BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 24/12/2003

PARMALAT E DELOITTE. L'ETICA DELL'AUDITING

di Francesco Varanini

Leggiamo sul Financial Times (20 dicembre 2003): “Deloitte, Parmalat’s chief auditor and one of the big four global accounting firms, yesterday defended its work. ‘We believe we have behaved entirely properly’”.

Non entriamo qui nel merito, diamo anzi per scontato che Deloitte (Deloitte Touche Tohmatsu), così come gli altri auditors coinvolti –Grand Thornton, PriceWaterhouse Coopers– abbiano agito, come dichiara il portavoce di Deloitte “in accordance with the Italian audit sandards in force at the time”.

Ciò non toglie, naturalmente, che restino aperte molte domande. In particolare se ci spostiamo dal piano della responsabilità giuridica al piano della responsabilità etica. Di etica si fa tanto parlare, ma cosa vuol dire? Forse vuol dire: non solo agire nel rispetto della normativa vigente, ma farsi carico di una responsabilità: garantire informazioni a tutti coloro che sono interessati ad averne (‘stakeholders’), e che non hanno accesso alle fonti, e che comunque non sanno leggere le informazioni – che sono espresse in forme ipercodificate, comprensibili solo per specialisti.

Può darsi che Parmalat abbia nascosto informazioni, può darsi che Deloitte abbia fatto il possibile, con gli strumenti attualmente a disposizione, per portare alla luce il reale stato dell’impresa. Ciò non diminuisce la responsabilità etica. Da questa responsabilità discende la necessità di dotarsi di strumenti adeguati. Adeguati per tempestività –in parole povere, serve poco avvisare quando i buoi sono scappati– e adeguati in relazione alla opacità delle ‘informazioni apparenti’ messe a disposizione da Parmalat, o da chicchessia.

Nella sostanza, l’etica del ruolo richiede all’auditor non solo di saper leggere i conti e le carte. L’etica del ruolo richiede anche, o innanzitutto di saper ascoltare. E cioè leggere tra le righe, leggere i segnali deboli.

Se tutto questo –la capacità di ascolto– non sta ancora negli obblighi formali assunti dall’auditor, il buon auditor dovrebbe sapere ugualmente che questa è la domanda sociale a lui rivolta. E che quindi anche il suo mercato futuro dipende dall’acquisizione di questa capacità.

Insomma: dall'auditor ci si attende una valutazione indipendente, una opinion. Diverse doti sono necessarie per svolgere al meglio l'attività, ma tra queste la 'capacità di ascolto' prevale sullo stesso dominio degli strumenti di rilevazione, legati a procedure sempre criticabili, a tecnologie sempre in evoluzione.

Si noti come questa ‘aspettativa etica’ nei confronti dell’auditor trova singolare –ma anche, mi pare, definitiva–conferma nella stessa origine dell’espressione, ovvero nella storia dell’auditing.

Siccome nel Medioevo l'udito, più che la vista, dominava la conoscenza, nel XII secolo in Inghilterra il controllo dei conti veniva fatto oralmente. Il revisore serio lavorava così: per non sbagliare, si faceva 'recitare' ad alta voce da un altro contabile le cifre scritte. Le comprendeva meglio se le udiva pronunciare, piuttosto che se le vedeva.

L'auditing, l'attività mirante a stabilire se un bilancio presenta in modo attendibile la situazione patrimoniale-finanziaria ed i risultati dell'azienda, ci rimanda così al ‘percepire con l'orecchio’ –latino audire, radice indoeuropea aus-, da cui derivano udito, ed anche ascolto.

Appunto, ripetiamo: ‘capacità di ascolto’, ‘lettura dei segnali deboli’, comprensione della situazione a partire da tracce, indizi. Assunzione del rischio implicito nell’attività di ‘esprimere una opinione’. Assunzione di responsabilità nei confronti di terzi, ignari ma fiduciosi.

Pagina precedente

Indice dei contributi