BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 11/04/2005

PERCHE' IL LAVORO NON SIA UNA PICCOLA MORTE QUOTIDIANA

di Amalia Vetromile

Talvolta i bambini riservano risolini di scherno ai compagni di scuola che fanno uno scivolone, che sbagliano un verbo. Ricordo, come fosse oggi, la mia compagna delle elementari, capoclasse come me – lei perché era buona e obbediente (nel giudizio della maestra) io perché ero brava, la prima della classe, già polemica - : “signora maestra, questo è il regalo da parte delle bambine che sono povere, che non hanno una famiglia che possa permetterselo!”.Ricordo l’umiliazione delle bambine incluse nella benevolenza del suo regalo e la mia rabbia, le avrei dato volentieri un pugno sulla faccia angelica. E’ un modo per escludere il “diverso”, che minaccia la piatta tranquillità sociale. Investe le paure dei singoli, stimola e impaurisce le zone d’ombra che inevitabilmente albergano in ciascuno di noi. Investe, prima o poi, al lavoro, tra gli amici,tutti coloro che non si fermano ad una piattaforma di arrivo, che la considerano solo una piacevole sosta per riprendere l’esplorazione della vita.

Ballare sulle punte

La diversità, o meglio la curiosità del non noto, va trasformata nel sapido diavoletto che stimola l’esploratore, il viaggio nel mondo nuovo, sconosciuto, affascinante, insidioso e terrifico. Bisogna avere una solida confidenza con le proprie capacità e con le proprie radici per non sentirsi “diversi” e continuare a sorridere nel contesto sociale quotidiano, e andare a caccia di “cigni” come il brutto anatroccolo. I nostri simili, “diversi” anch’essi, ciascuno per le proprie curiosità, attitudini e propensioni sono forse meno intransigenti: il cuore aperto alle gioie, senza timore delle lacrime, senza paure dell’ignoto. O meglio, confidenti che la paura dell’ignoto può essere in parte compensata dall’emozione della curiosità. Saper bilanciare sapientemente il bisogno di rassicurazione con la pulsione vitale verso nuove frontiere. Solo, forse, la consapevolezza della inevitabilità della morte può dare una “spintina” alla curiosità della vita. Le passioni per qualche forma d’arte possono dare una base, fornire le radici affondate nel terreno per affrontare il rischio di essere emarginati. Mostrare le proprie emozioni può farci trovare, all’improvviso, nell’ isolamento. Non cadere preda della paura di essere emarginati “spiazza” l’ambiente sociale e, temporaneamente, scongiura il rischio di mobbing. E’ una continua sfida: mantenere la propria integrità creativa e nel contempo il proprio posto nel gruppo sociale.Un andamento altalenante, ma necessario. L’unica possibilità, per i creativi, che ciononostante vivono e lavorano all’interno di organizzazioniproduttive - sono solo una parte dell’ umanità che non ha rinunciato alla propria componente divina – e che non vogliono restare isolati dalla società, è quella di ballare sempre sulle punte. Una piroetta, respirando profondamente sulla paura di sbagliare il passo, e passar via oltre.

Il chador e il brutto anatroccolo

Ancora una volta tagliata fuori mi sono distratta mi hanno accerchiata mi hanno colpita mi sono rialzata – ah! potenza della resilienza – a fatica leccandomi le ferite come un gatto che si nasconde per pudore per prudenza.

Temo che non ci siano molte possibilità per l’accettazione piena, senza timori, delle espressioni creative nelle organizzazioni aziendali. Non è un problema di consulenza aziendale o di formazione manageriale. E’ piuttosto materia sociale. Le organizzazioni, in fondo, sono la fotografia del tessuto sociale in cui si sviluppano.E l’organizzazione sociale odierna, almeno nel nostro paese, è ancora basata sulla mediocrità; piccole sicurezze, insoddisfazioni trattenute e magari espresse sotto forma di maldischiena. Una tranquilla quotidianità, un po’ di competizione, un pizzico di potere, il Natale, e poi, suvvia, la morte non esiste. Nella favola del brutto anatroccolo si sottolinea il senso di inadeguatezza che il povero pulcino prova stando insieme ai suoi presunti fratelli anatroccoli; inadeguatezza che si placa solo quando, finalmente, incontra i suoi fratelli cigni.Tra i due estremi: sentirsi inadeguati in uno stagno di anatre oppure ritirarsi nel limbico paradiso dei diversi, c’è una possibilità di mediazione? Rimanere nel mondo, accettare che la maggioranza delle persone vivono una vita limitata - le ali inesorabilmente spezzate – senza per questo serbare loro rancore, o piuttosto chiudersi in un irreale senso di superiorità per il semplice fatto di sentirsi diversi. Forse la mediazione sta nel coraggio di vivere nella società, trovare linguaggi comuni – inevitabilmente seguendo un principio di sottrazione pubblica delle proprie capacità espressive – velare con un chador il caleidoscopio di emozioni che si generano con la forza di una turbina in ogni attimo di vita - e lasciare poi che queste fluiscano laddove possano essere accolte con semplicità, per quelle che sono, né una minaccia né una proposta. Semplicemente sono.

La vera difficoltà per un individuo che non rinuncia alla sua curiosità della vita è trovare una giusta mediazione tra le anatre e i cigni.

Solo tra cigni c’è il rischio, fondato, di isolamento. Solo tra anatre – orrore! – la noia.

“Nomare” o del riconoscere

La carriera è stata – e lo è tutt’ora – indissolubilmente legata al riconoscimento professionale; ovvero chi non fa “carriera” nel senso comune del termine non si sente riconosciuto professionalmente. Inoltre la carriera, in azienda,è associata al potere, avere persone sulle quali comandare. Brutto termine, non lo usa nessuno, si parla di leadership, coordinamento, autorevolezza, responsabilità di team e altre cose del genere. In realtà, ancora oggi fare carriera significa diventare capo di qualcuno e quindi significa gestire il potere. Altra cosa, in verità, è la leadership, che ha qualcosa in comune con l’amore.Soprattutto in un contesto sociale che vede il mercato del lavoro estremamente precario. Come è pensabile di sottrarsi all’esercizio del potere di un capo e non rischiare di trovarsi per strada, senza lavoro senza riconoscimento sociale e quindi senza nome, da un giorno all’altro? Questo l’azienda lo sa, e usa la catena del potere. E ancora oggi, troppo spesso, la carriera gratifica il bisogno di potere, contrapposto all’amore, troppo difficile da gestire, quest’ultimo. Difficile da maneggiare, insieme al senso di responsabilità, al contatto con la realtà. Troppo spesso l’amore è confuso con l’arrendevolezza. Ci si può amare, invece, e nel contempo affermare principi differenti, far valere il proprio punto di vista, alzare la voce e dimostrare le proprie ragioni, nel rispetto reciproco.Sembra così semplice parlare di amore, ma lasciar vivere il sentimento di amore è, oggi, cosa difficile per l’individuo sociale medio.

Amore, cosa profondamente diversa dal bisogno.

L’amore è, qui ed ora, non chiede e non attende, semplicemente è. Il bisogno è figlio di aspettative, di proiezioni, di investimenti su altri che non lo hanno chiesto. Amore, figlio di ingegno e povertà, per dirla con Diotima di Mantinea, non chiede:è la procreazione del bello, sia secondo il corpo, sia secondo l’anima.

Cercare un’altra via

Mi sono chiesta molte volte come potevo migliorare le mie performances aziendali; imparare ad essere più astuta, ché non basta essere bravi: bisogna dimostrare che gli altri lo sono di meno, anche in maniera sleale, se occorre. Se sono arrivata fin qui dove sono, è perché non ho mai rinunciato, non sono mai scappata via, ho tenacemente e testardamente incassato i colpi e guardato avanti.Andare via mi sembrava scappare, rifugiarmi nell’isolamento, una sorta di volpe con l’uva. Ma, forse,arrivata a questo punto dovrei fare anche i conti con le mie capacità e magari ammettere che tra le mie qualità – pur se tante – c’è un difetto (nel senso di mancanza): non essere organica all’azienda. Andare fuori dagli schemi predeterminati. Da più parti mi viene un commento che suona: “Sì, molto brava, intelligenza e cultura di gran lunga superiore alla media, ma proprio per questo può distrarsi; non è dedita solo agli affari.”

E poi la difficoltà di soffrire senza far vedere, perché le persone non amano “vedere” quelli che soffrono, preferiscono compiangerli ma isolarli: sono infetti del male del non riconoscimento aziendale. Una piccola promozione negata e si diventa quello da evitare: “non è più nel cuore del D.G., meglio stare alla larga”. Quando la realtà è importuna si ricorre al diniego sociale. E allora si dimentica tutto il contesto in cui sono avvenuti i fatti, le premesse, le responsabilità e si identifica la persona con l’accaduto. Basta poco per trascinarla ai margini, è una reazione a catena. E allora come ci si difende? Mettendo “in scena” la felicità, dando credito a quello che si è detto sempre. Sì, è vero, non è dedita solo agli affari ha altri interessi, altri piaceri sostengono e danno colore alla sua vita.E così, nascondendo il dolore, la verità, la dignità aziendale è salva e, forse, anche questa volta il mobbing è scongiurato.

Ma non ha forse senso cercare qualcos’altro? Trovare una modalità professionale più consona? Forse questa volta non sarebbe scappare, piuttosto trovare una strada laterale più adatta. Non un lago di cigni, ma una piacevole zona acquatica in cui germani, anatre e cigni posano convivere. E una logica lucida a dimostrare, una volta assorbito il colpo, dopo notti insonni a elaborare il lutto, le proprie inoppugnabili ragioni.

 

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