BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 03/02/2003

QUANTO EXCELLENTIUS EXERCEBANT, TANTO RUDIUS NUNC BARBARISQUE LOCUNTUR. LA TORRE DI BABELE, DANTE E LE FAMIGLIE PROFESSIONALI

di Francesco Varanini

Torre di Babele

Ogni ragionamento sulla maledizione insita nella pluralità e delle lingue, causa e fonte di incomprensioni, di conflitti, di dispersione di risorse, e in ultima analisi di disorganizzazione, rimanda inevitabilmente ad una scena primaria: la Torre, la Babele delle lingue.

Leggiamo Genesi, 11, 1. Dopo il Diluvio “tutta la terra aveva una lingua sola e parole uguali”, ma poi un qualcosa, una inopinata ‘catastrofe’, un momento di discontinuità interviene, e gli uomini si ritrovano nella drammatica situazione che viviamo tutt’oggi: non comprendiamo più l’uno la lingua dell’altro. Sappiamo come il passaggio è narrato nel Genesi. Gli uomini si erano detti: “costruiamoci una città ed una torre con la cima al cielo. Fabbrichiamoci così un segno (di unione), altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra” (Genesi, 11, 4). Al Signore questo desiderio appare come gesto di arroganza: “Ecco, essi sono un popolo solo e parlano tutti la stessa lingua, questo è il principio dell’opera loro. Niente ormai impedirà loro di condurre a termine tutto quello che hanno in mente di fare” (Genesi, 11, 6). Così il Signore si sente in dovere di intervenire. Si dice: “Discendiamo e confondiamo in questo stesso luogo la loro lingua, in modo che essi non comprendano più la lingua l’uno dell’altro” (Genesi, 11, 7). Così il Signore, confondendo loro le lingue, “li disperse sulla faccia di tutta la terra”, allontanandoli da quel luogo, da quella torre in costruzione e quella città, “alla quale fu dato il nome di Babele” (Genesi, 11, 8).

Le innumerevoli letture, esegesi, interpretazioni del testo biblico, in qualche misura sempre oscuro, sono sempre girate soprattutto attorno all’idea di lingua –non a caso Eco apre il suo libro citando questo passo–. La difficoltà di interpretazione, inoltre, è a detta di molti aggravata da quanto si legge poco sopra, in Genesi 10. Lì si parla delle diverse stirpi dei “Discendenti di Sem, Cam e Iafet” (Genesi 10, 1), e si afferma esplicitamente che ognuna aveva “la sua lingua” (Genesi 10, 5; 10, 20; 10, 31).

Se le lingue si era già differenziate per tendenza naturale, che senso ha intendere la confusione delle lingue come una disgrazia, una catastrofe?

L’interpretazione dantesca

Dante, nel De vulgari eloquentia, [1] nel quadro del suo discorso sul ‘volgare’ inteso come (possibile) lingua perfetta, non può mancare di citare il passo biblico.

“Presumpsit ergo in corde suo incurabilis homo (…) arte sua non solum superare naturam, set etiam ipsum naturantem, quid Deus est, et cepit edificare turrim in Sennaar, que postea dicta est Babel, hoc est “confusio”, per quam celum ascendere, intendens inscius non equare, sed suum superare Factorem”. (De vulgari eloquentia, I, VII).

Poi però Dante, continuando a citare il Genesi, offre una interpretazione della confusio linguarum diversa da tutte le altre. Un spiegazione che Eco, come prima di lui molti altri, non esita a definire “singolare”. [2] E si capisce la reazione, perché la interpretazione dantesca appare del tutto estranea a quello che pare l’ambito del discorso. Dante, come molto più tardi Bacone e Comenio e Descartes e Leibnitz e Humboldt, fino a Eco, ragionano attorno alla lingua: lingue naturali, materne; dialetti, possibile origini di ogni lingua da un unico ceppo, lingue veicolari. Anche Dante pare fare lo stesso, ma compie uno scarto, sposta il discorso.

Leggiamo: a ben guardare, si nota subito una differenza.  Il passo di Genesi 11, 4  –“costruiamoci una città ed una torre con la cima al cielo. Fabbrichiamoci così un segno (di unione), altrimenti saremo dispersi sulla faccia della terra”– è descritto con particolare vivezza, e con una attenzione ai dettagli dell’organizzazione del lavoro che già di per se dovrebbe farci riflettere. “Siquidem pene totum humanum genus ad opus iniquitatis coierat: pars imperabant, pars architectabantur, pars muros moliebantur, pars amussibus regulabant, pars trullis linebant, pars scindere rupes, pars mari, pars terra vehere intendebant, partesque diverse diversis aliis operibus indulgebant” (“Certamente quasi tutto il genere umano si era unito per quell’impresa iniqua. Vi era chi dava ordini, chi progettava, chi fabbricava muri, chi li squadrava con le livelli, chi li intonacava con le cazzuole, chi spaccava le pietre, chi le trasportava per terra e per mare; gruppi diversi erano intenti a lavori diversi”).

Qui non si parla più di lingue più o meno naturali, più o meno perfette. Qui si parla di organizzazione del lavoro: chi progetta, chi da ordini, chi squadra pietre, chi intonaca: “partesque diverse diversis aliis operibus indulgebant”. Correttamente potremmo tradurre: ‘gruppi diversi erano intenti a lavori diversi’. Dante, insomma, non sta parlandoci di lingue, ma di famiglie professionali. E ci spinge a chiederci: come è possibile ‘tenere insieme’ queste diverse attività, come è possibile leggerle come insieme, come processo finalizzato ad unico progetto.

Dante ci ha mostrato in poche parole l’estrema complessità dell’opera nella quale questi ambiziosi uomini si sono impegnati. Dante, anche, ci ha detto che per costruire la città ed elevare la torre, si dovranno sfruttare al massimo le singole professionalità. Ora, ogni professionalità si manifesta se elabora al meglio il proprio know how, e l’elaborazione è tutta interna, si manifesta in ‘cultura del lavoro’, in specifiche competenze, in modi di pensare, atteggiamenti che traggono ragione solo dalla professionalità stessa, che hanno senso solo all’interno del gruppo di chi svolge quella professione. Preoccuparsi di essere capiti dagli altri è, dal punto di vista della crescita e dello sviluppo della professionalità uno spreco di tempo e di risorse. 

E’, a ben guardare un enorme e fatale paradosso. Più ci si cala nel proprio mondo meglio si lavora. Ma così facendo ci si allontana dagli altri, lo scalpellino è un bravo scalpellino se si sente diverso dal muratore e se non perde tempo a confrontarsi con lui. E viceversa.

Ma poi il lavoro degli scalpellini e il lavoro dei muratori sarà efficace se sarà visto come parte di un unico sistema – e ciò è più necessario e allo stesso tempo più difficile più l’opera è complessa.

Così, sembra dirci Dante, i costruttori della torre caddero ‘in confusione’: “cum celitus tanta confusione percussi sunt ut, qui omnes una eademque loquela deserviebant ad opus, ab opere multis diversificati loquelis desinerent et nunquam ad idem commertium convenirent” (“furono colpiti da tanta confusione dall’alto del cielo che, mentre tutti si dedicavano all’impresa usando la stessa lingua, resi diversi da molte lingue lasciarono l’opera, e mai più si aggregarono per una intesa comune”).

“Solis etenim in uno convenientibus actu eadem loquela remansit: puta cunctis architectorbus una, cunctis saxa volventibus una, cunctis ea parantibus una; et sic de singulis operantibus accidit. Quot quot autem exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot ydiomantibus tunc genus humanum disgiuntur; et quanto excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbarisque locuntur” (“Rimase la stessa lingua solo a coloro che si accordavano in un’unica operazione: per esempio un’unica lingua per tutti gli architetti, una per coloro che rotolavano massi, una per coloro che li preparavano. Così accadde per i singoli gruppi di lavoratori. Quante erano le varietà di lavoro per la costruzione, in altrettante lingue si divise allora il genere umano”).

Qui sta la catastrofe, la iattura. Le professionalità continuano a svilupparsi, ad articolarsi al loro interno. Ma mancano, per invidia, o per disprezzo, o perché pare inutile, o perché pare impossibile, un colloquio ed una unità di intenti. Ognuno parla per sé, vede il suo progetto settoriale, ed il progetto complessivo solo dal suo punto di vista. “Et quanto excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbarisque locuntur” (“E quanto più elevata era la loro attività , tanto più rozzamente e barbaramente allora parlarono”). E’ una spirale perversa: più sono profondi e ricchi e specifici i contenuti della mia professionalità, più appariranno incomprensibili e chiusi a chi non appartiene alla mia professionale; e più una professionalità è consapevole di se stessa più apparirà ‘barbaro’ chi non ne comprende i valori e non vi appartiene. Del resto, come possono colloquiare tra di loro gli esperti di Information & Communication Technology e gli esperti di Finanza e Controllo – se non forse attraverso una interlingua, una lingua veicolare,ausiliaria.

Eppure se manca l’“intesa comune”, se manca l’organizzazione manca il colloquio, se è carente l’interazione tra famiglie professionali diverse la costruzione della torre di Babele risulterà impossibile, e dovrà essere abbandonata.

Siamo dunque messi di fronte –a tutti gli effetti– alle radici dell’organizzazione e della divisione del lavoro, siamo spinti a guardare all’idea originaria che sta alla base del management, o se vogliamo del project management, siamo costretti a riflettere sulla necessità –e sulle intrinseche difficoltà– di una logica di processo.

Conclusione

Ci fermiamo qui: Dante, come del resto fa ogni interprete, probabilmente ci ha messo del suo. L’idea della Babele come ‘confusione’ è medievale. Ma per noi è particolarmente utile il richiamo   

alle conseguenze organizzative di questo stato, il sentirsi ‘in confusione’, privi della capacità di lavorare in modo finalizzato. Dalla confusione nasce una spirale involutiva: alla pretesa di ‘essere come dei’ affrontando con leggerezza le opere più complesse corrisponde la chiusura in atteggiamenti difensivi, legati ciò che ci rassicura: il nostro punto di vista settoriale, la nostra cultura professionale. A questa chiusura consegue l’impossibilità o l’incapacità di lavorare insieme, e di portare a compimento l’opera.

L’autostima nata e cresciuta esclusivamente all’interno della famiglia professionale è difensiva ed inefficace. Serve la capacità di osservare l’insieme e la disponibilità a conoscere ed accettare ciò che ci è e estraneo.



[1] Dante Alighieri, De vulgari eloquentia (1303-1305 circa), vedi per esempio l’ed. tradotta e curata da Claudio Marazzini e Concetto Del Popolo, Oscar Mondadori.

[2] Umberto Eco, La ricerca della lingua perfetta, Roma-Bari, Laterza, 1993. (Appartiene alla collana ‘Fare l’Europa’ prodotta in coedizione insieme ad altre quattro casi editrici europee), p. 369.

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