BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 01/12/2003

SCRIVERE DI SE', OVVERO NARRAZIONE E INTEGRITA'

di Francesco Varanini

Il diritto all'autobiografia

Quando ho cominciato a lavorare in azienda, verso la fine degli anni settanta avevo quasi trent’anni. Mi ero laureato, avevo fatto il militare, ero stato qualche anno in Ecuador qualche anno lavorando come antropologo. A un certo punto ero tornato in Italia, sapevo che se non fosso tornato in quel momento forse non sarei tornato più. 

Avevo lavorato per un po’ come insegnante precario, avevo vinto un concorso per un posto di bibliotecario. Poi capitò un’occasione: conoscenti presentarono il mio curriculum alla Direzione del Personale di una impresa  – l’Area industriale di un grande gruppo, situata in una città di provincia. Fui chiamato a fare dei test (c’erano psicologi in camice bianco, con il cronometro in mano). Seguirono diversi colloqui con diverse persone, nel corso dei quali seppi che cercavano ancora qualcuno per l’Ufficio  Formazione. L’Ufficio, mi fu spiegato, stava particolarmente a cuore al Direttore Generale. Il Direttore del Personale l’aveva da poco rifondato.

Mi dissero di restare in attesa, sarei stato chiamato per un incontro con il Direttore del Personale. Ricordo che fui convocato per le sette o le otto di sera, l’ultimo dell’anno. C’era anche un aspetto simbolico nella data e nell’orario: un’idea di impegno, di sacrificio, un modo per dirmi che si trattava di ‘lavoro’, ma anche di qualcosa di più del semplice ‘lavoro’. Quel Direttore del Personale aveva un fortissimo impegno etico, si distingueva per un rigore fin eccessivo. Proveniva dalla militanza nel sindacato. La sua giornata del lavoro era interminabile. Sul posto di lavoro morì, pochi anni dopo.

Di quel colloquio serale non ricordo molto. Ricordo il silenzio degli uffici vuoti, il Direttore del Personale che mi parlava da dietro la sua scrivania, nella penombra. Ricordo che mi disse più o meno: “So poco di lei, per quanto ne so lei potrebbe anche essere un brigatista, però noi stiamo cercando gente strana, gente che porti delle idee, così accettiamo il rischio. Però il rischio deve accettarlo anche lei…” Insomma, mi propose un contratto a termine di un anno e mezzo.

Sul momento, non lo nego, rimasi deluso. Cercavo un ‘posto di lavoro’, con tutte le sicurezze del caso. (Allora non c’erano contratti  di formazione-lavoro, e gli stage non erano ancora diventati una cosa normale). Però dovevo anche riconoscere che il Direttore del Personale mi aveva preso per il verso giusto, aveva sollecitato il mio gusto per l’avventura, mi aveva sfidato.

Avrete già capito che accettai. Altrimenti non sarei qui a raccontarvi queste cose.

Raccontare, per sé e per gli altri

Mi è piaciuto lavorare in azienda, scoprire le persone al di là dei ruoli, imparare a comprendere come funzionano le organizzazioni, misurarmi con compiti diversi, esplorare campi per me del tutto ignoti – per esempio, non capivo niente di informatica, ma ero incuriosito da queste macchine ‘intelligenti’ e dal linguaggio astruso dei tecnici: ora sono considerato un esperto di Information & Communication Technology.

Mi è piaciuto anche –lo dico col senno di poi– lavorare con manager spicci e freddi e aggressivi, che credo mi stimassero, ma che faticavano ad accettare un certo mio modo di girare intorno al nocciolo della questione. Il mio modo di ragionare articolato e attento ai dettagli credo non lo capissero proprio, restavano sconcertati: cercavano rassicurazioni, io non sapevo, o non volevo darne. Sono convinto fosse questo, per me, il modo migliore di spendermi nel lavoro: contribuire al risultato, mettere in campo quelle che ritenevo le mie migliori capacità – mantenendo la dignità, il rispetto per me stesso.

Come ogni vita di lavoro ci sono stati alti e bassi, esperienze e momenti diversi.

Poi c’è la gran questione del tempo dedicato ad altro: se si pretende di poter incanalare tutte le nostre energie, pulsioni, capacità, nel ‘lavoro’, spesso si va in contro a delusioni: spesso il ‘lavoro’ non è in grado di offrire spazi sufficienti. Non necessariamente per incapacità o incomprensione del ‘datore di lavoro’. Allora sta a noi incanalare altrove le nostre energie e le nostre capacità. Non mi piace quindi –mi sembra inadeguato– parlare di ‘tempo di lavoro’ e di ‘tempo libero’. Anche perché l’ ‘ozio’, la pigra attività fondata esclusivamente sul piacere, non è più relegata al tempo libero: possiamo prenderci momenti di ozio durante il lavoro. E anche perché il ‘tempo libero’ è sempre meno libero: tecnologie ed aspettative ci vogliono sempre reperibili.

Così preferisco pensare a diverse vite, sempre parzialmente sovrapposte. Vite che viviamo contemporaneamente. Ognuno ha le sue. Io ho una vita di scrittore, che si occupa di cose –soprattutto critica letteraria,  letteratura ispanoamericana– cose che possono apparire del tutto da quelle di cui mi occupo nell’altra vita, quella spesa, oggi, a fare il consulente e il formatore.

Tutto questo, gli alti e i bassi, le insoddisfazioni, le vite diverse, porta alla necessità di tenere tutto insieme, di curare la propria integrità. Per fare questo scrivo. La scrittura è il collante che tiene insieme la mia vita.

Scrivo di letteratura ispanoamericana. Ma scrivo anche, autobiograficamente, di quello che ha riguardato il lavoro in azienda, e riguarda ora il lavoro di formatore e consulente. Scrivo perché serve a me farlo. Spero che serva anche agli altri. Perché mostrando quello che scrivo spero di dare un piccolo esempio, spero di mostrare agli altri come è possibile mantenere viva la propria integrità.

La poesia e il web

Per esempio, vi dicevo, ho lavorato con manager spicci e freddi e aggressivi. Ho imparato da loro. Ho sofferto lavorando con loro. Dopo ho scritto questa poesia.

Ho visto lampi d'ira contratta

dietro gli occhiali d'oro

di uomini marketing

assurti passo dopo passo

ai vertici aziendali

ho visto le loro mani curate

incapaci di stringere mani

e le loro dita serrate

fino al bianco delle nocche

attorno a penne Montblanc

(…)

li ho visti convocare riunioni

solo per staffilare in faccia colpe

circostanze costruite ad arte per sentirsi

sopra agli altri, ridotti

a guardarsi in silenzio negli occhi

li ho sentiti magnificare

i collaboratori più protervi

o più deboli o più servi

e assumere ragazzi senza genio

ma figli di qualcuno

(…) [1]

Poi c’è il web. La possibilità di raccontarsi sulla Rete. Di presentarsi attraverso ipertesti. Così, giocando un po’ con la vita e con quello che ho fatto, ho costruito un sito. L’ho fatto con l’aiuto tecnico di due amici, uno è anche web master di Bloom. Ma il progetto è tutto mio, perché qui il gioco è di mettersi in gioco. Di piegare la tecnologia ai contenuti, che sono tutti miei, e a un modo di raccontare che è, nel bene e nel male il mio.

Non so come può apparire www.francescovaranini.com a un visitatore. Ma rappresenta me stesso. Mi rispecchia. Del resto, si sa, la forma  dell’opera rispecchia sempre in qualche modo la mente dell’autore. Vorrei fosse in qualche modo così, anche in questo caso.

L’altro giorno un’amica mi ha detto che qualcun altro suo amico, esperto di progettazione web o non so che, aveva visitato questo mio sito. E che poi gli hanno detto: ‘Questo non è Internet’. Perché, c’è forse un solo modo? Internet dovrebbe essere fatta forse di siti tutti uguali, asserviti a regole stabilite da  qualche esperto? Ho già scritto su Bloom perché disprezzo la lezione di pretesi maestri come Jacob Nielsen. Seguendo certe indicazioni, si finisce per fare siti tutti uguali. E chi l’ha detto che un sito deve essere facile da visitare, chiaro nel disegno? Anche mostrare la complessità è un dono. Anche viaggiare in un sito che evita di proporre percorsi sempre uguali è un’esperienza.

Il mio modo di raccontarmi non è l’unico, certo. Ce ne saranno altri migliori. Io mostro il mio, è un esempio, quello che io faccio scrivendo altri potranno farlo usando altri mezzi espressivi: che so io, disegnando, o componendo musica.

In fondo non abbiamo alibi: di fronte a qualsiasi difficoltà oggettiva resta possibile portare avanti il nostro progetto personale.



[1] È un brano della poesia che dà titolo a Francesco Varanini, L’irresistibile ascesa del Direttore Marketing cresciuto alla scuola del largo consumo, Guerini e Associati, 2003. Il libro è presentato a Milano presso la Casa della Cultura, Via Borgogna, 3, martedì 9 dicembre 2003 alle ore 18 e 30,  con la partecipazione di Sergio Capranico, Fulvio Carmagnola, Alberto De Martini, Fiona Diwan, Gian Franco Goeta, Milo Goj, Paolo Iacci, Marco Minghetti, Ugo Morelli, Raoul C. D. Nacamulli, Massimiliano Santoro, Gianmario Tondato da Ruos, Gianluca Ulisse.

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