BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 22/09/2003

DA OLIVETTI A GETRONICS, DA CIRIO A CIRIO: DUE CASI ITALIANI

di Francesco Varanini

Dove va l’impresa italiana
Si parla e si straparla di imprenditorialità. E si dice anche con ragione che ogni lavoratore, oggi, dovrebbe imparare ad essere imprenditore di se stesso.
Si parla e si straparla di sistema–paese, di come l’Italia può e deve difendere una propria identità ed un proprio sistema produttivo nel contesto del mercato globale.
Si parla e si straparla di sistema competitivo, ma poi si rinuncia a competere nel largo consumo per rifugiarsi nel mercato delle utility: è più facile guadagnare con le bollette del telefono che vendendo pneumatici.
Si parla e si straparla di limiti del nostro mercato finanziario, ma poi quando si chiedono denari agli investitori, troppo spesso li si ripaga investendoli in iniziative poco chiare e poco proficue.
Si parla e si straparla di cultura e di valori e di creatività. Ci piace ricordare la nostra diversità.
Eppure dovremmo riflettere su come sperperiamo patrimoni. Non c’è ragione al mondo per giustificare il fatto che sempre meno imprese italiano vivono una dimensione internazionale.
Ciò che fanno gli altri potremmo farlo anche noi. Perché non lo facciamo?

Getronics Italia: quando l’eredità lega al passato
Nel 1960, a 59 anni, muore Adriano Olivetti. Lascia un nutrito gruppo di manager cresciuti all'interno dell'azienda, ingegneri, ma anche uomini di formazione umanistica. Per anni il suo stile di guida e le sue intuizioni continuano a produrre effetti.
Nel 1963 oltre il 20% della produzione è esportato negli Stati Uniti. L'attività si allarga all'Estremo Oriente. Nel '55 era stato inaugurato nel sud, a Pozzuoli, un nuovo stabilimento. Un progetto che appariva inadeguato alle linee di montaggio. Ma quando vent'anni dopo le linee lasciano il posto alla nuova organizzazione a isole, allora quell'impianto si rivela perfetto.
La spinta propulsiva dura fino agli inizi degli anni '70. Poi la crisi, di strategie competitive e di risorse finanziarie. L'Olivetti di De Benedetti si muove tra l'imitazione di stili gestionali da corporation statunitense ed episodiche citazioni del modello olivettiano. Con poca coerenza nella definizione nelle priorità. Qual’è il core business? Il personal computer? L'hardware o il software? I servizi?
Tracce di quella cultura, e competenze cresciute a quella scuola, sono ancora sul mercato. Guardiamo a una delle imprese nate dalla diaspora: Getronics.
Alla fine degli anni novanta l’Olsy è ceduta alla statunitense Wang, che è oggetto a sua volta di un'operazione di takeover. Il Systems Integrator olandese Getronics lancia un’OPA amichevole sul capitale di Wang Global. Si vuole creare un forte operatore nei settori della Systems Integration e della consulenza IT, con quote di mercato significative sia in Europa sia in Nord America, presente sia in Asia che in Sud America.
Come spesso accade, si manifestano difficoltà a livello di gruppo: è difficile integrare culture diverse –culture d’impresa ma anche culture nazionali–, è difficile fare sinergia, uniformare le politiche di offerta e di auditing.
Ma soffermiamoci qui in particolare su ciò che avviene in Italia.
Per Getronics Italia la permanente cultura Olivetti è una ricchezza, è il fondamento di una identità. C’è però anche il rischio di restare legati al passato, a un futuro che è ormai alle spalle. La consapevolezza del proprio valore è una risorsa, ma la risorsa deve essere spendibile nel presente. Le competenze diffuse nell’organizzazione sono certamente più ricche di quelle di cui dispongono molti concorrenti. Le tecnologie di riferimento sono di primo livello. Ci si deve però chiedere: come portare queste competenze e questo know how sul mercato?
C’è dunque da fare un pesante lavoro di reingegnerizzazione e di cambiamento. Per raggiungere una incisiva presenza sul mercato è necessario agire in diverse direzioni. Ne segnaliamo tre.
La prima: uscire da alcune nicchie di mercato nelle quali si è tradizionalmente forti, come il settore bancario. Solo generalizzando le soluzioni al di fuori di un settore, solo aggredendo nuovi mercati sarà possibile raggiungere volumi interessanti.
La seconda: snellire il modello organizzativo, per rendere meno rigida l’offerta e per avvicinare le competenze al mercato. L’offerta è articolata per linee, non è sempre chiara. Le competenze sono forti, ma segmentate. Difficile coordinarle in progetto, difficile utilizzarle appieno, difficile renderle visibili al cliente.
Arriviamo così al terzo punto. Si deve mutare la politica commerciale. Le risorse dedicate hanno spesso una lunga storia, e comunque sono figlie di una precisa cultura. E’ difficile passare dalla vendita del ‘ferro’ al software; ancora più difficile è passare dalla ‘vendita’ alla ‘consulenza’. Fare consulenza significa porre al centro il cliente, con le sue originali aspettative, il suo business, la sua cultura. Le economie di scala possono e debbono essere cercate, ma non stanno più nell’offrire la ‘nostra soluzione’, stanno oggi semmai nel migliore utilizzo del knowledge. E in ogni caso il cliente chiede ‘servizio’, attenzione. E’ importante spostare l’attenzione dal singolo atto di vendita alla fidelizzazione.
Getronics Italia si impegna così nel cambiamento. E sostiene il cambiamento con significativi investimenti in formazione. Un duro lavoro, reso più duro dal difficile momento del complessivo comparto ICT .
Ma a un certo punto, cosa accade: segnali non positivi giungono dal mercato; i fatturati sono ‘sotto budget’; non si sono raggiunti i risultati previsti e attesi. Si deve procedere in modo più incisivo nel ‘tagliare costi’. Si taglierà certo anche da altre parti; ma intanto, tra l’altro, cosa si taglia? Si taglia, a quanto pare, anche il budget destinato a sostenere il cambiamento.
Ora, delle due l’una: o di cambiamento non c’era bisogno, e allora ben venga il congelamento di azioni pure ‘messe a budget’: il budget non è un feticcio, non si deve spendere per forza solo perché in sede di previsione si era deciso di farlo.
Se però il cambiamento era necessario per sciogliere i nodi strategici – la distanza dal mercato, la difficoltà di valorizzare le competenze, la scarsa cultura consulenziale– se il cambiamento era necessario, allora limare gli investimenti destinati al cambiamento significa non credere in un futuro possibile.

Cirio: come natura crea, finanza distrugge
“Bisogna anche dire che è Cirio”: per generazioni le casalinghe italiane hanno attribuito un valore aggiunto al brand. Cirio vuol dire fiducia. Cirio è garanzia di prima scelta. Cirio significa tecnologie di conservazione d’avanguardia. E’ un solido marchio, ricco di storia ultracentenaria, che parla di dieta mediterranea.
Nella stessa comunicazione ufficiale dell’impresa si legge che “secondo recenti indagini sui consumatori, Cirio è tra i cinque marchi con la reputazione migliore nell'intero panorama alimentare italiano. Il consumatore riconosce a Cirio la capacità di preservare tutto il sapore genuino dei prodotti della terra, per portarlo intatto sulla tavola degli italiani grazie al suo know how secolare e al pieno controllo di tutte le fasi della produzione, dalla terra alla tavola”.
I grandi brand, raramente sono frutto della creatività di pubblicitari, o della abilità di uomini di marketing. Pubblicità e marketing possono rinforzare un brand, mantenerlo nel tempo - ma all’origine del brand, quasi sempre, c’è l’incontro tra un grande progetto industriale e una concreta, sentita aspettativa dei consumatori. E’ il caso di Cirio.
Francesco Cirio nasce a Nizza Monferrato (Asti) il 24 dicembre 1836. Ha due o tre anni quando il padre, sensale di granaglie, a causa di una grave crisi nel commercio dei cereali è costretto a cambiare lavoro: apre a Fontanile un piccolo negozio di pasta, pane e con annesso macello settimanale.
Francesco a undici anni inizia a lavorare in proprio: Due o tre volte la settimana va al mercato di Nizza Monferrato e vi acquista qualche cesto di ortaggi o di legumi, a spalla li trasporta a Fontanile e li rivende. Francesco, così, impara cosa vuol dire fare l’imprenditore e intravede l’affare legato alla conservazione della verdura.
Tredicenne, ottenuto il permesso paterno, insieme al fratello maggiore Ludovico, va cercar fortuna a Torino. I due ragazzi trovano lavoro in un pastificio. Ma questo a Francesco non basta. Prende a frequentare i mercati ortofrutticoli di piazza Bodoni e di Porta Palazzo, compra verdura per smerciarla nei sobborghi. Acquista un carretto, allarga l’attività.
Incontra il favore e la fiducia dei dirigenti di una grande ditta, la Gamba (poi Marocco) e ne diventa un solerte collaboratore.
E’ analfabeta, non conosce lingue straniere, eppure allarga la sua attività all’estero: Parigi, Bruxelles, Vienna, l’Olanda.
Alla fine del 1856, a vent’anni, ritorna a Torino, con alcune migliaia di lire da investire. Affitta una stanza in via Borgo Dora 34, vi costruisce un ampio camino con due grandi caldaie. E’ pronto per trarre profitto dalla sua idea: conservare le verdure per rivenderle durante la stagione invernale. Comincia con i piselli e ottiene ben presto un enorme successo. Impianta una vasta fabbrica, assume operai e tecnici, estende il campo a pomodori, funghi, carciofi, asparagi, pesche e pere, alla carne; apre un negozio in via Palazzo di Città. Presto si trova alla testa di un’impresa fiorente, con un emporio che offre un ampia gamma di prodotti gastronomici.
Il Risorgimento e l’Unità d’Italia sono l’occasione di spostare al Mezzogiorno le imprese conserviere. Cirio investe in particolare in Campania, con fabbriche a Castellammare di Stabia, a San Giovanni a Teduccio e nelle province di Caserta e Salerno.
Nel 1867 l’azienda presenta i suoi prodotti a Parigi, alla grande Esposizione Universale. Nel 1876 inscatola 4.400 quintali fra piselli, pomodori, funghi, asparagi, carciofi, pesche, pere e tartufi neri e dà lavoro a più di 200 persone.
Accordi con la Società delle Ferrovie dell’Alta Italia, ed i primi vagoni frigoriferi, e carri serbatoio per il vino, portano i prodotti –verdure, uova, latticini, pollame, formaggi, vino, uva– in Francia, Austria, Germania, Ungheria, Russia.
Nel 1885 nasce la Società anonima di esportazione agricola Cirio, che apre in breve tempo succursali a Castellamare di Stabia, Milano, Belgrado, Berlino, Bruxelles, Londra, Parigi e Vienna.
Francesco si spegne a Roma il 9 gennaio del 1900. La Cirio in quei giorni è in condizioni fallimentari. Sul letto di morte, a chi gli recava le parole di conforto inviategli dal Re Umberto, Francesco risponde: “dite a sua Maestà che il povero Cirio è morto col rammarico di non aver potuto mantenere la promessa fattagli”.
Ma l’eredità era solida, e l’attività è subito ripristinata dai fratelli, Pietro e Clemente e dalla famiglia Signorini, imparentata con i Cirio. Il fatto è che, al di là di successi ed insuccessi, il legame tra mission e brand è chiaro: vocazione industriale, settore agroalimentare. Le attività finanziarie sono funzionali al business.
Anche oggi Cirio è di fronte ad una grave crisi. Il brand è ancora forte, le tecnologie sono attuali, le competenze solide. Nonostante ciò stavolta Cirio rischia di soccombere.
Perché Sergio Cagnotti è un finanziere. A lui interessavano poco le opinioni delle casalinghe, le conserve alimentari, l’impresa intesa come produzione e organizzazione del lavoro.
Il brand, così slegato dalle sue fonti, perde senso e valore.
L’operazione finanziaria che ha portato sulle prime pagine dei giornali la Cirio è catastrofica perché ha bruciato il denaro di migliaia di risparmiatori. Ma anche e forse sopratutto perché la raccolta di risorse appare legata a strategie finanziarie - ma slegata dal business, lontana dal mercato agroalimentare, dalle aspettative dei consumatori così come dagli interessi dei seimila dipendenti (tra stabili e stagionali).

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