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Pubblicato in data: 30/06/2008

IL CALDERONE DEL BENE E DEL MALE

di Amalia Vetromile

I vecchi detti popolari, le antiche frasi che risuonavano nelle cucine delle nonne, provengono forse da ritagli di ricordi di antiche saggezze, di antichi percorsi di iniziazione, processi alchemici che combinavano nello stesso pentolone fumante il bene e il male, per giungere – attraverso l’azione di catalizzazione della pietra filosofale – alla produzione dell’oro.
C’è una vecchia frase che si ripeteva nella mia famiglia, quando ero bambina: «Il Signore manda le prove e poi invia la forza per superarle!». Mi chiedo da quale sapienza antica provengano queste parole, che ad una lettura superficiale sembrano indulgere verso la santificazione della sofferenza. Nasconde invece la saggezza dell’accettazione della realtà, che spesso è foriera di nuovo senso e crescita personale.
A che serve resistere – dannarsi, disperarsi, non accettare – un dolore ineluttabile, la frattura di un arto o la sconfitta in una competizione, ad esempio, contro la cui evidente tangibile realtà non possiamo fare altro, a parte cercare una possibile soluzione, e trovare il modo migliore per vivere  qui ed ora la nostra vita appieno, convivendo con la ferita. Rimanere fermi nella propria disperazione è figlio della nostra rigidità, del volere a tutti i costi aggrapparsi ad una realtà che non può più essere. Inevitabilmente stiamo evolvendo verso uno stadio diverso. Quale progresso scientifico ci sarebbe mai stato, senza lo stupore creativo degli scienziati aperti ad osservare - con mente sgombra e non attaccata a preconcetti – un fenomeno non ancora noto né definito da alcuna equazione matematica?
La pazienza nel dolore apre le porte della gioia, è un processo creativo silenzioso che si fa strada nell’apparente immobilità stupita – quasi tramortita – che segue ad una perdita. L’intelligenza del corpo e/o quella del cuore, quando si consente loro di farsi ascoltare, sanno quanta pazienza serve a superare la prova e la utilizzano in silenzio, come seme sotto la terra, a far dischiudere nuovi fiori. Il bene e il male operano insieme nella nostra calma creativa del qui ed ora. E la pazienza, inspiegabilmente, meravigliosamente, giunge commensurata all’entità del dolore, quasi che il nostro corpo sappia già quanto tempo serve a recuperare le forze per un nuovo “salto quantico”.
Lasciare che il dolore faccia il suo percorso e rendersi disponibili ad una trasformazione significa anche vivere pienamente e con quanta più gioia possibile ogni momento della nostra vita, attingendo sempre ai segreti insegnamenti passati attraverso la parola di antichi genitori. Così, la frase religiosa che induceva ad accettare le sofferenze si accostava con leggerezza ad un’altra, che suggeriva di assaporare ogni momento della vita: «Ma tu quant’anne vuò campà (1)?» riportando alla memoria ricordi di passate generazioni nelle notte carnascialesche dei solstizi in cui tutto era permesso.
Ed ecco che dal calderone emerge l’oro della rinascita a nuovo giorno con nuova vita e occhi scintillanti, dove il bisogno lascia il posto al desiderio e la sana competizione abbandona il terreno del conflitto, potendo finalmente concedersi di abbracciare senza perdersi nella fusione con un'altra persona, concedendosi un sano «Chi song’io e chi sì tu! (2)» - ricordo di antichi “facciaffrunti” (3) – che non compromettevano l’amore.


1 - Detto napoletano:  “pensi di essere immortale? Quanti anni credi di vivere?”

2 - Alla lettera: “chi sono io e chi sei tu“

3 - “Faccia a faccia”. Famoso “facciaffrunto” è la scena delle ingiurie delle nella Gatta Cenerentola, nella messa in scena teatrale   di Roberto de Simone, e tratta  dall’omonima favola ne Lo cunto del li cunti di Basile.

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