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COSA E' LA BARBARIE E DA DOVE VIENE

di Francesco Varanini

Quando si afferma la volontà ed il diritto di punire delitti efferati, atti di terrorismo; quando ci ergiamo a giudici attribuendoci il ruolo di difensori della giustizia, ci troviamo nei pressi di un fondamentale luogo di confine. Ognuno, e quindi anche io che scrivo, muove a partire da una cultura, da un sistema di valori. La stessa cultura (‘occidentale’) che spinge a gridare che è necessario e giusto punire chi ai nostri occhi così gravemente turba l’equilibrio sociale, chi così ingiustificatamente lede diritti intangibili – questa stessa nostra cultura porta alla tolleranza, al rispetto per la libertà individuale, a chiedere la non punibilità delle violazioni di legge ove queste non rechino evidente danno a terzi.
La necessità e l’esistenza di un confine tra ciò che è doveroso rispettare, opportuno tollerare, e ciò che va invece duramente colpito, distrutto, non è in discussione. Ma è un confine che, a ben guardare, risulta difficilmente visibile.

Quale comportamento risponde ai criteri dell’etica, e quale invece è riprovevole? Il gesto terroristico di chi colpisce vittime innocenti è per me e tutti assolutamente, irrimediabilmente colpevole. Ma quale è la soglia? Di fronte ad un atto in sé riprovevole, in base a quali principi è possibile isolare l’atto riprovevole dal contesto che l’ha generato? Il confine che separa l’offesa dalla difesa –la difesa della mia vita,del mio gruppo sociale– evidentemente esiste, ma non è facile da individuare. La soglia che separa il sano perseguimento dei propri interessi dalla violazione di un patto etico valido erga omnes è più sottile e meno visibile di quanto si voglia credere.

La libertà, secondo Kant, è una condizione necessaria della morale (Critica della ragion pratica, 1788). Ogni azione è fondata sulla massima che ispira chi la compie: ‘agisco per porre fine a una vita dalla quale non mi aspetto che dolore’, potrebbe essere la massima di chi pensa al suicidio; ma allo stesso modo dobbiamo ammettere che la disperata massima di un terrorista potrebbe suonare così: ‘opero così perché non ho altro modo per porre fine ad una situazione che è fonte di dolore per i miei fratelli de i miei figli’.

La prova del carattere morale di una azione è, per Kant, la possibilità di concepire come universale la massima che la ispira. L’imperativo categorico –‘agisci secondo una massima tale che implichi simultaneamente la sua validità universale per ogni essere razionale’– prescrive la moralità dell’azione in vista del sommo bene, ossia di qualcosa che sia fonte della virtù e della felicità nel massimo grado. Ma come definire in termini assoluti, comprensibili ed accettabili per ogni cultura, virtù e felicità? E come misurare il massimo grado? Hanno una validità universale le massime che guidano l’azione del potenziale suicida, e l’azione terrorista?

Per porre fine al dolore di molti, o per massimizzare il flusso di reddito, non potrebbe essere considerato soggettivamente legittimo anche l’omicidio? La stessa cultura ‘occidentale’ legittima ampiamente monarcomachia e tirannicidio. La stessa cultura ‘occidentale’ contempla l’idea di guerra ‘giusta’. Non ha forse diritto anche l’altro, chi è distante da noi per cultura e valori, pensare ‘giusta’ una guerra, anche una guerra per noi inconcepibile?
Non si può sostenere che alcuno sia privo di senso morale – anche se possiamo e dobbiamo considerare per noi inaccettabili alcuni modi di leggere la morale.

L’uomo ha maturato la consapevolezza di essere libero, e quindi si impegna per allargare in massimo grado gli spazi di libertà per sé e per gli altri. Quando la libertà è minacciata la difende, quando la vede incompleta agisce per completarla, quando constata che altri non sono liberi si adopera perché lo siano. Dalla sua coscienza della libertà deriva il suo senso della responsabilità e da questo il suo senso del dovere. Viola talvolta le leggi, ma sempre e solo movendosi alla ricerca della felicità. Persegue fino all’estremo dell’omicidio la difesa dell’interesse della propria famiglia, del proprio gruppo.
Quest’uomo è un criminale, ma non consideriamolo troppo diverso da noi.

Anche chi di noi si considera lontano dall’esplorazione degli estremi confini della libertà cerca spesso ciò che è di per sé sfuggente, cera una copertura razionale e generale a quell’azione quotidiana che è nei fatti mossa da un interesse contingente. Anche noi proviamo l’infinita gioia che suscita la volontà di superamento delle meschinità del quotidiano, con le sue ingiustizie e le sue piccole crudeltà. Anche noi cerchiamo quello scatto capace di allontanarci dal modesto risultato che si ottiene dal lavoro di ogni giorno: è questa ansia di superamento, in fondo, il motore dell’imprenditorialità.

Come dare spazio alla carica vitale, come sognare in grande e tentare i confini dell’infinito, coniugando tutto questo con l’impegno e il senso del dovere?
La libertà viene prima e dopo le teorizzazioni. Anche di fronte alle teorizzazioni che tengono in conto il maggior numero di variabili; anche di fronte alla teorizzazioni che eleggono a linea guida la fiducia limitata nella ragione e lo scetticismo – sempre resta un insondabile spazio di libertà.
La libertà non è qualcosa in sé, ma qualcosa che viene manifestandosi. Si esprime ‘contro’ il definito e il descritto, come scelta e come alternativa, come protesta e come proposta. La libertà è vitalità creativa.

Ma quale è appunto il limite sul quale dovremmo fermarci? Kant si aggira attorno a questi concetti con prudenza, ma anche con quella vaghezza e quella ambiguità che vincola la conoscenza a una sorta di processo misterioso.

L’ideologia liberale è manifestazione del nostro pensiero, affermazione della nostra personale libertà. Cosa è ‘nostro’ e chi siamo noi? L’ideologia liberale è una ideologia interna alla cultura ‘occidentale’. Possiamo pure ritenerla per noi ‘tavola della legge’. Possiamo ritenerla ‘fondamento etico’. Ma come intendere il fondamento in rapporto all’incommensurabile diversità dell’altro? Non può essere sufficiente riconoscere all’altro dignità di persona solo se si riconosce nei valori della nostra cultura. L’altro, se è tale, è diverso – e dobbiamo ammettere che in quanto diverso può, forse anzi deve, non riconoscersi nei nostri valori. L’altro può avere un’etica diversa dalla nostra.

Accettare l’altro non significa mettere in discussione i nostri valori. Potremo e dovremo continuare a lottare per affermare e difendere i nostri valori, potremo e dovremo continuare ad agire in funzione dei nostri valori. Non possiamo però permetterci di affermare che ciò che è ‘fondamento’per noi deve, o può, essere ‘fondamento’ anche per l’altro. Sarebbe, crediamo, eticamente scorretto. Ma sarebbe, anche, nella pratica, una vano illusione. E’ noto il tragico gioco che avvita in una spirale di rinforzi negativi: la violenza, anche la violenza giusta, genera violenza. Coltiva vento, raccoglierai tempeste.

L’altro fa de male. Ma poiché anche noi facciamo del male, non potremo usare il male dell’altro per giustificare il nostro male, per attribuire alle nostre azioni uno statuto di superiorità morale.

Dobbiamo accettare che la libertà e la ricerca della verità, per l’altro, possano portare a conseguenze estreme del tutto diverse dalle nostre. Dobbiamo in fondo accettare che ciò che per noi è civiltà per l’altro può essere barbarie, e viceversa.
Prima di accusare gli altri di barbarie, dovremmo interrogarci, chiedendoci se forse non siamo noi quelli che balbettano appena, che non capiscono, o si rifiutano di capire, la cultura ed i valori dell’altro.

Ben meschina, lontana da ogni etica, lontana anche dalla storia che l’uomo costruisce giorno dopo giorno, la pretesa che una lotta all’ultimo sangue, una lotta per la sopravvivenza, sia condotta rispettando le nostre regole, o quei comportamenti rituali che a noi piace chiamare fair play.

Quando una persona priva di speranza immola il suo corpo nell’ultimo gesto di lotta, facendosi arma, eccepiamo accusando una violazione delle regole del gioco, un comportamento immorale. Quale gioco, il nostro? Abbiamo forse diritto ad imporre le nostre regole? Ci illudiamo di allontanarci dalla nostra impotenza accusando l’altro di efferatezza – quando invece dovremmo confrontarci con la nostra impotenza di fronte all’uso di armi estreme. Sta a noi trovare la parola, la radice di un discorso che non motivi questa reazione, e che proponga un gioco diverso, più umano.

Questo non significa rinunciare ai nostri valori ed ai nostri obiettivi, non significa piegarsi all’altro, cedere, cadere in comportamenti pusillanimi; non significa accettare qualsiasi mediazione pur di evitare lo scontro. Significa però accettare che l’altro ‘non sente ragioni’. Se l’altro non sente ragioni non per questo è idiota. Se l’altro non sente ragioni non per questo l’altro è perverso. E’ solo diverso.

Le nostre ragioni possono essere affermate attraverso l’educazione? E’ legittimo e doveroso provarci.

Per l’altro, accettare le nostre ragioni attraverso l’educazione significa convertirsi. Passaggio difficile che si può pensare che alcuni faranno, ma non tutti. L’educazione può essere proposta, non imposta.

Le nostre ragioni possono essere affermate attraverso la forza? E’ legittimo, talvolta necessario provarci.

Per l’altro, accettare le nostre ragioni attraverso l’imposizione forzosa significa sottomettersi. Passaggio difficile che si può pensare che alcuni faranno, ma non tutti. La sottomissione non può essere proposta, né accettata, come un valore.

Fallacia e ambiguità del gesto missionario: quando affermiamo di agire per il bene dell’altro, per liberare o per salvare, troppo spesso ammantiamo di alte motivazioni azioni che corrispondono innanzitutto a (magari inconsci) nostri bisogni e desideri. Il ruolo del salvatore, del liberatore, nasce da una nostra proiezione: riesco a concepire l’altro, quando non come nemico da combattere, come persona inferiore da aiutare.
Sono da guardare con sospetto tutte le idee che comportano il tentativo di far prendere coscienza agli altri di qualcosa, pretendendo di sapere meglio di loro stessi cosa sia meglio per loro. Nel gesto assistenziale si nasconde un implicito giudizio, una lettura della differenza come deficit, una sottolineatura della distanza: tu sei completamente diverso, ma io ti perdono.

Dopo la caduta del muro di Berlino – le cui conseguenze fatichiamo a vedere perché i fatti sono troppo vicino a noi–, in virtù delle telecomunicazioni e della Rete – che hanno cambiato le relazioni sociali in modo tanto profondo che è impossibile averne piena coscienza –, la possibilità di dividere il mondo in luoghi geopolitici, o ‘nazioni’, dove ognuno coltivi la propria incontaminata cultura è ormai impraticabile. Il mondo –lo spazio ed il tempo universale e condiviso– è uno solo per tutti.
Si deve imparare a vivere in un unico mondo che connette e riassume tutti i mondi possibili. Globale, 'involving the whole world', worldwide, 'universale'.

La tecnologia è frutto della enorme capacità di produrre ricchezza che nostro modello, della nostra storia, della nostra economia, occidentale. Noi (forse) la usiamo a partire da un limite etico (forse intrinseco ala nostra cultura). Ma la stessa tecnologia può essere usata anche a partire dal una cultura totalmente altra. Dobbiamo accettare questa asimmetria.
Impossibilità di avere una casa dove sono padrone e libero e faccio quello che mi pare.

Interconnessione, non permanenza, relatività. Tutto è dentro e niente è fuori. Tutte le etnie e tutte le culture sono presenti in ogni luogo, in ogni organizzazione.

La metafora è la casa comune. Necessità di accettare muri di vetro, trasparenza, incertezza. Accettare l’altro che è in noi. Accettare una logica di equilibrio e di rinuncia.

Scopo dell’uomo non deve essere il piacere, ma nemmeno la mortificazione. Non dominare, ma nemmeno essere succubi. Occorre forse stare a metà, nella mediazione tra due scopi errati. Chi può affermare di capire che cosa sia questa via di mezzo? La via è forse lo sforzo insistente, disperato o trionfale, di afferrare che cosa sia quel varco tra piacere e mortificazione.

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