BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 10/06/2002

Prosperare non vuol dire crescere, o le false best way proposte dalle grandi Management Consulting Firm

di Francesco Varanini

Leggo un interessante libro appena uscito in italiano. Il libro parla della ‘guerra dei talenti’ [1] . A parte la metafora bellica, forse non necessaria, siamo d’accordo sulla centralità del tema. Coltivare i talenti che sono già all’interno della nostra organizzazione, lavorare al contempo per attrarre nuovi talenti.

Le conoscenze ‘forti’ sono nelle mani di queste persone, difficili da gestire ed esigenti, sempre tendenzialmente insoddisfatte degli spazi offerti, sempre tesi verso nuove scommesse, sempre bisognosi di situazioni stimolanti..

Insomma, per le imprese, per ogni organizzazione, conservare e fidelizzare e rendere produttivi i talenti è oggi la sfida chiave. D’accordo, ma a che scopo? Anche la risposta a questa domanda è ampiamente condivisa: perché solo attraverso un uso oculato dei talenti l’impresa potrà prosperare, generare valore, produrre ricchezza.

Ora però ditemi voi se ritenete che l’unico modo per prosperare, generare valore, produrre ricchezza sta per forza  nel ‘crescere’. Perché questo è quello che si sostiene nella Presentazione dell’edizione italiana della Guerra dei talenti. Presentazione dove il titolo dice tutto, o troppo: Vincere la guerra dei talenti: una priorità per la crescita delle imprese italiane. [2]

“Purtroppo, basta osservare la performance di crescita degli ultimi anni per rendersi conto di quanto sia stato desolante il panorama delle imprese italiane”. “Le grandi imprese italiane sono infatti cresciute meno di tutte le loro pari in Germania. Francia, Inghilterra, Spagna e U.S.A., e soltanto 6 di loro sono presenti nella classifica del 2000 pubblicata da Fortune 500, un numero risibile se paragonato alle 26 francesi, 23 britanniche e 22 tedesche (per non parlare delle 149 statunitensi e delle 79 giapponesi), e lo è ancor di più se paragonato alle 6 svizzere e alle 9 coreane (operanti in economie più ristrette o emergenti)”.

E poi, a questo punto me lo aspettavo, la stoccata finale, riservata alle PMI. “Soprendentemente, una ricerca effettuata da McKinsey nel 2001, presentata a un convegno della Confindustria sulla piccola e media impresa, ha rilevato che anche le piccole e medie imprese, considerate fino ad oggi il punto di forza della nostra economia, sono cresciute assai meno delle loro simili d’oltralpe”.

Ora, si può essere d’accordo sul fatto che se una impresa fa delle sue grandi dimensioni un punto di forza, allora deve essere grande veramente tanto quanto il mercato  globalizzato impone. Ma perché dovrebbe necessariamente crescere chi fa delle piccole dimensioni, garanzia di elasticità e di rapidità, il punto di forza?

Ammetto che anch’io ho sentito esprimere una simile opinione dalla viva voce di un importante esponente della Confindustria, piccolo imprenditore, titolare di una impresa prospera: ‘il nostro limite è che cresciamo poco’. Ma dico io, perché uno dovrebbe sentirsi in colpa, sentirsi in difetto perché l’impresa ha piccole dimensioni.

‘Vali solo se cresci’: questa asserzione mi pare un pericoloso luogo comune. Il mercato è un sistema ecologico, un sistema vivente, adattivo, complesso. In questo sistema c’è posto per grandi e per piccoli. Anzi, c’è necessità di grandi e di piccoli.

Forse è facile dirlo, ma lo dico ugualmente. Non sono gli animali più grossi quelli che hanno avuto più successo nella storia dell’evoluzione. Le dimensioni rendono più vulnerabili di fronti a catastrofi ambientali. Il dinosauro è scomparso. La specie che ha avuto più successo è il batterio.

Potremmo anche aggiungere che oggi, più di ieri, la dimensione è relativa, l’Information & Communcation Technology usata come leva strategica  permette a distretti e gruppi di imprese di operare quando serva con la massa critica della grande impresa. Perché allora necessariamente crescere quando si può essere a seconda delle esigenze strategiche sia grandi che piccoli.

E non è detto che abbiamo molto da imparare dal modello tedesco, o da quello giapponese. Non è detto che il modello statunitense, nato in un contesto culturale ben diverso dal nostro sia per noi imitabile ed auspicabile

Ma poi, sopratutto, il sistema complesso vive e si rinnova in funzione della sua capacità di conservare la diversità, e di rigenerarla continuamente. Ora, se si assume che un criterio evolutivo conta più di un altro, e lo si potenzia e lo si rafforza, e lo si impone, si deprime la diversità. Se tutte le imprese saranno tese a crescere,saremo tutti più uguali, e con questo avremo perso tutti qualcosa. Sapremo crescere, sapremo reagire al rischio di essere troppo piccoli, ma perderemo la capacità di affrontare rischi diversi, per esempio quello di diventare pachidermici ed elefantiaci e insomma di crescere troppo.

Non fraintendetemi, non intendo affermare che sia in assoluto criticabile il modello di sviluppo fondato sulla crescita, voglio solo sostenere che i modelli di sviluppo, e cioè i modelli tesi a migliorare la nostra capacità di prosperare, generare valore, produrre ricchezza, i modelli possono e debbono essere diversi. E tutti possono garantire il successo. E in una logica sistemica più i modelli si contraddicono meglio è. Ogni sistema vivente, a ben guardare, ha una sua ‘forma perfetta’, forse irraggiungibile, ma che è l’obiettivo di sviluppo a cui tendere. A partire da una situazione data, ogni sistema, inteso come irripetibile individualità, dovrà perseguire il miglioramento attraverso lo snellimento, o la crescita, o l’attivazione di migliori connessioni con l’ambiente, ma sempre avendo se stesso come modello.

E’ invece pericoloso considerare vincente, o meglio, se mi consentite, più vincente degli altri, un solo ed un certo modello. Si dovrebbe invece apprendere a pensare a partire dalla differenza, valorizzando i nostri modelli, la nostra storia, la nostra cultura. Crederci anche quando modelli, storia e cultura non vanno d’accordo con quanto teorizzato da leader planetari del pensiero manageriale.

Diciamo che esistono diverse vie per cercare e per conservare e per incrementare la prosperità. Quella fondata sulla crescita è la via che è in grado di proporci una Management Consulting Firm di grandi dimensioni, che opera sul mercato globale, che fonda il proprio valore sulle grandi dimensioni. L’unica via per cercare la prosperià, forse, speriamo di no, che McKinsey ha da vendere.  Non per questo è la migliore.



[1] Ed Michaels, Helen Handfield-Jones, Beth Axelrod , The War of  Talent, Harvard Busness  School Press, 2001, trad it La guerra dei talenti. Come sedurre e trattenere i managers di qualità, Etas, 2002.

[2] Presentazione di Roger Abravanel  (Director McKinsey & Company Italia), Vincere la guerra dei talenti: una priorità per la crescita delle imprese italiane.

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