BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 26/11/2007


RISORSE UMANE E NON UMANE: LA DIREZIONE DEL PERSONALE SALVATA DALLE TECNOLOGIE?: Milano 26 Ottobre 2007 - Edizioni Este e Persone & Conoscenze

di Lauro Venturi  

Ho partecipato a questo convegno con vero piacere. Intanto perché era pensato e coordinato da Francesco Varanini, con il quale il sodalizio professionale e non solo si rafforza ogni giorno. E poi perché credo che ragionare sulle persone e la loro relazione con il lavoro sia sempre una cosa utile.
Mi è piaciuto il format del confronto vero e non dell’esposizione scoordinata di tanti interventi autocentranti, come purtroppo sovente capita in occasioni come queste. È stato anche bello rivedere volti noti e conoscerne di nuovi. Insomma, una bella giornata.
Quelle che seguono sono riflessioni scritte alcuni giorni dopo, ricordandomi a grandi linee l’intervento a braccio che ho fatto al convegno e le risposte alle domande del pubblico.

Ho iniziato con un educato “Benvenute e benvenuti” per poi comunicare di essermi alzato alle cinque e di avere fatto tre ore di autostrada sotto la pioggia, prima accompagnato dai camion e poi avvolto dal traffico cittadino. “Sono quindi nella situazione giusta per parlare di risorse umane. Infatti, molto spesso c’è un forte scostamento tra quello che diciamo sulle persone durante i convegni o negli articoli che scriviamo”.
Ho parlato e scritto di lavoro come leva per il benessere personale e che il lavoro felice non necessariamente è un ossimoro.
Però ci pensa mia nipote, trentenne e ad alto potenziale, ovviamente precaria, a farmi ragionare anche su un altro aspetto. Ogni tanto mi manda qualche mail con un commento sarcastico. In una di queste veniva riportato un sondaggio del motore di ricerca Monster. Alla domanda “Vacanze finite, si torna al lavoro. La cosa migliore da fare è…” il 70% ha risposto: “Cercarsi un nuovo lavoro”.
Una recente indagine su 10.000 lavoratori condotta da Ipsos per Accor Services ha evidenziato che i dipendenti italiani sono quelli che si sentono più a disagio sul lavoro in tutta Europa, confermando che la metà vorrebbe solo fare una cosa: cambiare posto prima possibile.
Il 44% degli Italiani è infatti insoddisfatto delle proprie condizioni di lavoro, nella classifica europea dei paesi in cui si lavora meglio l'Italia si piazza solo al penultimo posto, peggio solo la Turchia. Il 66% dei lavoratori italiani ha detto che il lavoro è soltanto routine e fonte di sicurezza, se non perfino una vera e propria costrizione (11%). Solo l'8% dichiara che la sua occupazione è motivo di orgoglio o piacere, contro il 21% dei Francesi o il 20% dei Belgi (1) .
Questi segnali non sono da sottovalutare, insieme ad una forte perdita di speranza che pare coinvolgere i giovani in tema di lavoro.

Contro questa situazione la mia esperienza è che un capo si debba sforzare ogni giorno per fare convivere un forte orientamento al business, che è essenziale per il successo di un’azienda, con un sincero interesse per le persone. Sì, sincero interesse, prima ancora di una buona ingegneria sulle risorse umane: posizioni, prestazioni, potenziale, empowerment, compensation, recruitment…
Solo se le persone sentono che a loro siamo sinceramente interessate investiranno sul lavoro, non sono risorse, sono esseri umani. Con le persone non bisogna solamente intendersi, ma anche comprendersi, altrimenti si registrano atteggiamenti di ricerca del capro espiatorio, solitudine, analfabetismo emotivo e autismo sociale.
Quindi, i capi devono studiare per acquisire competenze nella relazione con le persone così come studiano il marketing, la finanza, la logistica. E non per un approccio filantropico, anche se trattare bene le persone mica guasta, ma perché nell’economia della conoscenza ci servono persone motivate e non passivi esecutori.
In questo senso gli HR manager, o meglio i direttori del personale, non possono essere i soli detentori di competenze specifiche nei confronti delle risorse umane. No, devono essere dei veri e propri coach per i responsabili di linea, perchè è lì che le persone incontrano il lavoro vero, l’azienda.

Da diversi anni si dice che nell’economia della conoscenza i knowledge workers devono diventare imprenditori di sé stessi. Quindi titolari di una ditta individuale. Ho una forte competenza sulle PMI e posso dire che, a fianco di straordinarie qualità, c’è anche da registrare una seria difficoltà di queste strutture a fare sistema, di lavorare in rete e in filiera per acquisire un maggiore vantaggio competitivo che può essere compromesso dalle dimensioni così limitate. Occorre quindi che questi imprenditori di sé stessi convergano in una specie di holding per garantire il raggiungimento di obiettivi comuni.
Pochi giorni fa ho ascoltato Michael Eisner, CEO di The Walt Disney Company dal 1984 al 2005 e, prima, in Paramount. Ci ha fatto vedere uno spezzone de “Il Re Leone” nel quale una delle canzoni della colonna sonora era cantata in perfetta sincronia in diverse lingue: italiano, inglese, filippino, norvegese, spagnolo, tedesco, coreano…Non ci si accorgeva neanche del salto da una lingua all’altra. Anche gli imprenditori di sé stessi devono fare parte di un coro che abbia la stessa sintonia, solo così si produce una sonorità gradevole che, in termine di business, significa buone performances sostenibili nel tempo.

Venendo alla relazione tra le persone e le tecnologie, a mio parere abbiamo due livelli: il primo attiene a tecnologie per il social networking, il secondo per quelle utili a coordinare le persone con i processi core dell’azienda.
Le tecnologie di social networking sono utili perchè, da una recente indagine sulla intelligenza emotiva, le persone ritengono che le aziende utilizzino le loro capacità e competenze complessive solamente per il trenta per cento. Sarà pur vero che sappiamo di non sapere, ma è altrettanto vero che rischiamo di non sapere ciò che le persone sanno e che potrebbero mettere a disposizione. Le tecnologie di networking fanno emergere le competenze implicite e quelle ancillari delle persone che lavorano nella nostra azienda.
Le tecnologie di processo servono invece per ottimizzare l’allocazione delle persone sulle attività quotidiane. Abbiamo costruito una piattaforma web (Regolo HR) nella quale sono mappati tutti i processi aziendali. I programmi di lavoro annuali vengono esplosi su questi processi ed in trasparenza ognuno sa su cosa deve lavorare e su cosa stanno lavorando gli altri. Ovviamente il piano annuale viene tradotto in piani più dettagliati che presidiano anche le inevitabili varianze. Si fa la programmazione della produzione proprio perché si sa che non verrà rispettata (vedi imprevisti, richieste nuove dei clienti…) e quindi il programma diventa una linea guida per assorbire con il minor impatto questi imprevisti. Questo lavoro permette di confrontare le attività preventivate e quelle a consuntivo, alimenta il segna ore e costruisce un indispensabile input per il controllo di gestione. La piattaforma contiene anche la gestione del pay roll, delle ferie e dei permessi, del piano formativo e delle decisioni organizzative. Un’apposita sezione è dedicata alla comunicazioni e alle informazioni, attraverso formali comunicati o semplici news.
Certo è che le tecnologie, se non inquadrate in una politica della gestione delle persone che permetta la convivenza tra l’orientamento al business e un sincero interesse allo sviluppo di chi lavora in azienda, non possono produrre nessun risultato rilevante.

Durante il dibattito mi è stato chiesto un contributo su queste questioni:

  1. la relazione tra chi si occupa di sistemi informativi e la direzione del personale
  2. cosa significa il lavoro felice.

Durante il convegno si è sviluppato un interessante confronto tra direttori del personale, direttori dei sistemi informativi e vendor di tecnologie. Il filo conduttore a mio parere era la difficoltà di comunicazione tra le diverse realtà.
Credo che solamente la contaminazione sia efficace, l’informatico deve acquisire un vocabolario lessicale e concettuale sul mondo del business e il direttore del personale deve fare la stessa cosa sul mondo informatico. Quando sette anni e mezzo fa sono diventato Amministratore delegato di Siaer (società che produce software e gestisce sistemi e reti) non sapevo nulla di informatica ma ho imparato le cose necessarie per governare quel business.
Poiché da più parti si denunciava che le soluzioni informatiche sono difficili da utilizzare e da comprendere, ho riferito di un mio collaboratore che quando gli ho parlato la prima volta mi disse di essere un motorista. Cioè un informatico puro, che lavorava sul motore di calcolo del software paghe che vi assicuro è molto complesso. Bè, per questo mio collaboratore imparare il linguaggio del business, dal controllo di gestione alle relazioni con i clienti, dalla gestione del personale alla comunicazione interpersonale, non è stato meno difficoltoso che per un direttore del personale imparare ad utilizzare un software.
Rispetto poi al fatto che chi produce software abbia offerte rigide nei confronti dei clienti, ho ricordato che anche noi a valle abbiamo i vendor (vedi carrier per le reti, fornitori di sistemi, storage…) ed a valle dei clienti. È perciò preferibile ragionare di più sulla catena del valore complessiva dello specifico business e meno per comparti stagni.

Sul lavoro felice, una persona dal pubblico ha fatto un intervento stizzito, più con la comunicazione non verbale che per il contenuto. Però sappiamo che il primo predomina sul secondo…
In poche parole, per lui pensare di portare la felicità in azienda è un’idiozia. Non ha detto proprio così, ma il succo era quello. Il coordinatore della tavola rotonda ha chiesto a me di rispondere.
La mia opinione è che il lavoro felice non significa mettersi il naso di plastica rosso o suonare le trombette, ma ascoltare le persone e sforzarsi di conciliare le esigenze aziendali con le aspirazioni personali. Non deve sfuggire che aumentano i disagi nel posto di lavoro, che la  vendita degli psicofarmaci è in continuo aumento e che aggressività e depressione sono sempre più presenti nei luoghi di lavoro.
Dietro a questa sintesi ci sta la mia convinzione che alle persone chiediamo di fare più cose, di farle più in fretta e con ambiti superiori di incertezza. Ciò produce fatica, stress ed ansia per poter reggere all’ipercompetizione.  Occorre compensare questa situazione con un buon ambiente di lavoro nel quale, oltre ad uno stipendio adeguato, ci sia la possibilità di imparare continuamente cose nuove e di essere valutati in modo chiaro. Troppo spesso si predica che le persone, nell’economia della conoscenza, sono la risorsa più importante e poi a loro si dedica un decimo del tempo riservato alla valutazione di una nuova tecnologia o di un nuovo segmento di mercato. Per quanto mi riguarda ho studiato e continuo a studiare per migliorare le mie competenze nella gestione e nello sviluppo delle persone. Ho completato nel 2006 la scuola triennale di counseling ad indirizzo analitico transazionale  ed a fine anno terminerò quella di coaching (che utilizza principalmente le modalità relative all’intelligenza emotiva).
Ascoltando quel signore che contestava la possibilità di una felicità, seppur parziale, nei posti di lavoro pensavo a Primo Levi che, pur essendo passato da Auschwitz, fa dire a Tonino Faussone, operaio protagonista de La chiave a stella: “Se si escludono istanti prodigiosi [...] che il destino ci può donare, amare il proprio lavoro  costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra.”
In verità mi è venuto in mente anche Freud che ne "Il disagio della civiltà" scrisse: “…nessuna meraviglia se, sotto la pressione di queste possibilità di soffrire, gli uomini vogliono ridurre la loro pretesa di felicità… nessuna meraviglia se ci riteniamo felici per il solo fatto di scampare all'infelicità, di sopportare la sofferenza, se, nel senso più generale, il compito di evitare il dolore relega nello sfondo quello di procurarsi piacere".
Nessuna meraviglia, ma anche nessuna scusa se non utilizziamo le nostre risorse personali per costruirci, seppur in modo imperfetto e altalenante, un mosaico nel quale affetti e lavoro, impegno e riposo si incastrano, anche se alla bell’e meglio, in un quadro complessivamente bello e piacevole.

Al termine dei lavoro molte persone sono venute a complimentarsi per le parole dette e ho sentito apprezzamenti sinceri. Così mi sono potuto godere appieno quelle “carezze”.
Lo so anche io che lavorare stanca e che ci sono tante situazioni nelle quali il lavoro non è certo un ambito felice. Per questo sto terminando un romanzo dal titolo provvisorio: Mobbing Dick, quando il lavoro diventa un inferno. Parla delle situazioni negative che capi arroganti e incompetenti creano, danneggiando persone e aziende. La storia di un manager di una multinazionale farmaceutica si dipana attraverso il G8 2001, la cattura di Totò Riina e le vessazioni subite dal capitano Ultimo, alcuni episodi della Resistenza.
I capi arroganti e incompetenti hanno l’enorme  responsabilità di fare disinnamorare le persone del lavoro, che di per sé non è sempre automaticamente un piacere. Chi assiste passivo, o peggio compiaciuto e complice, alle situazioni di prevaricazione, umiliazione e svalorizzazione gratuita non è meno responsabile.
Attribuire le responsabilità di queste ingiustizie, di tutte le ingiustizie, al “sistema” è però sempre irresponsabile.


1 - La ricerca "Barometro 2007 – Benessere e qualità della vita sul luogo di lavoro" ha rilevato anche che il 67% degli Italiani si dicono insoddisfatti della retribuzione, il 78% lo sono anche dei benefit che l'azienda offre. Altro terreno pericoloso per gli Italiani è il rapporto tra vita privata e vita lavorativa: il 46% dei nostri concittadini si dicono insoddisfatti. Tra i più scontenti su questo tema solo i Turchi (50%), mentre quelli che sembrano cavarsela meglio sono Belgi (76%), Slovacchi (74%), Francesi (65%) e Spagnoli (60%). Il risultato di questo malcontento generale è che in Italia tutti vorrebbero tagliare la corda, ma hanno a che fare con un mercato del lavoro che punisce la mobilità.

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