BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 20/09/2004
ETICA E STRUMENTI. OVVERO VANITÀ E INGANNO DELLA CORPORATE SOCIAL RESPONSABILITY

di Francesco Varanini

Dove sta l'etica

Immaginate un edificio abbellito da accattivanti insegne sulla facciata e da bandiere sventolanti sul tetto. Immaginate che questo lussuoso apparato comunicativo sia ostentato come significativa miglioria. Eppure chi vive nell'edificio sa –o dovrebbe sapere– che le fondamenta sono poco solide, e che i sotterranei sono infestati da topi, e sono anche luogo di turpi commerci.

Comunicazione, sovrastruttura, operazione di immagine meramente descrittiva. Questo è, non di rado, il ‘bilancio sociale', e nel complesso tutta l'impalcatura degli strumenti della Corporate Social Responsibility, CSR (o Responsabilità sociale d'impresa, RSI).

Perché se ne parla tanto, e vi si investono risorse, distogliendole dalla gestione e da azioni orientate al cambiamento, al miglioramento, allo sviluppo? Tutto nasce dal bisogno, diremmo addirittura dalla fame di etica.

La morale non è, in origine, necessaria. E' del tutto fondato lo scetticismo di chi si domanda ‘perché devo essere morale se l'immoralità consente ad altri di ottenere a buon mercato successo e felicità?'. Trasimaco nella Repubblica di Platone sostiene che l'ingiustizia è più utile della giustizia per chi ha la forza di imporsi agli altri, e che perciò non ha nessun obbligo di seguire le norme che gli impediscono di fare quello che vuole.

Ma la ‘morale' viene di attualità quando diventa diffusa la percezione del superamento di un limite. Quando si percepisce come eccessiva la sperequazione, la disuguaglianza. Quando è vessata e violata la nostra personale dignità, o quella del gruppo cui apparteniamo, o quella di altri a cui riconosciamo la nostra stessa dignità. Quando l'uso della libertà da parte di pochi è uno schiaffo troppo sonoro sul volto di molti. Quando il divario nella distribuzione della ricchezza sfugge al controllo. Quando l'equilibrio dei diritti e delle opportunità appare violato. Quando

l'uso delle risorse naturali e lo sfruttamento dell'ambiente rischiano di mettere in discussione il nostro futuro.

Insomma, quando la morale stabilita in una comunità appare, in maniera offensiva, finalizzata solo agli interessi di chi nella comunità stessa detiene il potere, allora emerge il bisogno di un nuovo punto di incontro tra le diverse personali, utilitaristiche, ‘morali'. Allora si manifesta il bisogno di una ‘scienza della morale', di un'etica.

E' abbastanza evidente che ci troviamo oggi proprio in questa situazione. Di qui l'attenzione alla ‘sostenibilità', alla ‘Corporate Governance', di qui l'accanito dibattito attorno al concetto di stakeholder . Di qui la gran attenzione dedicata alla Corporate Social Responsibility.

Di fronte a tutto questo ciò che desta meraviglia, e che un po' preoccupa, non è tanto la sostanza –la carenza di etica è un dato di realtà, il bisogno di ‘fare qualcosa' è perfettamente fondato–. Ciò che meraviglia e preoccupa è l'enfasi del nuovo. C'è tutto il motivo per interrogarsi di nuovo, per rileggere Platone e Aritotele e i Padri della Chiesa e Hobbes e Bentham, Kant, Rousseau, Fichte, Nietzche, Jaspers, Bonhoeffer e Rawls, e anche magari qualche pagina di Drucker. Si potrebbe riprendere in mano la riflessione sulle regole della convivenza, sul controllo e sul contratto sociale, ed anche sulla teoria pura del diritto e sulle diverse genesi dei patti costituzionali.

‘Bilancio sociale': strumento inutile e dannoso

Ma invece si tende a prendere come fondamento qualche recente generico ‘documento ufficiale', come il Green Paper sulla CSR della Commissione Europea (luglio 2001). E si pretende di trovare le risposte in qualche standard: si pensi in Italia al Progetto Q-RES. Come se l'insoddisfazione morale di fronte al funzionamento delle organizzazioni, e quindi il bisogno di etica, potessero essere risolti sul piano della certificazione. Come se l'etica potesse essere imposta, o garantita, attraverso una norma ISO 9000, 9001 o 9004 che sia.

Il problema non sta negli strumenti. E anzi nuovi strumenti rischiano di portare confusione e di favorire soluzioni illusorie. Buone per la ‘società dello spettacolo', ma lontane alla capacità di incidere sui reali meccanismi del potere e sul reale funzionamento delle organizzazioni. Comunque la si giri il ‘bilancio sociale' resta uno strumento di secondo livello, una riorganizzazione di informazioni costruita innanzitutto in funzione della facilità di lettura e dell'efficacia comunicativa. E', al limite, una forma di advertising non tradizionale, vale quanto una sponsorizzazione sportiva o una televendita, o una donazione. Visto che è anche una impalcatura costosa, esistono alternative? Garantisce rispetto allo scopo primario, mettere in luce l'atteggiamento etico dell'organizzazione? Non offre magari dei pericolosi alibi?

Il buon vecchio ‘bilancio d'esercizio'

Il problema non sta negli strumenti, perché forse gli strumenti esistono già. Il ‘bilancio sociale' si propone come documento di sintesi, documento che riepiloga i dati più significativi emersi dalla gestione, e che permette di misurare lo scostamento tra l'effettiva gestione e la ‘buona gestione'. Si cerca di affermare il ‘bilancio sociale' come strumento adatto per ogni persona giuridica, aziende a scopo di lucro, organizzazioni non profit, enti pubblici, lo stesso Stato. Pensate ora a quello strumento di rilevazione che è il bilancio di esercizio. Uno strumento criticabile

fin che si vuole. Ma in grado di offrire una sintesi, di riepilogare i dati più significativi emersi dalla gestione, utile per misurare lo scostamento tra l'effettiva gestione e la ‘buona gestione'

E in uso da cinquecento anni, adottato in tutto il mondo, regolato da norme, in grado di permettere confronti. Da sempre pensato per guardare agli interessi di tutte le figure sociali che oggi, con forse inutile nuovismo, chiamiamo gli stakeholder: i dipendenti, i fornitori, i clienti, i finanziatori, il pubblico in generale.

Perché allora, invece di inventare un nuovo strumento, perché –se si cerca uno strumento in grado di valutare l'etica di una organizzazione– non lavorare a migliorare il ‘bilancio di esercizio'?

Certo il bilancio non dice tutto – ma allora, invece di ragionare attorno ad altri, nuovi fumosi strumenti –come questo inutile ‘bilancio sociale'– andiamo al cuore della questione, e diciamo: il bilancio, quello tradizionale, che bene o male funziona, ha una lacuna: non riesce a esplicitare in modo chiaro gli asset intangibili.

Intangibles ed etica

I brand, gli investimenti in ricerca e sviluppo, le conoscenze detenute da dipendenti e

collaboratori, la fidelizzazione dei clienti: lì sta il valore di un'organizzazione, il valore di lungo periodo. La mia impresa vale per quanto ha investito in risultati futuri. Questo conta molto di più dei risultati a breve, trimestrali o annuali.

C'è dunque uno stretto legame tra Intagibles ed etica. Da un punto di vista etico, a ben guardare le cose, il valore sta più negli asset intangibili che in quelli tangibili. Il valore –più e prima che nei muri, negli impianti, negli oggetti materiali, in ciò che produciamo oggi– sta nelle conoscenze, negli atteggiamenti, nel nostro orientamento verso il futuro.

Un brand così come le conoscenze dei miei collaboratori valgono anche se non sono state ancora concretizzate in una cosa vendibile. Eppure, siccome siamo abituati a rilevare il valore dalle transazioni, dallo scambio di un prodotto o servizio con un controvalore in denaro, quanto valgono le conoscenze, gli atteggiamenti, i progetti, i brand, nessuno leggendo un bilancio può vederlo. Siamo schiavi del paradosso: posso contabilmente portare a valore la mia ricchezza solo se la alieno: il brand e le conoscenze sono visibili solo se e quando sono vendute sul mercato.

Limiti dei sistemi contabili fanno sì che per trarre profitto da ciò che è la fonte della ricchezza, fanno sì che sia costretto ad alienare questa ricchezza.

È qui che gli strumenti contabili consueti mostrano la corda. Lasciamo dunque perdere inutili ‘bilanci sociali' –che non fanno altro che riclassificare informazioni contenute nel bilancio di esercizio– e preoccupiamoci di affrontare questo punto chiave: gli asset intangibili valgono, e sono il fondamento dell'atteggiamento etico di una organizzazione, eppure le modalità di rilevazione del valore che siamo abituati ad usare –contabilità, bilancio– non sono in grado di mostrarne il valore.

È dunque vero che c'è bisogno di nuovi standard. Ma ben più importante della definizione degli standard di secondo livello tipici del ‘bilancio sociale' è l'individuazione di parametri attraverso i quali portare alla luce, e a valore, e cioè dentro il bilancio di esercizio, gli asset intangibili.

Menti acute stanno lavorando su questi temi. Penso per esempio al lavoro di Baruch Lev e Aswath Damodaran (New York University - Leonard N. Stern School of Business).

Limiti degli strumenti, o vantaggio etico della trasparenza

Non facciamo dunque l'apologia del ‘bilancio d'esercizio'. Nelle pieghe del bilancio di esercizio si può nascondere l'omissione e l'inganno. Ma altrettanto può accadere, con più facilità, con il bilancio sociale. E certo, il bilancio di esercizio è difficile da leggere. Allora, piuttosto che costruire un nuovo strumento, ugualmente non facile da leggere, non sarebbe meglio lavorare per diffondere tra i dipendenti, i fornitori, i clienti, i finanziatori, il pubblico in generale la capacità di leggere veramente il bilancio di esercizio?

La prima verifica della qualità etica di una organizzazione sta, probabilmente, nella trasparenza e nella ricchezza dell'informazione che la riguarda. Ora, credo che la trasparenza stia molto più nel redigere un bilancio di esercizio veramente completo e leggibile che nel redigere, oltre al bilancio di esercizio (considerato una fastidiosa necessità), un bilancio sociale nel quale ci si racconta come ci pare, confrontandoci con parametri scelti da noi stessi, spesso generici e fumosi e scarsamente vincolanti.

Il problema non sta negli strumenti, e –in fondo– nessun nuovo strumento è necessario; questo vale anche per quel che riguarda i Codici di comportamento e le Carte dei valori. Sentirsi dire –come si legge nel Codice etico di una grande impresa italiana: un esempio a caso– che l'organizzazione pubblica o privata, orientata o no al profitto “ si ispira alla tutela dei diritti umani, del lavoro, della sicurezza, dell'ambiente, nonché al sistema di valori e principi in materia di trasparenza e probità, efficienza energetica, sviluppo sostenibile, così come affermati dalle Istituzioni e dalle Convenzioni Internazionali” è acqua fresca.

Ogni organizzazione possiede un proprio apparato di normative e procedure. Non servono nuovi documenti chiamati in modo nuovo. Servono, semplicemente, norme e procedure il più possibile chiari, comprensibili. Orientati a parlare di noi, a far sapere. Non a nascondere o a abbellire.

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