GUARDARE E RACCONTARE LE IMPRESE. VENEZIA, 11 SETTEMBRE 2002
In margine al seminario (1)
qualche riflessione e qualche commento.
Nella presentazione di ricerche svolte nel nord-est, due interessanti spunti
non sviluppati.
Il primo. Lavoratori stranieri, ‘extracomunitari’, provengono da
una cultura del lavoro dove il compenso è dato a giornata. Non si trovano
con il nostro regime contrattuale. Hanno motivi di non credere che alla fine
del mese verranno pagati. Essere pagati ‘a giornata’, si può
intendere, è un modo per vedere riconosciuti subito i frutti dell’impegno.
Si mangia ogni giorno, in effetti. Ed ogni giorno si lavora in un modo diverso.
Perché rinviare la ‘misura’ del lavoro e la remunerazione?
Mese o settimana o giorno, del resto, la scansione del tempo remunerato è
frutto di una mera convenzione. Anche in Italia il pagamento mensile non è
poi una consuetudine così antica e radicata, o assoluta. Perché
imporre un nostro schema contrattuale, perché invece non cercare un punto
di incontro, o accettare addirittura l’aspettativa dell’altro?
Eppure, dice il relatore, l’imprenditore, a causa di questa discrepanza
tra aspettative del lavoratore ‘straniero’, profondamente radicate
nella sua cultura, e ‘nostre’ regole, è stato costretto a
chiudere il reparto. Avremmo voluto saperne di più.
Il secondo spunto. Imprenditori cinesi in Italia ‘sfruttano’ i loro
connazionali operai, imponendo lunghissimi orari di lavoro, e bassissime retribuzioni.
In apparenza, sfruttamento, certo in contrasto con le vigenti norme di diritto
del lavoro. Ma invece –spiega il relatore– alla base di questo ‘rapporto
di lavoro’ un meccanismo sociale di grande rilevanza: la reciprocità.
Lo scambio non è, come potrebbe banalmente apparire, giocato solo nel
presente, tra tempo lavorato adesso, e conseguente remunerazione in denaro ora
corrisposta. Lo scambio è uno scambio sociale di più vasta portata,
che coinvolge la famiglia estesa (cui sia il datore di lavoro che il lavoratore
appartengono) e tiene in conto il valore immateriale insito nell’aver
permesso al lavoratore ‘straniero’ di inserirsi nella società
e nel mercato del lavoro italiani.
Il relatore qui parla del meccanismo della reciprocità, ma solo per accenni.
Sarebbe stato interessante un approfondimento.
Ciò che ci mostrano in modo particolarmente evidente le ‘relazioni
industriali’ giocate tra imprenditori e lavoratori stranieri, valgono
a spiegare aspetti e meccanismi latenti che regolano ‘di fatto’
il complessivo mercato del lavoro. Non ci facciamo abbastanza caso, ma, dietro
il manto di norme di legge e regole apparenti condivise e apparentemente chiare,
anche i rapporti tra imprenditori (in particolare piccoli imprenditori) italiani
e lavoratori italiani è in larga misura determinato da meccanismi di
reciprocità. Meccanismi che tengono in contro prestazioni e controprestazioni
diverse (fedeltà, apprendimento, legami parentali e amicali, ecc.). Non
tutto si gioca nel valore monetario del salario e dell’orario di lavoro.
Ci sono in ogni caso scambi simbolici, meccanismi di reciprocità.
Ma il seminario è stata l’occasione non solo per presentare ricerche.
E’ stata anche l’occasione per presentare approcci consulenziali
e formativi che in qualche modo si richiamano a un approccio ‘antropologico’.
Metto tra virgolette e dico in qualche modo perché la contiguità
tra l’antropologia e i temi presentati era veramente labile.
Particolarmente deludente dal mio punto di vista l’intervento di Alberto
Fedel, di Nova, società ora confluita nel nuovo gruppo Newton. Ogni approccio
ha le sue ragioni teoriche e le sue sacrosante motivazioni di business. Ma quanto
esposto non ha nulla a che fare con ‘nuovi modi di comprendere e raccontare
le imprese e il lavoro’. Ha a che fare solo -sia detto con tutto il rispetto-
con modi (forse) nuovi di manipolare. Il fare passare contenuti formativi attraverso
sketch recitati da famosi cabarettisti, così come il teorizzare che i
partecipanti ad una attività formativa si devono divertire: un orientamento
che non solo nulla aggiunge al dibattito teorico, ma che appare controproducente
per gli stessi scopi che si propone.
Si tratta di formazione per le masse, pregiudizialmente considerate ignoranti.
Masse che debbono essere indottrinate. ‘Moderni’ strumenti di comunicazione
sono asserviti a diffondere i contenuti che il vertice aziendale committente
ha chiesto di diffondere. A ben guardare, una simile pratica appare certo proficua
per la società di consulenza (questa è formazione costosa), ma
molto meno per il committente.
Proprio l’antropologia insegna che esiste nei lavoratori un insieme di
conoscenze, una volontà d’azione che costituiscono un patrimonio
latente. Le persone vorrebbero e potrebbero partecipare di più alla vita
ed al successo dell’organizzazione. Ma non ne hanno l’opportunità.
La formazione potrebbe, direi anzi dovrebbe, essere il momento ed il luogo in
cui saperi ed atteggiamenti latenti vengono alla luce. Sarebbe un gran risultato:
il vertice aziendale ne trarrebbe profitto.
Se invece all’opposto le occasioni formative sono spettacoli tesi alla
manipolazione, i partecipanti allo spettacolo formativo si guarderanno bene
dal portare alla luce questa ricchezza. La formazione avrà risultati
apparenti magari anche eclatanti (applausi, valutazioni positive dei docenti
e dello spettacolo e della location e del pranzo e della cena). Ma non avrà
cambiato nulla ed anzi avrà incancrenito la situazione.
Per spiegare in breve cosa secondo me gli esiti di questo tipo di formazione,
faccio ricorso per brevità a Bateson (parlava di ‘schismogenesi’,
che vuol dire sviluppo di un chiasmo o fessura (2)
).
Ci sono due parti. Ciò che fa una parte determina nella seconda un inasprimento
del comportamento. Un inasprimento che può essere o complementare o simmetrico.
Vediamo nel nostro caso. Se faccio formazione-spettacolo-imbonimento-divertimento
si possono avere due nefaste reazioni.
La prima. Il partecipante all’attività formativa pensa: mi trattano
da pecora. Allora, se mi vogliono così e non vogliono tener conto del
fatto che so pensare e ragionare, chi me lo fa fare di sbattermi: d’ora
in poi, se vogliono questo, mi comporterò da pecora. Mi vogliono sottomesso,
sarò assolutamente sottomesso. Eseguirò senza pensare. (Questa
è schismogenesi complementare).
La seconda. Il partecipante all’attività formativa pensa: mi trattano
da pecora. Mi vogliono sottomesso, mi dicono cosa devo pensare. Ma io non sono
una pecora, mi ribello a questo. Anche se non ne avrei voglia, sono costretto
a reagire, per non dare loro soddisfazione. Si può reagire in tanti modi.
Si possono fare tante cose anche solo diffondendo voci alla macchinetta del
caffè, o su Internet, danneggiando l’immagine del vertice aziendale,
diffondendo voci. (Questa è schismogenesi simmetrica).
Insomma, proprio lo sguardo antropologico ci aiuta a capire che non è
tutto oro quello che luccica e non è tutta buona formazione quella che
ottiene (apparenti) entusiastici riscontri.
Sguardo antropologico: gli interventi di Barbara Czarniawska in particolare,
e di Claudia Piccardo, hanno definito il quadro e dato anche qualche definizione.
Non c’era dubbio tra i partecipanti che il tema era questo.
Sorpresa perciò quando il filosofo Umberto Curi, chiamato nell’ultimo
intervento a tracciare una sintesi, si è lanciato in un discorso che
poco aveva a che fare con il tema della giornata, con il contesto, e con quanto
era stato effettivamente detto.
Il filosofo ha enunciato una definizione di cultura che certo ha una sua dignità
ed una sua illustre storia: la cultura è la ricerca del bello, perseguita
da filosofi ed artisti. Perciò, per il filosofo, il mondo dell’impresa,
destinato alla ‘produzione’, non ha niente a che fare con la cultura.
Per il filosofo il mondo dell’impresa si regge su criteri tutti quantitativi.
Mentre il regno della cultura, felicemente lontano dalla fabbrica, è
il luogo della qualità.
Si può forse timidamente eccepire che oltre alla accezione di ‘cultura’
proposta dal filosofo ne esistono altre. Ne esiste almeno un’alta: il
patrimonio di conoscenze che un individuo o un gruppo possiedono, e che guidano
e danno senso alla sua azione. Questo organico patrimonio è un modo di
‘leggere il mondo’ (o, se volgiamo, di ‘costruire il mondo’).
In quanto tale, riguarda tutti gli aspetti della vita: il lavoro, il ‘tempo
libero’, la visione ‘quantitativa’ e ‘qualitativa’
di ciò che accade e si crea.
Per stare più terra terra, come sostenere che l’impresa è
misurabile sono quantitativamente? Il valore delle persone, il valore delle
conoscenze di cui una impresa dispone, il risultato di una attività formativa,
sono forse misurabili attraverso standard esclusivamente quantitativi? Lo so
che il tema è caldo e la risposta non è facile. Ma eludere la
questione negando ‘qualità’ all’impresa non aiuta proprio
nessuno.
Note:
1
http://www.venetoinnovazione.it/itace/Antropologia-Seminario.htm, e nei
contributi di Bloom: Francesco Varanini, La restituzione
poetica.
2 Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1776, ed. originale 1972.