BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 15/09/2008


LE NUVOLE NON SONO IL CIELO. OVVERO: PERCHE' HO SCRITTO QUESTO ROMANZO (1)

di Lauro Venturi

Mission: robuste radici di un albero
Il titolo originale che avevo pensato era Mobbing Dick. Mi piaceva perché il protagonista era un inglese di nome Richard e perché dick è anche un termine che ben definisce la brutta abitudine di maltrattare le persone che non la pensano come noi. Poi un editor mi ha fatto capire che io scrivo come un italiano, non come un inglese. Poi ho pensato che intorno al mobbing c’è ancora troppa prudenza, si oscilla tra l’esagerazione del fenomeno e la totale sottovalutazione. Recentemente, parlando dei 'fannulloni' che esistono anche nelle aziende private, diversi imprenditori hanno detto senza mezzi termini che spesso il mobbing è una scusa adottata dai dipendenti per controbattere ai richiami del datore di lavoro. Vengo dalla campagna e so che il buon senso fa sì che la verità stia molto spesso in mezzo. Ma non volevo fare un saggio sul mobbing, così ho cambiato titolo. Però ho lasciato il protagonista a lavorare a Londra!

Lavorare insieme per uno scopo comune
Lavorare insieme per uno scopo comune è un tratto che contraddistingue Riccardo. Il romanzo offre diversi spaccati di vita aziendale, che vanno dalla fatica della ristrutturazione alla gioia di ridefinire il proprio modello di business per dare nuova continuità all’azienda, dal ferreo orientamento al business ad un sincero interesse per le persone.
Il protagonista vuole bene alle persone del suo team, non che gli sia amico, è e rimane il loro capo.
Ma sa che solo se accolte e valorizzate le persone danno il meglio di sé, mettono a disposizione le loro competenze implicite: e qui il romanzo utilizza un cuoco ed un meccanico di motorini per pennellare quelle competenze così importanti.
Per Riccardo la visione aziendale è una molla, un sogno vestito di possibilità, una speranza spinta dalla volontà. La mission sono robuste radici di un albero, tradizione che si rinnova: una colla. 
Cose concrete, come in fondo è lui, pur permettendosi ancora il lusso di sognare. Mica le balle scritte nei bilanci sociali o nei documenti di Corporate Social Responsibility: “La nostra azienda, per altro, si fregiava di possedere un avanzatissimo codice etico ed una carta dei valori che, alla luce dei comportamenti, valevano meno della carta igienica, usata per giunta”dice il protagonista di fronte all’ennesima frattura tra il dire e il fare.

Viaggio pericoloso
Ma le regole aziendali mica sempre hanno queste coloriture.
Poco tempo fa un mio caro amico mi ha chiamato a parlare de L’educazione sentimentale del manager (2) a un folto gruppo di suoi collaboratori che avevano terminato un master. Dopo cena, in una bellissima villa sui colli romani, diverse persone mi si sono avvicinate per complimentarsi ma anche per farmi notare che la mia idea del lavoro e del modo di dirigere non è molto diffusa in azienda. Non ho statistiche precise in merito, so però per convinzione ed esperienza personale, che se proponi obiettivi sfidanti e sei credibile, bè, le persone ti seguono.

Fare il capo, o essere il capo
Fare (essere?) il capo richiede una robusta qualità personale e un ampio spettro di competenze. Se mancano questi due elementi, allora il potere viene male interpretato.
Girrot, l’amministratore delegato di Riccardo, è una persona un po' strana, basso di statura, molto robusto, due occhi piccoli piccoli e mani grassocce. I capelli, folti e neri neri, con un’attaccatura bassa, gli conferiscono un’aria truce. Spesso si mette una mano sopra agli occhi o vicino all’orecchio, come se vedere e sentire fosse per lui uno sforzo immane. Le sopracciglia sono aggrottate e piccolissime rughe gli contornano gli occhi. Quando parla gli escono dei suoni attutiti, strozzati dalla tensione dei muscoli della gola. Con i pugni chiusi si sporge in avanti appoggiando le mani sulle ginocchia, assumendo una posizione curva. Non sta mai fermo, la gamba destra balla a tutto andare, al confronto un tanghèro è un paraplegico. Non riesce a concentrarsi per più di cinque minuti e parla in continuazione, rispondendo in modo irruento prima di ascoltare tutta la domanda. Non si accorge di dichiarare la totale assenza di ascolto ed interesse per quello che l’altro sta dicendo. Ogni tanto prova a fare lo spiritoso, ma mica gli viene bene: i suoi sorrisi assomigliano più a un ghigno che a un’espressione di soddisfazione. Nelle riunioni di direzione non c’è mai un ordine del giorno chiaro, il caos imperversa, si salta di palo in frasca con il risultato che si perde un sacco di tempo e tutti alla fine sono incazzati e frustrati. Sembra che per lui la fatica sia il fine, mette un’enorme energia senza finalizzare, lavora diciotto ore al giorno e si sente in colpa se va a casa prima, come se questo essere sempre fuori casa compensasse il non essere mai dentro di sé. Girrot si rifugia morbosamente nella visibilità esterna, come se quel successo di plastica fosse la garanzia che in fondo tutto va bene, una protesi per non sentire ciò che gli ribolle dentro.
A stargli vicino si vede che schiuma una gran rabbia, che ributta addosso agli altri. Dà l’impressione di una persona che ha di sé, intimamente, una visione negativa. Quando qualche suo piano non va in porto, e succede spesso,  sfodera delle giustificazioni all’insuccesso che sicuramente si era già preparato prima di partire nell’impresa: sono i fatti che devono adeguarsi alle sue idee, non viceversa! Trasmette un forte senso di frustrazione e fatica che mica tranquillizza i suoi collaboratori, anzi…
Girrot si era avvitato in un girone infernale, divideva e frammentava sempre per fermare un immaginario contro potere che era solo nella sua testa. Se il capo è umanamente e professionalmente di scarso spessore, allora è ancora più spaventato, se non angosciato, ed è facile che si rifugi nella sua fortezza di potere, utilizzi il commento malevolo oppure squallide miserie, come dire all’ultimo momento a qualcuno che ci sarebbe stata una riunione importante, così quel poveraccio non poteva essere presente. Girrot applicava una diabolica logica di dividere i suoi collaboratori per evitare che si coalizzassero contro di lui.

Carriere, o meglio: percorsi
Il problema è che di fronte a capi così, le persone dietro le quinte si lamentano e si sfogano, però poi tutto evapora e si ha il sospetto di essere di fronte a dei giani bifronti che si adattano, quando non applaudiscono.
Riccardo decide di prendere al volo l’occasione di seguire un nuovo progetto in Italia per sfuggire da quel brutto ambiente di lavoro. Ma, onestamente, anche per staccarsi da una relazione fiacca con la  moglie. Oddio, niente di drammatico, però non c’era più emozione, tutto si era tinto di consuetudine tenuta insieme solo dall’affetto per i figli.
Un amore senza presente, poggiato su un lungo passato, mediamente forte e robusto, pur interrotto da periodi di crisi più o meno dichiarati. I momenti di intimità odorano sempre più di stanchezza e di vuoto, l’amore fisico da tempo è faticoso, sia perché si fa tanto aspettare, sia perchè si amplificano, in quelle occasioni, le malinconie e le fatiche.
E che pena slalomare tra tutte le trappole che reciprocamente si  mettono, sia che si parli di lavoro che di vacanze, di come tinteggiare la casa o di quale quadro acquistare!
I mille inserti di affetto e di ricordo dolce per la moglie, le mille lacrime da piangere al pensiero di perdersi, le mille paure che non gli fanno dire che, indipendentemente dalla data formale del decesso, il loro amore è già finito,  tutto questo però non copre un amore perplesso che si sta consumando in lunghe costruzioni di assenze, un amore consumato fino all’osso, che lascia la stessa malinconia degli avanzi. 
Dall’Italia, Riccardo viene chiamato a ristrutturare un’azienda olandese del gruppo. All’inizio è durissima, gli viene il vomito a pensare di dover mettere mano a tutte le difficoltà, che in fondo sarebbero poi sono solo ostacoli da superare. Ma ci si mette il vecchio amministratore delegato di Londra a rendere tutto acido e complicato, finché finisce storta perché le cose di ferro sono diventate cose di carta bollata.
Come tutti gli abusi, anche quello da lavoro e da ingiustizie prima o poi presenta il conto ed a Riccardo Paoletti va giù la catena. Quell’imprevisto diventa l’occasione per riprendere in mano la propria vita e risalire con fatica verso un abisso senza fine, che si mangia tutto. Lo fa grazie ad uno psicoterapeuta competente ed accogliente, che lo aiuta a capire meglio cosa gli sia successo e perché le cose del lavoro debordino così facilmente su tutto il suo essere.
È un viaggio faticoso e doloroso, ma inevitabile, nel quale Riccardo recupera anche il ricordo di Alessandro Lenzi, il capo dello stabilimento italiano con il quale aveva instaurato un’ottima relazione.
Alessandro Lenzi è un manager di solidi valori, dovuti in larga parte ai suoi genitori. In particolare, suo padre è un vecchio partigiano che Riccardo conosce in una memorabile gita sull’Appennino tosco emiliano.

Seduto su una panchina
Il romanzo termina con il protagonista seduto su una panchina, a Capoliveri, per smaltire i diversi bicchieri bevuti con l’oste Nello. Riccardo sente finalmente di non avere più tempo di avere fretta. E’ stanco di anticipare sempre l’avvenire per affrettarne il corso, come se qualcuno, ansioso e non abbastanza caloroso e accudente, sin da neonato lo avesse inconsapevolmente spinto a crescere troppo in fretta perché non aveva più tempo di prendersi cura di lui.
C’è un forte vento che sa di aria e acqua e spinge le vele, i pensieri ed un’ostinata ultima nuvola. La sua mente, sfiancata da un’inquietudine pulsante, deve fermarsi per lasciare germogliare qualche cosa di nuovo, che lo faccia volare un po’ più in alto, e non starnazzare come un goffo tacchino. Quando un gabbiano si libra elegantemente in volo, pensa alle aquile. Molte potrebbero vivere quasi il doppio della loro età ma, stanche di portare penne infeltrite che rendono impossibile il volo, colpite dall’osteoporosi che rende becco ed artigli inservibili alla caccia, si lasciano morire. Una minima parte però non ci sta e si ritira in alta quota. Per diverso tempo queste aquile non mangiano, sino a che il loro becco si indebolisce e possono spaccarselo contro la roccia. Solo allora crescerà un becco nuovo e forte, con il quale distruggere gli artigli attaccati dall’osteoporosi. Anche questi ricresceranno e così l’aquila potrà spiumarsi, lasciando il posto a penne nuove e fresche. E potrà tornare a volare maestosa nei cieli.
“È proprio vero” dice tra se e se il protagonista, “sta a noi, anche nelle situazioni più disperate, darci da fare” . Solamente dopo il tramonto il sole potrà risalire, per permettere l’albeggiare di una nuova speranza, non garantita ma possibile. 

Perché ho scritto questo romanzo
Ho scritto questo romanzo prima di tutto per divertimento, ma non voglio sottacere una percentuale non maggioritaria di narcisismo che comunque c’è e che, se non eccessivo, è utile per fare il mio mestiere: purché l’ambizione non scollini in vanità.
Ho studiato Psicologia Sociale e frequentato qualificate scuole per diventare Counselor e Coach, strutturando una mia innata tendenza ad osservare le persone, ad immaginarne i pensieri in una curiosità mai fine a se stessa. Nello scrivere tutto questo trova un terreno ideale.
Il lavoro del manager è entusiasmante ma duro, stretto tra gli obiettivi pressanti della proprietà, gli umori del mercato e le aspettative dei collaboratori. Per fare fronte a tutto questo si è sottoposti a forti pressioni che si possono solo governare: pensare di evitarle è ridicolo. Il romanzo evidenzia come farsi aiutare sia un segno di forza, non di debolezza.
Anni fa scrissi un articolo: Lavoro felice: ossimoro o binomio realistico? (3) sostenendo che possiamo utilizzare le nostre risorse personali per costruirci, seppur in modo imperfetto e altalenante, un mosaico nel quale affetti e lavoro, impegno e riposo si incastrano in un quadro complessivamente bello e piacevole. Diverse persone, con garbo o con ruvidezza, mi hanno fatto notare che la maggior parte degli ambienti di lavoro non permette di lavorare in modo positivo e costruttivo. Allora ho cercato di allenare il mio occhio e le mie orecchie, ho parlato con diverse persone, ho riflettuto su mie esperienze personali, ho raccolto testimonianze di amici e persone che mi hanno fornito diversi spunti per il libro.

Tra fiction e autobiografia
Molti mi chiedono se sia un romanzo autobiografico: non è una risposta semplice. Se prendo a riferimento il critico letterario Philippe Lejeune, secondo il quale l’autobiografia è "il racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza, quando mette l'accento sulla sua vita individuale…”, in parte L’ultima nuvola può essere definito autobiografico, anche se nessun personaggio centrale è interamente riconducibile a qualcuno esistito veramente.
D’altronde, nulla si crea e nulla si distrugge, ci sono fatti, incontri, letture, film che mi hanno influenzato nello scrivere questo libro, che però rimane un romanzo compiuto e non la narrazione romanzata della mia vita.
Ammetto però di non comprendere il significato della domanda: perché ci si deve chiedere se un romanzo sia legato alla realtà? Non è meglio ricercare quanto significato c’è mentre lo leggiamo e quanto questo significato ci tocchi? In fondo il romanzo è un pretesto per il piacere di scrivere e, spero, di leggere.
Io mi sono divertito, per descrivere la casa del padre di Alessandro Lenzi, a girare l’Appennino fotografando diverse abitazioni, mi sono documentato con scrupolo sulle vicende inserite nella trama, pur senza alcuna velleità storico documentale: per fortuna ad un romanzo non è richiesta l’esattezza di un saggio né la perfezione di una poesia.
Dal punto di vista tecnico parto da uno spunto, poi inizio a scrivere e lascio che il pensiero faccia le deviazioni che vuole: non applico in questo caso il project management! Credo che la questione del G8 di Genova sia entrata nella trama dopo una trasmissione assurda che avevo seguito, non fino alla fine, in televisione.
C’è infine un lavoro più analitico da fare, per pulire, collegare, integrare, ridurre… È un esercizio doloroso, non si vorrebbe buttar via niente e nello stesso tempo non si vorrebbe mai mettere la parola 'fine', in attesa di una perfezione impossibile. Scrivere mi allena alla 'subottimalità' del fare, a quell’imperfezione che è preziosa nella vita quotidiana, se non diventa sciatteria.
C’è chi sostiene che un bravo scrittore – avendo a disposizione due aggettivi – ne utilizza solamente uno: io ne utilizzerei tre o quattro. Scrivere è un modo per spaziare con la fantasia, per far fiorire quell’irruenza di pensiero che nel lavoro e nella vita con gli altri va tenuta a freno. In fondo sono uno scrittore dilettante, che scrive per diletto.


1 - Oltre che in libreria, il romanzo L’ultima nuvola è disponibile su:  www.kimerik.it, nei principali book shop on line e può essere richiesto in contrassegno (lauro.venturi@virgilio.it), senza spese postali e con dedica dell’autore.

2 - Lauro Venturi, L'educazione sentimentale del manager, Guerini e Associati, collana Virus, 2005.

3- Persone & Conoscenze, n° 10/2005

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