BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 19/05/2003

L'AVVENTO DI GOOGLE E LE SUE CONSEGUENZE

GOOGLE COME SERVIZIO, GOOGLE OLTRE LA 'DOT COM'

di Francesco Varanini

Bloom, più di altri siti, ha un suo pubblico fedele che conosce già Bloom, e si collega settimanalmente in cerca di novità. Lo fa scrivendo direttamente www.bloom.it nella finestra del browser. [1] Ma come per ogni altro sito, anche Bloom si aggiungono ogni giorno nuovi visitatori, mossi da un loro specifico bisogno, dall’esigenze di avvicinare o approfondire un tema. L’arrivo di nuovi visitatori è mediato da un motore di ricerca.  Nel  61% dei casi il motore di ricerca attraverso il quale i visitatori arrivano a Bloom è Google. [2]

Perché usiamo Google? In cosa si differenzia Google dagli altri motori? Le domande diventano più significative se si ricorda che Google, offrendo un servizio gratuito, efficace, rapido, non invasivo – se si ricorda che Google, con tutto questo, guadagna. Non credo che il parametro del ‘successo’ sia necessariamente ed esclusivamente il margine economico, l’utile misurato in moneta. L’open source  dimostra che si può creare ricchezza e rispondere a bisogni in un modo che risulta invisibile agli strumenti di rilevazione contabili. Ma è un dato di fatto che la gran parte dell’economia si fonda su transazioni, scambi mediati dalla moneta. E allora resta centrale la domanda: ‘Sì, ma come si guadagna?’. Domanda tanto amata da chi –difensivamente– considera la ‘nuova economia nata con la Rete un bluff o una pericolosa illusione.

Buone nuove dunque da Silicon Valley, demoralizzata dai crolli di troppe ‘dot com’, imprese basate su Internet e un nuovo preteso modo di fare business. Google guadagna. Finalmente, dopo anni, un nuovo modello d’impresa diverso da ogni altro, e vincente anche sul piano dei ritorni misurati secondo i tradizionali parametri di bilancio.

Google è una originale cultura aziendale: organizzazione in apparenza caotica; clima di lavoro informale; pianoforte nell’atrio; cani che vanno avanti e indietro, gente che mangia mentre lavora; Chief Executive Officier scelto dai due giovanissimi fondatori perché è un Computer Scientist come loro, perché ha lavorato alla Sun Microsystem, ma anche perché “è l’unico candidato che ha partecipato al Burning Man”, il techno-arts festival che si tiene ogni anno nel deserto del Nevada; dispute tra un ingegnere e il Chief Executive Officier per usare uno stesso ufficio; scontro di opinione tra uno dei fondatori ed i lavoratori: Larry Page, trent’anni, ritiene che i telefoni danneggino la produttività dei programmatori, e vuole bandirli dalla nuova sede in costruzione. Perderà la battaglia.

Ma non si tratta solo di folclore. La migliore tradizione delle imprese fondate sull’alta tecnologia voleva che l’attività economica si concretizzasse come sfruttamento di una idea innovativa. Insomma: dalla Ricerca & Sviluppo nasce l’impresa, l’impresa, sulla base del  vantaggio tecnologico crea un mercato, e quindi inizia a produrre profitti. Così era accaduto tra gli anni ’70 e gli anni ‘90 prima con l’Intel, poi con Apple Computer e Sun Microsystems, poi ancora con Oracle e Cisco Systems. L’ultima piena manifestazione di questo modello fu a metà degli anni novanta Netscape – e fu una manifestazione infelice, perché il vantaggio tecnologico era scarsamente difendibile. Netscape Communicator  –il primo vero ‘browser’, programma per navigare nel World WideWeb)– fu presto imitato dall’Explorer di Microsoft. E l’incipiente successo fu bruscamente troncato.

Nel frattempo, con la seconda metà degli anni ’90, si era affermato un altro modello di business. Giovani rampanti, dotati di qualche cognizione tecnologica, in accoppiata con finanzieri d’assalto, cercavano –con le cosiddette ‘dot com’– il successo sul breve termine. Funzionava così: Non era importante che l’idea tecnologica fosse particolarmente buona, né si attendeva la sua verifica alla prova del mercato. L’idea, ancora allo statu nascenti, veniva finanziata da venture capital. La società veniva quindi rapidamente portata in borsa, e lì ramazzava quanto possibile per finanziare lo start up. All’idea spesso banale si accoppiavano grandi investimenti in comunicazione. Ma alla base del business non c’era nessun vero vantaggio tecnologico; non c’era significativa penetrazione sul mercato; non c’era solida loyalty conquistata presso i clienti. Il ritorno dell’investimento era buono per i fondatori, se questi erano lesti a cedere l’impresa. Ma mancava una reale creazione di valore. Poi, come si sa, tutto questo si è sciolto come neve al sole con la crisi della borsa.

Il modello Google

Ecco ora Google. Del tutto disinteressata alla storia delle dot com. Attenta al suo modello di crescita ‘interna’. Nata a partire da una idea tecnologica forte, che risponde a un bisogno chiave di tutti noi che quotidianamente navighiamo sulla Rete.

Muoversi –navigando, o come si dice più efficacemente in inglese, ‘surfing’– nell’enorme massa di pagine che costituiscono in Web non è facile. Il ‘motore di ricerca’ è uno strumento indispensabile. Trovare le pagine è difficile. Ancora più difficile è ordinare le pagine trovate in base alla coerenza con le chiavi di ricerca.

Ogni motore di ricerca ordina le pagine trovate in base ad un suo algoritmo, una sorta di ‘segreto della casa’. Molti motori, inoltre, alla ricerca del ritorno dell’investimento, scelgono di ordinare le pagine trovate privilegiando le pagine degli inserzionisti a pagamento. Stanno così le cose quando nel 1996 Sergey Brin e Larry Page, giovani diplomati in Computer Science a Stanford,  pensano ad uno specifico, innovativo software in grado di ordinare le pagine trovate in base alla rilevanza delle richieste dei navigatori.

L’idea di base, conosciuta come ‘link analysis’, non era nuova, era allo studio anche presso il Centro di ricerca dell’IBM di San José.

Ma Brin e Page, per primi, la applicano ai link che connettono le pagine Web. Col senno di poi sembra semplice: sfruttare l’intelligenza umana per tracciare la popolarità di milioni di milioni di pagine Web. Due anni dopo fondano Google. [3]

Perseguono l’idea con convinzione, mantenendosi fedeli a un preciso bisogno dell’utente della Rete. Andare dritti allo scopo, trovare in modo rapido ed efficace quello che si cerca, evitando passaggi inutili, fronzoli, distrazioni.

Google impiega oggi 800 persone. Risponde a 200 milioni di ricerche al giorno, circa un terzo della domanda totale. Allo scopo è stato progettato, in casa, un sistema disegnato specificamente per rispondere alla sua funzione critica: rispondere simultaneamente, in realtà in meno di mezzo secondo. a centinaia di migliaia di interrogazioni provenienti da ogni parte del globo. Mancano informazioni ufficiali al riguardo, ma fonti bene informate (riprese dal New York Times) parlano di 54.000 server, distribuiti tra otto Data Center, contenenti 100.000 processori e 261.000 dischi – forse il più grande sistema di computer privato e civile esistente al mondo. L’Economist aggiunge e approfondisce, ricordando come si tratta di un sistema costruito nella logica non dell’efficienza, ma dell’efficacia. A partire dall’inizio, quando Brin e Page comprarono i primi materiali da Fry’s, la catena di Computer shop più popolare  di Silicon Valley, non si cercano le macchine più performanti, o dotate di un inutile brand, si usano processori, schede e dischi di basso costo, di potenza media –commodities, non convenience–.

Il vantaggio sta nel minor costo dei componenti, ma anche nella maggior libertà nella costruzione del sistema: bricolage; capacità di pensare e di costruire l’insieme; aggiornamento continuo legato alle reali esigenze, e non a rilasci ed offerte dei fornitori.

Il vantaggio sta ancora, e soprattutto, nel fatto che il sistema è accettato per la sua complessità, per la sua imperfezione, accettato come ‘sistema vivente’, in perenne adattamento. Questo, paradossalmente, significa minori costi di manutenzione. I 54.000 server di Google sono gestiti da 30 persone. Perché i programmatori hanno scritto software per automatizzare operazioni di amministrazione; perché, più in generale, l’hardware e il software sono pensati in casa a partire dalle strategie d’impresa e dalle specifiche esigenze.

Perché subire le scelte dei leader dell’offerta? Perché avere server Sun con Unix-Solaris quando vanno benissimo server costruiti con componenti comprati ad un computer shop, e basta Linux come sistema operativo? Avendo sempre operato così fin dall’inizio, non può essere calcolato quanto in  questo modo Google ha risparmiato rispetto ad altre start up che hanno rincorso inutilmente le tecnologie più costose e potenti. Per misurare il risparmio, si deve ricorrere al confronto: è il caso di Amazon, che solo strada facendo si è accorto che non è vero che l’hardware e il software ‘migliori’ sono necessari. Amazon ha esplicitamente dichiarato un risparmio di oltre il 35% passando dal software proprietario all’open source.

Google come servizio e Google sul mercato

Due significative barriere d’ingresso difendono dunque il mercato di Google. Il software, e l’hardware, difficilmente replicabili sia per quanto riguarda la qualità tecnologica, sia per quanto riguarda l’investimento.

Tutto bello, direte. Ma dove sta la profittabilità? Anche qui una scelta originale, che secondo le stime (Google, compagnia privata lontana dalla borsa, non ha l’obbligo di fornire informazioni al riguardo) garantisce utili da più di due anni. Per quest’anno si parla di 750 milioni di dollari di revenue, con un margine lordo del 30%.

Due sono i mercati sui quali opera Google.

Il primo, più facile da individuare anche in base a logiche ‘tradizionali’, riguarda la fornitura di servizi web. Google è infatti  l’esempio più evidente di ciò che si chiama oggi –con una di quelle definizioni a così largo spettro che, abbracciando tutto, rischiano di non significare più niente di preciso–  ‘web services’: ‘a standard way for software applications to work together over the Internet’. Google offre così, dietro compenso, la sua tecnologia, il suo search engine come web service che altri operatori possono usare nella loro offerta di web services a utenti finali. Rispetto a questo modello di business, si potrebbe pensare, l’offerta gratuita del search engine al navigatore è da intendere come costo promozionale. (In questo mercato il più serio competitore di Google è probabilmente Inktomi, ora comprato da Yahoo).

Ma invece Google, anche rispetto al navigatore, all’immensa massa di persone che usano la Rete per cercare informazioni, ha saputo ‘inventare’ un modello di business.

Google, come ogni motore di ricerca, offre il servizio gratuitamente. Gli altri motori, e più in generale i grandi portali generalisti, hanno trovato l’equilibrio nel conto economico attraverso due modalità, ugualmente fastidiose e contrarie alla filosofia della Rete.

La prima, è farsi pagare per far risultare ai primi posti tra i link che il motore  restituisce al navigatore. Il navigatore chiede qualcosa al motore, gli viene offerto un elenco di link. Non sa mai se la pagina risulta ai primi posti in virtù di una opinabile, ma neutrale, scelta del software, o in base dall’investimento pubblicitario.

La seconda è l’‘interruption marketing’: finestre pubblicitarie (banners), pop-up (pagine pubblicitarie che si aprono sopra quella corrente). Tutto questo con ovvio fastidio per i navigatori, costretti, in cambio del motore di ricerca gratuito, ad essere disturbati da messaggi pubblicitari. Costretti a subire distrazioni mentre sono concentrati nel processo mentale di ricerca, link dopo link, di costruzione della conoscenza corrispondente ai loro bisogni ed al loro piacere.

Diversissima dalle pagine degli altri motori e portali, la pagina di Google, colorata nel logo, resta bianca e vuota. Il navigatore è rispettato nel suo processo mentale. Non è bombardato da segni disturbanti, non è disturbato, non è interrotto. E la lista dei link restituita a fronte di una interrogazione, è rigorosamente costruita dal software, senza inquinamenti dovuti agli investimenti pubblicitari di qualcuno.

Eppure, rispettando così il senso della Rete, Google ha trovato una nuova, non invadente maniera per fare advertising. Il navigatore formula la sua ricerca scrivendo nell’apposita finestra. Appariranno quindi le pagine richieste. Appariranno inoltre, a parte, in una riga in alto e in box nella parte destra dello schermo, i link alle pagine degli inserzionisti che hanno ‘comprato’ le parole digitate dal navigatore. In particolare, attraverso la formula ‘cost-per-click’ l’inserzionista paga (una cifra che può stare tra 21 cents e 1 dollaro e mezzo) solo se il navigatore visita la sua pagina.

Giganti miopi hanno tentato di imporre i loro portali come inevitabile luogo di passaggio. Ma ha vinto Google facendo il contrario, traendo vantaggio dal rispettare la caratteristica base di Internet: spostarsi istantaneamente da un posto all’altro senza pagare nulla, ottenendo ad ogni libero spostamento nuove informazioni.

L’importanza della Rete, il suo valore, prescindono dal fatto che qualcuno attraverso la rete ‘faccia soldi’. Ma Google, se ce n’era bisogno, dimostra che si può anche fare soldi con la Rete, rispettandone appieno la cultura.

Google oltre Google, o i rischi che Google porta con sé

Google è essenzialmente un serch engine, un motore di ricerca fondato sulla ‘link analysis’. Sembra un campo d’azione limitato, ma è lungi dall’esserlo. Gli strateghi di Google ne sono consapevoli.

Lo dimostra la progressiva articolazione dei servizi offerti da Google. Il servizio di ‘cache’, che permette di reperire informazioni che sono stati disponibili su siti non più in linea. L’articolazione di contenuti in Directory. Il motore di ricerca dedicato alle immagini, il motore di ricerca dedicato ai gruppi.

E poi, ancora in versione beta (http://news.google.com/), quello straordinario esempio di come può funzionare in concreto un ‘automa cellulare’, o ‘agente intelligente’, capace di apprendimento. Agenti software sono stati istruiti a cercare informazioni tra i siti dedicati a news, e a costruire a partire da questi un ‘giornale di giornali’ che sia aggiorna in tempo reale, senza intervento umano.

Google, ovviamente, studia sempre nuove modalità per facilitare la ricerca di informazioni, per gestire conoscenza, per costruire senso in una logica ipertestuale. Ma la particolarità è che –in una logica che tiene conto di come funziona la Rete, e che tiene conto anche in qualche modo degli insegnamenti del movimento open source– i progetti di alcuni nuovi strumenti e servizi sono visibili sulla Rete (http://labs.google.com/). Potete vedere a questo indirizzo come si costruiscono reti semantiche, come, in generale, saranno i motori di ricerca di domani.

E’ una scelta di trasparenza, ma anche di convenienza. Tenere i laboratori di ricerca chiusi, oggi, conviene sempre meno. Quello che stiamo studiando noi, di sicuro lo sta studiando qualcuno da qualche altra parte. Dove si produce conoscenza, la logica della coopetition prevale sulla logica della competizione. Il contributo di chi si muove sulla Rete può essere utile a migliorare il software.

Il ragionamento sui confini di Google apre il discorso all’ultimo punto al quale voglio accennare. I rischi impliciti in Google.

Google, come ogni altra organizzazione, impresa, business, idea, deve essere posta al vaglio della critica. Ho mostrato il mio apprezzamento per diversi aspetti della strategia e della prassi di Google. Ma allo stesso tempo condivido le motivazioni di fondo che muovono i critici di Google.

Google, accesso principe alla Rete, sta assumendo una importanza che può essere paragonata a quella di Windows. E’ uno scenario fantascientifico e allo stesso tempo già attuale: miliardi di persone passano attraverso Google per accedere a informazioni.

In questo quadro ci si possono, e debbono, porre alcune domande.

E’ veramente così democratico come Google afferma il ‘Page Rank’, il modo tipico di Google di restituire in un ordine le informazioni richieste?

Quali garanzie di privacy offre Google? Quale potere ‘globale’ assume di fatto Google? E, di fronte a questo potere, come rende trasparente il proprio ruolo, definendone i limiti e assoggettandosi a controlli? Sono noti i problemi avuti da Google con il governo cinese. Meno noti, ma immaginabili, o almeno ipotizzabili, alcuni possibili collegamenti tra il ruolo di Google e la CIA, la NSA (National Security Agency), il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.

A questo proposito, andate a vedere Google Watch (http://www.google-watch.org/). E’ giusto tenere Google ‘sotto osservazione’.

Quelli di Google Watch, per intanto, hanno attribuito a Google il Big Brother award per il 2003. Google, in effetti, anche al di là delle intenzioni dei suoi fondatori  e dei suoi manager, è nelle condizioni per essere un vero Grande Fratello, in grado di controllare in qualche modo il comportamento di miliardi di persone.

Spiegano quelli di Google Watch: “It's not that we believe Google is evil. What we believe is that Google, Inc. is at a fork in the road, and they have some big decisions to make. This Google Watch site is trying to articulate, publicize, and even dramatize the situation at Google, and encourage more scrutiny of their operations”.



[1] Così si sono mossi, tra l’1 e il 18 maggio 2003, il 22% dei visitatori.

[2] Tra l’1 e l’8 maggio 2003, il ranking è questo: Google 61,05%; Virgilio 10,55%; Search.Msn 9,49%; Yahoo 7,11%; Altavista 4,80%; Search.Tiscali.it 3,11%; Arianna 1,36%; Lycos 0,84%; Excite 0,62%, ecc.

[3] Il paper intitolato The Anatomy of a Large-Scale Hypertextual Web Search Engine è presentato nel 1988 alla World Wide Web conference. Con Stanford Universiti come “assignee” e Larry Page come “inventor”, l’algoritmo conosciuto come "PageRank" è presentato per il brevetto nel gennaio del 1998. Nel settembre 2001 è  ufficialmente riconosiuto (Patent No. 6.285.999).

 

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