IN RICORDO DI BEPPE CHIARULLO
Della sua morte ho saputo
per telefono, in ritardo, la settimana scorsa, dall’amico con il
quale eravamo andati a trovarlo sarà un mese fa. Una di quelle
telefonate concitate e disturbate, salendo e scendendo da un tassì.
Avevo conosciuto Beppe otto o nove anni fa, quando iniziavo a lavorare
per una società leader nel mercato della formazione e della consulenza
di direzione e di organizzazione.
Beppe lavorava lì, però non faceva né il consulente
né il formatore. Lavorava all’archivio. Avrei dovuto occuparmi
proprio di introdurre in quell’archivio nuove tecnologie, e quindi
di sancire la fine del ruolo di Beppe. Altri al suo posto avrebbero sordamente
resistito, non lui. Mi parlò –come pochissimi sanno fare,
e sono disposti a fare– degli aspetti chiave della cultura aziendale,
mi parlò dei riti di passaggio che avrebbero governato il mio ingresso.
Non so, non ho mai chiesto a nessuno, se a Beppe era stata offerta l’opportunità
di lavorare presso clienti; o se già abbastanza avanti negli anni,
attorno all’età della pensione, era arrivato lì con
la sola prospettiva di lavorare all’archivio. Eppure Beppe –partendo
da lontano: proveniva da una famiglia di agricoltori pugliesi– aveva
fatto la sua più che dignitosa carriera in importanti direzioni
del personale milanesi.
Fatto sta che era considerato impresentabile all’esterno: avanti
negli anni, grigio, il volto rugoso, rigorosamente in giacca e cravatta
ma del tutto privo di quell’ostentata cura dell’abbigliamento
che sembra dover contraddistinguere consulenti e i formatori. E soprattutto,
veniva considerato superato il suo approccio al management. Customer Care,
Compensation, Pay for Competence, archiviava mentalmente le nuove mode.
Non le rifiutava, ma le inquadrava in un più complessivo, più
ricco sistema di conoscenze, che avrebbe dovuto fare invidia (e forse
in effetti faceva invidia) ai brillanti partner che andavano fuori a vendere
nuovo sapere. Beppe, con lo sguardo vivo e con un sorriso appena accennato,
sapeva legare l’apparente novità del Customer Care alla grande
tradizione scandinava della cultura del servizio; e sentendo parlare dell’impatto
delle nuove tecnologie non poteva non tornare con la mente a ciò
che aveva scritto anni prima Drucker, o a Joan Woodward; e sentendo parlare
di modelli di leadership non poteva non ripensare a Weber, e provare vergogna
per la banalità di certe schematizzazioni. Beppe non poteva fare
a meno di ragionare in una prospettiva storica (anzi, storicistica, forse),
e perciò non poteva a fare a meno di vedere le connessioni, i filoni
evolutivi. Il vero pensiero al di là delle mode.
Riusciva così con semplicità ad anticipare già allora
ragionamenti che appaiono oggi nuovi: mi parlava del ‘narrare le
organizzazioni’, e lo faceva citando un classico misconosciuto,
Impiegati di Kracauer. (Mi fotocopiò il libro della sua
biblioteca di casa. Non riesco più a trovare quelle pagine). E
oggi –mi sono trovato più volte a pensare– avrebbe
certamente trovato speciose le differenze tra tutorship, counselling,
mentoring, coaching. Perché lui sapeva cogliere la differenza tra
scuole, certo, e anche il valore di mercato di un posizionamento fondato
su una teoria semplice e dotata di una apparenza brillante – ma
non poteva fare a meno di cogliere l’aspetto, vano, perituro, superficiale
dell’approccio alla ‘scienza del management’.
Questo orientamento a separare storia e filosofia e scienze umane dalle
nostre teorie e pratiche manageriali gli sembrava inconcepibile. Sapeva
apprezzare l’intelligenza e la cultura, e si aspettava qualcosa
di particolare da chi riteneva più ricco e più dotato. Sarebbe
rimasto deluso da un amico che oggi ho, dirigente d’azienda, forte
ragionatore, cultore di filosofia, ma poi capace di teorizzare che i buoni
modelli manageriali sono in mano a Accenture, o a McKinsey.
Quando gli chiedevano materiali, Beppe scavava in un archivio nel quale
solo lui sapeva mettere le mani, e trovava quasi sempre la risposta attesa,
quel materiale usato quella volta, quel preciso pacco di slides. Nessuno
gli chiedeva niente di più. E lui consegnava il risultato del suo
lavoro con un sorriso stanco, un po’ distaccato, disincantato. Poteva
sembrare segno di scarso coinvolgimento, di lentezza, di distanza dal
business. Penso invece stesse dietro l’apparenza dei suoi gesti,
nel profondo, la consapevolezza che la risposta attesa non era la risposta
giusta. Perché il discorso era più complesso; perché
esistevano articolazioni importanti dietro alla levigata e semplificata
teoria che brillante formatore si preparava a vendere. Beppe aveva rinunciato
ormai ad addolorarsi per il fatto che nessuno gli chiedeva di più.
Ma restava dispiaciuto, non per orgoglio offeso, ma perché sapeva
che così si vendeva solo una modestissima parte della conoscenza
che avevamo in magazzino e non si dava al cliente il servizio che si sarebbe
potuto dare (forse, dovuto dare).
Ricordo sempre con quale profondità mi aveva parlato della cultura
d’impresa torinese, articolata in tre storie, o scuole: Fiat, San
Paolo, Reale Mutua. Perché rinunciare a ragionare su questi aspetti
quando si è chiamati a lavorare in una di queste organizzazioni?
Ricordo anche di come parlava di musica, e di teatro. Ricordo, camminando
insieme da Corso Porta romana al metro di piazza del Duomo, una sua lettura
dell’evolversi dell’offerta teatrale milanese, Testori, Parenti,
Moni Ovadia.
Per tutto questo non posso non pensare a Beppe come scrittore. Aveva cose
da dire, sapeva raccontare. Forse, anche, aveva troppo pudore e senso
della misura. Non so se ha lasciato qualcosa di scritto. Rimpiango di
non aver fatto quello che forse avrei potuto per spingerlo a scrivere.
Quando un mese fa siamo andati a trovarlo, non so da quanto tempo era
bloccato dalla malattia su una sedia a rotelle. Poteva compiere solo qualche
gesto scomposto con le mani e con la bocca; comunicava quasi solo con
gli occhi, ma con intensità straordinaria.