BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 14/04/2003

IN RICORDO DI BEPPE CHIARULLO

di Francesco Varanini

Della sua morte ho saputo per telefono, in ritardo, la settimana scorsa, dall’amico con il quale eravamo andati a trovarlo sarà un mese fa. Una di quelle telefonate concitate e disturbate, salendo e scendendo da un tassì.
Avevo conosciuto Beppe otto o nove anni fa, quando iniziavo a lavorare per una società leader nel mercato della formazione e della consulenza di direzione e di organizzazione.
Beppe lavorava lì, però non faceva né il consulente né il formatore. Lavorava all’archivio. Avrei dovuto occuparmi proprio di introdurre in quell’archivio nuove tecnologie, e quindi di sancire la fine del ruolo di Beppe. Altri al suo posto avrebbero sordamente resistito, non lui. Mi parlò –come pochissimi sanno fare, e sono disposti a fare– degli aspetti chiave della cultura aziendale, mi parlò dei riti di passaggio che avrebbero governato il mio ingresso.
Non so, non ho mai chiesto a nessuno, se a Beppe era stata offerta l’opportunità di lavorare presso clienti; o se già abbastanza avanti negli anni, attorno all’età della pensione, era arrivato lì con la sola prospettiva di lavorare all’archivio. Eppure Beppe –partendo da lontano: proveniva da una famiglia di agricoltori pugliesi– aveva fatto la sua più che dignitosa carriera in importanti direzioni del personale milanesi.
Fatto sta che era considerato impresentabile all’esterno: avanti negli anni, grigio, il volto rugoso, rigorosamente in giacca e cravatta ma del tutto privo di quell’ostentata cura dell’abbigliamento che sembra dover contraddistinguere consulenti e i formatori. E soprattutto, veniva considerato superato il suo approccio al management. Customer Care, Compensation, Pay for Competence, archiviava mentalmente le nuove mode. Non le rifiutava, ma le inquadrava in un più complessivo, più ricco sistema di conoscenze, che avrebbe dovuto fare invidia (e forse in effetti faceva invidia) ai brillanti partner che andavano fuori a vendere nuovo sapere. Beppe, con lo sguardo vivo e con un sorriso appena accennato, sapeva legare l’apparente novità del Customer Care alla grande tradizione scandinava della cultura del servizio; e sentendo parlare dell’impatto delle nuove tecnologie non poteva non tornare con la mente a ciò che aveva scritto anni prima Drucker, o a Joan Woodward; e sentendo parlare di modelli di leadership non poteva non ripensare a Weber, e provare vergogna per la banalità di certe schematizzazioni. Beppe non poteva fare a meno di ragionare in una prospettiva storica (anzi, storicistica, forse), e perciò non poteva a fare a meno di vedere le connessioni, i filoni evolutivi. Il vero pensiero al di là delle mode.
Riusciva così con semplicità ad anticipare già allora ragionamenti che appaiono oggi nuovi: mi parlava del ‘narrare le organizzazioni’, e lo faceva citando un classico misconosciuto, Impiegati di Kracauer. (Mi fotocopiò il libro della sua biblioteca di casa. Non riesco più a trovare quelle pagine). E oggi –mi sono trovato più volte a pensare– avrebbe certamente trovato speciose le differenze tra tutorship, counselling, mentoring, coaching. Perché lui sapeva cogliere la differenza tra scuole, certo, e anche il valore di mercato di un posizionamento fondato su una teoria semplice e dotata di una apparenza brillante – ma non poteva fare a meno di cogliere l’aspetto, vano, perituro, superficiale dell’approccio alla ‘scienza del management’.
Questo orientamento a separare storia e filosofia e scienze umane dalle nostre teorie e pratiche manageriali gli sembrava inconcepibile. Sapeva apprezzare l’intelligenza e la cultura, e si aspettava qualcosa di particolare da chi riteneva più ricco e più dotato. Sarebbe rimasto deluso da un amico che oggi ho, dirigente d’azienda, forte ragionatore, cultore di filosofia, ma poi capace di teorizzare che i buoni modelli manageriali sono in mano a Accenture, o a McKinsey.
Quando gli chiedevano materiali, Beppe scavava in un archivio nel quale solo lui sapeva mettere le mani, e trovava quasi sempre la risposta attesa, quel materiale usato quella volta, quel preciso pacco di slides. Nessuno gli chiedeva niente di più. E lui consegnava il risultato del suo lavoro con un sorriso stanco, un po’ distaccato, disincantato. Poteva sembrare segno di scarso coinvolgimento, di lentezza, di distanza dal business. Penso invece stesse dietro l’apparenza dei suoi gesti, nel profondo, la consapevolezza che la risposta attesa non era la risposta giusta. Perché il discorso era più complesso; perché esistevano articolazioni importanti dietro alla levigata e semplificata teoria che brillante formatore si preparava a vendere. Beppe aveva rinunciato ormai ad addolorarsi per il fatto che nessuno gli chiedeva di più. Ma restava dispiaciuto, non per orgoglio offeso, ma perché sapeva che così si vendeva solo una modestissima parte della conoscenza che avevamo in magazzino e non si dava al cliente il servizio che si sarebbe potuto dare (forse, dovuto dare).
Ricordo sempre con quale profondità mi aveva parlato della cultura d’impresa torinese, articolata in tre storie, o scuole: Fiat, San Paolo, Reale Mutua. Perché rinunciare a ragionare su questi aspetti quando si è chiamati a lavorare in una di queste organizzazioni?
Ricordo anche di come parlava di musica, e di teatro. Ricordo, camminando insieme da Corso Porta romana al metro di piazza del Duomo, una sua lettura dell’evolversi dell’offerta teatrale milanese, Testori, Parenti, Moni Ovadia.
Per tutto questo non posso non pensare a Beppe come scrittore. Aveva cose da dire, sapeva raccontare. Forse, anche, aveva troppo pudore e senso della misura. Non so se ha lasciato qualcosa di scritto. Rimpiango di non aver fatto quello che forse avrei potuto per spingerlo a scrivere.
Quando un mese fa siamo andati a trovarlo, non so da quanto tempo era bloccato dalla malattia su una sedia a rotelle. Poteva compiere solo qualche gesto scomposto con le mani e con la bocca; comunicava quasi solo con gli occhi, ma con intensità straordinaria.

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