DA OLIVETTI A GETRONICS, DA CIRIO A CIRIO: DUE CASI ITALIANI
Dove
va l’impresa italiana
Si parla e si straparla di imprenditorialità. E si dice anche
con ragione che ogni lavoratore, oggi, dovrebbe imparare ad essere
imprenditore di se stesso.
Si parla e si straparla di sistema–paese, di come l’Italia
può e deve difendere una propria identità ed un proprio
sistema produttivo nel contesto del mercato globale.
Si parla e si straparla di sistema competitivo, ma poi si rinuncia
a competere nel largo consumo per rifugiarsi nel mercato delle utility:
è più facile guadagnare con le bollette del telefono
che vendendo pneumatici.
Si parla e si straparla di limiti del nostro mercato finanziario,
ma poi quando si chiedono denari agli investitori, troppo spesso
li si ripaga investendoli in iniziative poco chiare e poco proficue.
Si parla e si straparla di cultura e di valori e di creatività.
Ci piace ricordare la nostra diversità.
Eppure dovremmo riflettere su come sperperiamo patrimoni. Non c’è
ragione al mondo per giustificare il fatto che sempre meno imprese
italiano vivono una dimensione internazionale.
Ciò che fanno gli altri potremmo farlo anche noi. Perché
non lo facciamo?
Getronics
Italia: quando l’eredità lega al passato
Nel 1960, a 59 anni, muore Adriano Olivetti. Lascia un nutrito gruppo
di manager cresciuti all'interno dell'azienda, ingegneri, ma anche
uomini di formazione umanistica. Per anni il suo stile di guida
e le sue intuizioni continuano a produrre effetti.
Nel 1963 oltre il 20% della produzione è esportato negli
Stati Uniti. L'attività si allarga all'Estremo Oriente. Nel
'55 era stato inaugurato nel sud, a Pozzuoli, un nuovo stabilimento.
Un progetto che appariva inadeguato alle linee di montaggio. Ma
quando vent'anni dopo le linee lasciano il posto alla nuova organizzazione
a isole, allora quell'impianto si rivela perfetto.
La spinta propulsiva dura fino agli inizi degli anni '70. Poi la
crisi, di strategie competitive e di risorse finanziarie. L'Olivetti
di De Benedetti si muove tra l'imitazione di stili gestionali da
corporation statunitense ed episodiche citazioni del modello olivettiano.
Con poca coerenza nella definizione nelle priorità. Qual’è
il core business? Il personal computer? L'hardware o il software?
I servizi?
Tracce di quella cultura, e competenze cresciute a quella scuola,
sono ancora sul mercato. Guardiamo a una delle imprese nate dalla
diaspora: Getronics.
Alla fine degli anni novanta l’Olsy è ceduta alla statunitense
Wang, che è oggetto a sua volta di un'operazione di takeover.
Il Systems Integrator olandese Getronics lancia un’OPA amichevole
sul capitale di Wang Global. Si vuole creare un forte operatore
nei settori della Systems Integration e della consulenza IT, con
quote di mercato significative sia in Europa sia in Nord America,
presente sia in Asia che in Sud America.
Come spesso accade, si manifestano difficoltà a livello di
gruppo: è difficile integrare culture diverse –culture
d’impresa ma anche culture nazionali–, è difficile
fare sinergia, uniformare le politiche di offerta e di auditing.
Ma soffermiamoci qui in particolare su ciò che avviene in
Italia.
Per Getronics Italia la permanente cultura Olivetti è una
ricchezza, è il fondamento di una identità. C’è
però anche il rischio di restare legati al passato, a un
futuro che è ormai alle spalle. La consapevolezza del proprio
valore è una risorsa, ma la risorsa deve essere spendibile
nel presente. Le competenze diffuse nell’organizzazione sono
certamente più ricche di quelle di cui dispongono molti concorrenti.
Le tecnologie di riferimento sono di primo livello. Ci si deve però
chiedere: come portare queste competenze e questo know how sul mercato?
C’è dunque da fare un pesante lavoro di reingegnerizzazione
e di cambiamento. Per raggiungere una incisiva presenza sul mercato
è necessario agire in diverse direzioni. Ne segnaliamo tre.
La prima: uscire da alcune nicchie di mercato nelle quali si è
tradizionalmente forti, come il settore bancario. Solo generalizzando
le soluzioni al di fuori di un settore, solo aggredendo nuovi mercati
sarà possibile raggiungere volumi interessanti.
La seconda: snellire il modello organizzativo, per rendere meno
rigida l’offerta e per avvicinare le competenze al mercato.
L’offerta è articolata per linee, non è sempre
chiara. Le competenze sono forti, ma segmentate. Difficile coordinarle
in progetto, difficile utilizzarle appieno, difficile renderle visibili
al cliente.
Arriviamo così al terzo punto. Si deve mutare la politica
commerciale. Le risorse dedicate hanno spesso una lunga storia,
e comunque sono figlie di una precisa cultura. E’ difficile
passare dalla vendita del ‘ferro’ al software; ancora
più difficile è passare dalla ‘vendita’
alla ‘consulenza’. Fare consulenza significa porre al
centro il cliente, con le sue originali aspettative, il suo business,
la sua cultura. Le economie di scala possono e debbono essere cercate,
ma non stanno più nell’offrire la ‘nostra soluzione’,
stanno oggi semmai nel migliore utilizzo del knowledge. E in ogni
caso il cliente chiede ‘servizio’, attenzione. E’
importante spostare l’attenzione dal singolo atto di vendita
alla fidelizzazione.
Getronics Italia si impegna così nel cambiamento. E sostiene
il cambiamento con significativi investimenti in formazione. Un
duro lavoro, reso più duro dal difficile momento del complessivo
comparto ICT .
Ma a un certo punto, cosa accade: segnali non positivi giungono
dal mercato; i fatturati sono ‘sotto budget’; non si
sono raggiunti i risultati previsti e attesi. Si deve procedere
in modo più incisivo nel ‘tagliare costi’. Si
taglierà certo anche da altre parti; ma intanto, tra l’altro,
cosa si taglia? Si taglia, a quanto pare, anche il budget destinato
a sostenere il cambiamento.
Ora, delle due l’una: o di cambiamento non c’era bisogno,
e allora ben venga il congelamento di azioni pure ‘messe a
budget’: il budget non è un feticcio, non si deve spendere
per forza solo perché in sede di previsione si era deciso
di farlo.
Se però il cambiamento era necessario per sciogliere i nodi
strategici – la distanza dal mercato, la difficoltà
di valorizzare le competenze, la scarsa cultura consulenziale–
se il cambiamento era necessario, allora limare gli investimenti
destinati al cambiamento significa non credere in un futuro possibile.
Cirio:
come natura crea, finanza distrugge
“Bisogna anche dire che è Cirio”: per generazioni
le casalinghe italiane hanno attribuito un valore aggiunto al brand.
Cirio vuol dire fiducia. Cirio è garanzia di prima scelta.
Cirio significa tecnologie di conservazione d’avanguardia.
E’ un solido marchio, ricco di storia ultracentenaria, che
parla di dieta mediterranea.
Nella stessa comunicazione ufficiale dell’impresa si legge
che “secondo recenti indagini sui consumatori, Cirio è
tra i cinque marchi con la reputazione migliore nell'intero panorama
alimentare italiano. Il consumatore riconosce a Cirio la capacità
di preservare tutto il sapore genuino dei prodotti della terra,
per portarlo intatto sulla tavola degli italiani grazie al suo know
how secolare e al pieno controllo di tutte le fasi della produzione,
dalla terra alla tavola”.
I grandi brand, raramente sono frutto della creatività di
pubblicitari, o della abilità di uomini di marketing. Pubblicità
e marketing possono rinforzare un brand, mantenerlo nel tempo -
ma all’origine del brand, quasi sempre, c’è l’incontro
tra un grande progetto industriale e una concreta, sentita aspettativa
dei consumatori. E’ il caso di Cirio.
Francesco Cirio nasce a Nizza Monferrato (Asti) il 24 dicembre 1836.
Ha due o tre anni quando il padre, sensale di granaglie, a causa
di una grave crisi nel commercio dei cereali è costretto
a cambiare lavoro: apre a Fontanile un piccolo negozio di pasta,
pane e con annesso macello settimanale.
Francesco a undici anni inizia a lavorare in proprio: Due o tre
volte la settimana va al mercato di Nizza Monferrato e vi acquista
qualche cesto di ortaggi o di legumi, a spalla li trasporta a Fontanile
e li rivende. Francesco, così, impara cosa vuol dire fare
l’imprenditore e intravede l’affare legato alla conservazione
della verdura.
Tredicenne, ottenuto il permesso paterno, insieme al fratello maggiore
Ludovico, va cercar fortuna a Torino. I due ragazzi trovano lavoro
in un pastificio. Ma questo a Francesco non basta. Prende a frequentare
i mercati ortofrutticoli di piazza Bodoni e di Porta Palazzo, compra
verdura per smerciarla nei sobborghi. Acquista un carretto, allarga
l’attività.
Incontra il favore e la fiducia dei dirigenti di una grande ditta,
la Gamba (poi Marocco) e ne diventa un solerte collaboratore.
E’ analfabeta, non conosce lingue straniere, eppure allarga
la sua attività all’estero: Parigi, Bruxelles, Vienna,
l’Olanda.
Alla fine del 1856, a vent’anni, ritorna a Torino, con alcune
migliaia di lire da investire. Affitta una stanza in via Borgo Dora
34, vi costruisce un ampio camino con due grandi caldaie. E’
pronto per trarre profitto dalla sua idea: conservare le verdure
per rivenderle durante la stagione invernale. Comincia con i piselli
e ottiene ben presto un enorme successo. Impianta una vasta fabbrica,
assume operai e tecnici, estende il campo a pomodori, funghi, carciofi,
asparagi, pesche e pere, alla carne; apre un negozio in via Palazzo
di Città. Presto si trova alla testa di un’impresa
fiorente, con un emporio che offre un ampia gamma di prodotti gastronomici.
Il Risorgimento e l’Unità d’Italia sono l’occasione
di spostare al Mezzogiorno le imprese conserviere. Cirio investe
in particolare in Campania, con fabbriche a Castellammare di Stabia,
a San Giovanni a Teduccio e nelle province di Caserta e Salerno.
Nel 1867 l’azienda presenta i suoi prodotti a Parigi, alla
grande Esposizione Universale. Nel 1876 inscatola 4.400 quintali
fra piselli, pomodori, funghi, asparagi, carciofi, pesche, pere
e tartufi neri e dà lavoro a più di 200 persone.
Accordi con la Società delle Ferrovie dell’Alta Italia,
ed i primi vagoni frigoriferi, e carri serbatoio per il vino, portano
i prodotti –verdure, uova, latticini, pollame, formaggi, vino,
uva– in Francia, Austria, Germania, Ungheria, Russia.
Nel 1885 nasce la Società anonima di esportazione agricola
Cirio, che apre in breve tempo succursali a Castellamare di Stabia,
Milano, Belgrado, Berlino, Bruxelles, Londra, Parigi e Vienna.
Francesco si spegne a Roma il 9 gennaio del 1900. La Cirio in quei
giorni è in condizioni fallimentari. Sul letto di morte,
a chi gli recava le parole di conforto inviategli dal Re Umberto,
Francesco risponde: “dite a sua Maestà che il povero
Cirio è morto col rammarico di non aver potuto mantenere
la promessa fattagli”.
Ma l’eredità era solida, e l’attività
è subito ripristinata dai fratelli, Pietro e Clemente e dalla
famiglia Signorini, imparentata con i Cirio. Il fatto è che,
al di là di successi ed insuccessi, il legame tra mission
e brand è chiaro: vocazione industriale, settore agroalimentare.
Le attività finanziarie sono funzionali al business.
Anche oggi Cirio è di fronte ad una grave crisi. Il brand
è ancora forte, le tecnologie sono attuali, le competenze
solide. Nonostante ciò stavolta Cirio rischia di soccombere.
Perché Sergio Cagnotti è un finanziere. A lui interessavano
poco le opinioni delle casalinghe, le conserve alimentari, l’impresa
intesa come produzione e organizzazione del lavoro.
Il brand, così slegato dalle sue fonti, perde senso e valore.
L’operazione finanziaria che ha portato sulle prime pagine
dei giornali la Cirio è catastrofica perché ha bruciato
il denaro di migliaia di risparmiatori. Ma anche e forse sopratutto
perché la raccolta di risorse appare legata a strategie finanziarie
- ma slegata dal business, lontana dal mercato agroalimentare, dalle
aspettative dei consumatori così come dagli interessi dei
seimila dipendenti (tra stabili e stagionali).