L'ORGANIZZAZIONE DANNEGGIATA DALLE PERSONE
Storia
e modelli
Giustamente si sostiene che l’organizzazione deve adattarsi alle
persone. Pensiamo, negli anni trenta, ai ricchi frutti della scuola
delle Human Relations negli Stati Uniti. Fu allora una sana reazione
alla durezza ‘positivistica’ del taylorismo. Se il taylorismo
guardava l’uomo come macchina imperfetta, le Relazioni Umane guardano
alla persona, tengono in conto le sue motivazioni anche immateriali,
badano all’influenza del gruppo, al clima, alla motivazione.
E pensiamo allo sguardo psicanalitico, nella versione di Melania Klein,
posato sulle organizzazioni. Jaques, Bion, insomma la scuola di Tavistock
mostrano come l’organizzazione è funzione della capacità
delle persone di farsi carico, di far fronte al compito. Conta la maturità
della persona. Organizzare significa garantire ad ognuno uno spazio
di autonomia consono alle potenzialità. Troppa autonomia, troppa
responsabilità sono dannose. Così come troppo poche.
Da tutta questa storia è disceso un assioma: affinché
l’organizzazione sia efficace i ruoli devono essere piegati alle
persone. Il sistema delle norme è un punto di riferimento. Non
un vincolo al quale attenersi. L’efficienza, il formale ed esatto
rispetto delle procedure, non porta vantaggi. Conta l’efficacia,
e l’efficacia è funzione dell’elasticità,
dell’adattamento della macchina organizzativa alle situazioni,
ai contesti, alle culture.
Tutti d’accordo su questo, naturalmente. Fino al punto che abbiamo
maturato un profondo fastidio, un vero rifiuto nei confronti delle organizzazioni
‘burocratiche’. Tutte fondate su procedure, regole da seguire,
limiti all’autonomia individuale.
In ultimo si e giunti a guardare alle organizzazioni come sistemi viventi:
sistemi complessi, caotici, reticolari, aperti, in continua evoluzione.
Anche a partire da questa lettura la ‘normalizzazione’ del
funzionamento organizzativo ci pare, con ragione, un elemento trascurabile,
quando non fuorviante. Ciò che conta, si osserva, è la
capacità di adattamento, la diversità.
L’organizzazione
come banale pratica quotidiana
Alla luce di questa storia e di questi modelli, l’organizzazione
fatta di procedure, di pratiche che si ripetono nel tempo viene criticata,
e ormai addirittura messa alla berlina.
Guardiamo però, in pratica, alle organizzazioni che conosciamo
e che frequentiamo quotidianamente. Quante volte ci capita di vedere
che ‘una cosa che funziona’ viene messa in discussione senza
nessun motivo, se non il motivo del comodo e dell’interesse soggettivo,
individuale, di una persona.
Così, ad esempio quando, magari per favorire un amico, qualcuno
mette in discussione le politiche di fornitura. Così un fornitore
che è ben integrato nel processo, che opera a un adeguato livello
dei costi, che ha consolidato i propri comportamenti in virtù
di un percorso di apprendimento, viene messo in discussione, viene sottoposto
a confronti e a gare - generando di fatto, al di là delle apparenze,
costi più alti e instabilità organizzativa: perché
il nuovo fornitore dovrà far pagare in qualche modo il basso
costo di ingresso praticato; perché non ha ancora imparato a
fare quel lavoro, perché non è integrato nella nostra
organizzazione, e non conosce le persone.
Altro esempio: ci capita di non rispettare una prassi che si era rivelata
efficace magari solo per pigrizia. Si cambio una procedura che funziona
per un personale tornaconto, o per fare meno fatica, o per il gusto
di cambiare.
Dove
sta la ‘giustizia sociale’
Dunque, sostenere che conta l’organizzazione di fatto, l’organizzazione
tacita, l’organizzazione che apprende, sostenere che è
saggio per una organizzazione cambiare continuamente; sostenere che
l’organizzazione migliore è quella che reagisce in modo
creativo alle emergenze, sostenere tutto questo, apre una pericolosa
‘backdoor’, una porta di servizio, un ‘buco’
nei sistemi di controllo.
Svalutare l’importanza delle regole toglie certezza all’organizzazione.
Lo svilimento, la svalutazione delle procedure tolgono garanzie e stimoli
a chi vede nell’esistenza di norme, alle quali tutti devono attenersi,
una manifestazione della giustizia sociale. Dove la ‘giustizia
sociale’ non è una gratuita astrazione: è il fondamento
‘costituzionale’ dell’impegno personale orientato
al buon funzionamento, al raggiungimento del risultato complessivo.
La scelta di abbassare il peso dell’organizzazione formale –forse
inizialmente intesa come una maniera per migliorare il livello di motivazione
dei lavoratori, si trasforma di fatto in una distruzione della motivazione.
Vedo che chi appena può viola ogni regola: perché dovrei
rispettarla io?
E nel mentre fa dire alla gran parte dei lavoratori ‘chi me lo
fa fare’, questa apertura al ‘non codificato’ offre
scappatoie e spazi d’azione a chi ‘ha un motivo per farlo’,
a chi è orientato a trascurare gli interessi collettivi, e che
guarda solo ai vantaggi individuali.
Esiste una vecchia regola, fondata su una antica tradizione, potremmo
anche dire sulla saggezza popolare. Una regola recepita da ogni cultura.
Una regola che le stesse teorie dell’evoluzione e del caos considerano
valida: ‘ciò che funziona non si cambia’.
Su questa regola si basa il buon andamento delle organizzazioni. Fin
quando l’orientamento all’informalità e alla deburocratizzazine
rispetta questa regola di base, si può considerare ‘sano’
l’abbassamento della soglia di ciò che è proceduralizzato.
Ma approfittando del ragionamento di chi sostiene che le regole non
sono un feticcio, approfittando della legittimazione di chi sostiene
che le norme esistono per essere cambiate, passa facilmente la prassi
di chi, per proprio tornaconto, o per semplice incuria, o per banale
gusto del nuovo, ‘cambia ciò che funziona’.
Provocando enormi danni: negazione della cultura e degli obiettivi condivisi,
peggioramento del clima, in ultima analisi distruzione dell’organizzazione.
E quindi dispersione di ricchezza: cioè indirizzamento della
ricchezza verso interessi di parte, estranei agli scopi dell’organizzazione.
Insomma: dietro la lussuosa e post-moderna immagine della learning
organization si nasconde il campo libero per un vecchio e mai estinto
abuso: l’asservimento dell’organizzazione agli interessi
ed ai comodi personali.