BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 21/11/2005

DIRIGERE: ORIENTAMENTO AL BUSINESS E SINCERO INTERESSE PER LE PERSONE

di Lauro Venturi

Lauro Venturi è autore dell’Educazione sentimentale del manager, un libro costruito in modo poco consueto. L’autore rilegge oggi, adulto e manager, il diario scritto da ragazzo, tra il 6 settembre 1972, ore 19, e il 26 febbraio 1978, ore 22.

Al diario è giustapposta una intervista, nella quale Venturi parla di come, senza dimenticare il ragazzo che era allora, è oggi un manager. Proponiamo qui un breve stralcio dell’intervista.

F.V.

Il ruolo di cui qui vogliamo parlare è quello del manager, del dirigente, di una persona che deveorganizzare e gestire le risorse in funzione di uno scopo. Potrestiprovare a dare tu una definizione? Dire come interpreti tu questo ruolo e come lo vivi.

 

Manager è una parola che a me non piace tanto, preferisco la parola dirigente. Soprattutto negli anni passati è stata associata troppo a simbolo di status, chi era manager faceva parte di un’altra casta, di una categoria privilegiata. Però credo che possa essere usata perché è nel linguaggio comune. L’idea mia del manager o del dirigente è prevalentemente quella del servizio: nella mia testa uno che fa il manager o il dirigente è a servizio di qualcuno. Ha anche grandi vantaggi, perché può determinare situazioni o orientarle. Una delle cose che mi piace molto è che se ti viene in mente un’idea, da una posizione di comando hai molte più probabilità di realizzarla. Ma il concetto forte è quello del servizio.

Tu sei al servizio di una serie di attori e la tua qualità è quella di fare in modo che ruoli apparentemente contraddittori, anche conflittuali, possano alla fine convergere su obiettivi comuni. Il consiglio di amministrazione è, per un manager o un dirigente, un interlocutore fondamentale, primario. Ma lo sono anche le persone che lavorano all’interno dell'azienda, i clienti e ifornitori.

Sto notando, in questi ultimi anni, che si rischia una visione spezzettata dell’azienda: in CdA si guardano solo alcuni parametri, quando si parla di risorse umane, se ne guardano solo alcuni altri, e così via. Invece il manager deve essere al servizio di un progetto comune, che è l’azienda nella quale tutti questi attori fanno comunque parte di un unico copione.

Non c’è una sorta di buonismo, di genericità, o di rispetto di un modello dovuto, nel dire che il manager “è al servizio”? Forse dovremmo essere più precisi e pragmatici, dire innanzitutto che il manager deve operare nell’interesse di chi porta il capitale, di chi detiene la quota di comando dell’azienda, di un padrone, o all’opposto magari del proprio interesse personale…

“Al servizio” denota sicuramente un certo punto di vista, non so se sia buonismo. Però io non credo di cascare in quella trappola. C’è invece, sicuramente, un riferimento ad un sistema di valori. Mi è chiaro il livello gerarchico, però fare bene l’interesse di chi porta il capitalevuole anche dire avere relazioni con i fornitori, i clienti, i dipendenti, tali da portare valore all’azienda.

A me sta bene che si possa gestire l’azienda con del buonismo, se con questosi intende rispetto delle persone, chiedere alle persone quello che possono dare. Detto in altre parole: dal conflitto fine a se stesso, secondo me, non esce assolutamente una buona gestione, quindi se il buonismo è l’opposto della grinta gratuita, del cinismo, dell’umiliare e fregare gli altri, preferisco essere buonista. Non vedo contraddizione in questi due aspetti.

Io non sono un buonista, nel senso che non credo alla gestione democratica di un'azienda. Interpreto il mio ruolo in una maniera molto determinata, utilizzando non solo l’autorevolezza ma anche l’autorità. Questo è già un antidoto contro un buonismo fine a se stesso, per cui dico che sicuramente un manager che fa del buonismo la sua arma principale sbaglia.

Un manager che utilizza la competenza e la visione unitaria dell’impresa vince, e se riesce a farlo motivando le persone, creando un clima buono, molto meglio. Per far questo un po’ buoni bisogna esserlo.

In questo momento, per quanto si sente raccontare, o per quanto si vede frequentando aziende diverse, si nota questa cosa: nelle organizzazioni si vive male. C’è angoscia, c’è disorganizzazione, c’è carenza di fiducia, ci sono persone che vorrebbero fare di più ma non riescono a farlo nel contesto in cui si trovano ad operare. Come fai tu per far sì che nell’organizzazione in cui lavori, questo non succeda?

Ho sempre fatto il manager in strutture in cui c’era un azionariato estremamente diffuso, molto simili a public company. La prima cosa è smantellare fin dall’inizio il concetto della gestione democratica, della finta democraticità.

I ruoli sono chiari nella gerarchia, quindi una struttura organizzativa chiara non è solo un fatto di ingegneria fine a se stessa, ma permette alle persone di definire quali sono gli ambiti di intervento e permette anche di dire che ci sono dei livelli diversi di responsabilità. Questo l’ho trovato potentissimo, perché dà chiarezza, non c’è strumentalità. Una buona struttura organizzativa non lascia spazio alle strumentalizzazioni, al paternalismo.

Un’altra cosa fondamentale è dare un obiettivo molto sfidante: la gente deve sapere che se ti segue, se fa parte del tuo obiettivo, se lavora con te,corre anche dei rischi, però può arrivare a obiettivi molto importanti. Questo senso di straordinarietà dell’obiettivo è fondamentale. Un manager grigio, che si limiti alla gestione giorno per giorno in maniera abbastanza piatta, credo che crei nell’azienda un clima, se non brutto, molto noioso. Il progetto che tu proponi non deve essere noioso, ma molto molto sfidante.

Un altro elemento fondamentale è avere un monitoraggio preciso del sistema di competenze installato in azienda, perché questo permette due cose. Innanzitutto di evitare di dare incarichi a persone che non hanno la strumentazione sufficiente, e questo le fa vivere male: possono essere prese da buona volontà e impegnarsi, però alla fine si sentono inadeguate. Invece, bisogna sapere bene qual è il sistema di competenze per potere dare a tutti la possibilità, l’anno dopo, di fare cose più difficili e più prestigiose di quelle che hanno fatto l’anno prima.

Per esempio, in azienda investiamo molto in formazione. La formazione da noi ha due caratteristiche importantissime: è estesa, cioè coinvolge praticamente tutti i dipendenti, ed è profonda, non è un benefito un semplice “contentino”, ma serve per irrobustirele competenze necessarie per raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati. Infine c’è anche un interesse sincero per le persone, che oltre ad un buon ambiente ed un’adeguata retribuzione hanno chiaro che la sicurezza del posto di lavoro viene da quello che sanno fare.

Ho vissuto un’esperienza di ristrutturazione e riposizionamento aziendale veramente dura, l’esperienza più dura che ho fatto nella mia vita professionale. E lì è stato vincente chiarire i ruoli. Ero l’amministratore delegato e lo volevo fare fino in fondo, anche se i problemi riguardavano la tecnologia informatica, di cui allora non capivo niente. E’ stato importante definire la “vision”, chiamiamola come ci pare, ma insomma un quadro credibile, e soprattutto entusiasmante ed avvincente, di dove volevo portare l’azienda. Bisogna dirlo prima alle persone dove si vuole andare, cosa si vuole fare, poi metterle in grado di farlo con i sistemi di competenza giusti. Può sembrare quasi un ossimoro, ma non lo è: bisogna tenere insieme una grande disciplina con un grande coinvolgimento. E’ questa la sintesi, secondo me. (…)

Stai raccontando il tuo modo di fare il dirigente, ed è un racconto rivolto anche ad altri dirigenti o a persone che lo diventeranno. E’ interessante vedere come la tua esperienza può essere utile per altri. Tu dici che l’etica nasce dai comportamenti, dal vissuto e non dalle costruzioni astratte.

Questo però ci porta a chiederci,siccome ognuno ha una sua storia,ognuno ha una sua etica, che cosa è generalizzabile? Si può arrivare a stabilire qualche principio di base che tutti i manager, i dirigenti, dovrebbero rispettare, oppure tutto si riassume nel dire “ognuno deve essere fedele alla propria persona, alla propria storia, alle proprie radici”?

Questa tua osservazione mi fa venire in mente alcune questioni. La prima è questa: io non credo che uno possa essere un buon imprenditore, vincere la battaglia sul mercato, non inquinare, pagare tutte le tasse, trattare bene i dipendenti, facendo spontaneamente tutte queste cose insieme: non ce la fa. C’è bisogno di un sistema sociale intorno che fissi questi paletti.

Faccio un esempio, un po’ tragico: se qualcuno fa del male a mio figlio, io individualmente posso sentirmi legittimato a vendicarmi e ad ammazzarlo. Ma quando dal piano individuale passo a quello collettivo, allora no, ci deve essere una legge che dice che non si può fare.

Io non credo che si possano fare codici etici per i manager, non credo sia un problema che si possa normare. Credo però che occorra un confine esterno, legislativo, di orientamento. Ad esempio, il fatto che si depenalizzi il falso in bilancio non aiuta i manager ad applicare una gestione dei conti corretta, per cui gli azionisti possano sapere cosa valgono davvero le imprese.

Faccio questo esempio perché credo sia un aspetto di tipo “culturale”. Conta di più che i manager dibattano su questo tema, piuttosto che qualcuno da fuori faccia un codice, perché poi, a sua volta, il codice va interpretato. Ognuno deve far riferimento alla sua etica, non c’è dubbio, ci mancherebbe anche che pensassimo che ce n’è una sola per tutti, questo mi spaventerebbe.

Penso che ognuno debba fare riferimento a sé stesso, su questi temi, ma poi ci debba essere un sistema esterno che va a vedere quando questi atteggiamenti e comportamenti tracimano. E quando tracimano? Quando fanno un danno agli altri.

Sicuramente il buon manager deve avere il suo sistema di valori a cui far riferimento. Non punto il dito contro un manager che deve ottenere una certa commessa e va a dare delle bustarelle, però io non lo farei. E non lo farei non perché sono buono, ma perché il prezzo che poi pagherei su me stesso, per la distonia fra quello che ho fatto e quello che dentro penso sia giusto fare,è troppo alto ed è più alto di unostipendio, di un’auto aziendale, ed è più alto delle libertà che ho. Quindi alla fin fine, mi faccio guidare dal mio benessere. Nel mio bilancio di benessere è meglio rinunciare a delle opportunità professionali che mi chiedono comportamenti che non condivido, piuttosto che il contrario. (…)


Lauro Venturi, L’educazione sentimentale del manager. Il valore delle radici, Prefazione di Claudio Lolli, Guerini e Associati, 2005.

Il libro è presentato lunedì 28 novembre alle ore 21, alla Casa della Cultura, Via Borgogna, 3, Milano. Con l’autore converseranno Mario Agostinelli, Gianfranco Dioguardi, Francesco Varanini.

Intervista raccolta da Francesco Varanini nel maggio 2005 a casa dell’autore, in collina, tra Vignola e Castelvetro di Modena.

 

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