism and Buddhism, New York, The Philosofical
Library, 1943; trad. it. Induismo e Buddismo, Milano, Rusconi, 1973 (e
1987).
Francisco J. Varela, Evan Thompson, Eleanor Rosch, The Embodied Mind. Cognitive
Science and Human Experience, Massachusetts Institute of Technology, 1991;
trad. it. La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova
dell'esperienza, Milano, Feltrinelli, 1992.
4 Tratti da Francisco J. Varela, Evan
Thompson, Eleanor Rosch, The Embodied Mind, cit.