BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 27/06/2005

MA 'A QUANT' 'O BINNE?

di Amalia Vetromile

Espressione napoletana felice e intraducibile. Alla lettera: “Ma a quanto lo vendi?” Sta per dire “ma chi ti credi di essere”, ma ancor di più: “quale è il tuo prezzo, credi realmente di valerlo? Se è troppo alto ti lascio lì e me ne cerco un altro”. C’è la relazione, la comunicazione a due vie, non solo il narcisismo di chi è “’a quant’ ‘o vinne?”, “quanto pensi di valere per me, quanto puoi tirare la corda e chiedermi di capire e di spiegarmi per entrare in contatto con te?”

Ad ognuno viene attribuito un ruolo

La comunicazione tra le persone è difficile, mediata dalle proiezioni personali, dalle proprie paure, dai fantasmi, dai retaggi del passato, dai cliché sociali. I ruoli, la necessità di molti di dare nomi alle situazioni: “Salve, ti presento X, è … “ Equel “è” sempre un ruolo, un abito di scena disponibile nella sartoria teatrale: il direttore, il capoprogetto, il mio compagno, mio marito, mia moglie. Pensare che nel XVIII Secolo in Francia, “gli attori più importanti si impegnavano in costose e aspre competizioni per superare i colleghi nell’eleganza e nei vestiti di scena” (Brockett – Storia del teatro).

Viviamo immersi nei ruoli, sembra quasi che senza ruoli non siamo capaci di esistere, perdiamo la concezione del sé, il senso della vita.

E così, nel nostro teatro quotidiano, bisogna fare attenzione quando si lasciano trapelare sentimenti di amicizia, di amore, anche di risentimento. Immediatamente il contesto sociale cerca di etichettarlo con un personaggio: ci sta provando oppure chissà che cosa cerca di ottenere o ancora è una persona negativa. Senza rispettare lo spazio individuale, senza riuscire a prendere gli altrui sentimenti per quello che sono.

E allora: indossare un comodo chador – a velare i sentimenti - può essere utile in certi contesti sociali, credo che sia diventato per me un indumento irrinunciabile.

Nell’ adolescenza spesso si mostrano con troppo slancio i sentimenti, poi si impara a tenerli nascosti – troppo nascosti, al punto che talvolta non si riesce più a farsi intravedere dagli altri – poi si può arrivare a mostrarli nuovamente, talvolta, per il puro piacere di farlo. Ma la cosa finisce lì. Si può finalmente “scostare” il chador dal viso quando ci va, e riassestarlo per bene se necessario.

“Ti sei vestita così bene oggi per l’incontro che avevamo?” “No, l’ho fatto solo per me, perché oggi c’è il sole e mi sono svegliata felice!”.

Quanti riescono ad accogliere slanci affettivi e non metterci sopra pesanti mantelli di proiezioni personali?

Talvolta abbiamo desideri e vorremmo realizzarli, senza attendere coincidenze propizie; desiderio di esprimere quello che ci passa per la testae per il cuore e per la pelle – senza stare sempre attenti a non essere fraintesi – senza per questo trovarsi addosso abiti confezionati dalleproiezioni dei nostri interlocutori. Costumi teatrali che non ci appartengono, che sono creazione dei fantasmi altrui e che ci assegnano ruoli, cliché, strade predefinite, rassicuranti, per molti, perché segnano contorni definiti, un recinto. Chi etichetta una persona con un ruolo deve cercarne dentro di sé le motivazioni, nelle sue proiezioni, insomma è soltanto “roba sua”.

L’ecologia dell’anima

Non molto tempo fa ho usato la metafora dei numeri interi e numeri decimali: le parole sono dei numeri interi, le emozioni hanno i decimali.

Ora provo ad usare i decimali. Non ho aspettative nel senso che lascio entrare nella mia vita le cose belle e quelle dolorose, purché regalino un senso alla mia vita,non le prevedo, né le “attendo”. Non mi spavento davanti alla lacrime e accolgo con il cuore aperto le emozioni belle. Vivo nella mia scena personale da sola e in compagnia delle persone che amo e che mi amano. Questo non significa che io rinunci ai miei desideri e sogni, e che non cerchi di realizzarli, per quanto possibile e compatibilmente con quelli degli altri che incontro sulla mia strada. Lascio alla sincronicità la magia di creare nuovi orizzonti e di amplificare quelli che già esistono; ma ci metto anche del mio per vivere le cose che mi piacciono.Il piacere di incontrare qualcuno che si ama, un amico, un amore, un collega – per il puro piacere di guardarlo negli occhi o realizzare progetti insieme -,oppure quello che si provalavorando per realizzare un sogno professionale non ha niente a che vedere con le aspettative ascritte ai comportamenti altrui.

Bisognerebbe tenerlo presente sempre nelle relazioni, nella comunicazione. Il cuore aperto che lascia trapelare le emozioni non può essere frainteso con la commistione di vite, ché ognuno di noi ha la sua – personalissima – e che non dovrebbe essere inquinabile con quella degli alti, una sorta dell’ecologia dell’anima. Senza cercare necessariamente di dare un nome alle storie della vita, senza identificare le persone con il ruolo. I nomi servono al sociale, per definire, per far riconoscere, per recintare.

Un canto d’amore è un canto d’amore

Una rosa è una rosa è una rosa. Se si scrive un canto d’amore è solo ciò che è: un canto, ancorché d’amore. Non è una richiesta di impegno di vita, né di amicizia imperitura, né di pantofole lasciate in giro per casa, né di certezza che ci vediamo anche a Natale. E’ un canto e basta. Qui ed ora.

Spesso, troppo spesso, nella comunicazione si carica la relazione di proiezioni personali, si “vestono” le parole dette - o quelle non dette – di abiti che non appartengono a chi le ha dette o pensate. Si riempiono di proprie fantasie gli spazi di pausa tra una parola e l’altra, si interpreta una virgola o un “ma”.

Un conto è a teatro, dove lo spettatore è invitato a partecipare al collettivo artistico aggiungendo la propria creatività allo spettacolo - come esplicitamente invita a fare Shakespeare nel prologo dell’Enrico V – lasciando volutamente degli spazi liberi agli spettatori per far entrare anche loro nella visione di insieme, per permettere a ciascuno di creare la propria individuale opera d'arte:

“Ma perdonate, pubblico cortese …., la scarsa incerta ispirazione di chi ebbe l’ardire, su questa indegna impalcatura, di portare in scena sì epica vicenda. Può contenere, quest’angusta arena, gli sconfinati campi della Francia?… Lasciate dunque a noi, … di fare appello alle forze dell’immaginazione…. Supplite voi, col vostro pensiero, alle nostre carenze: dividete ogni singolo uomo in mille unità, così creando armate immaginarie. .. è alla vostra mente che spetta ora equipaggiare i sovrani e condurli per ogni dove, bruciando i tempi e condensando gli eventi di molti anni in un voltar di clessidra…. “

La comunicazione sempre più multi-mediale non viene completata dalla componente pre-espressiva, e lascia ampia libertà all’interpretazione personale, che riempie gli spazi lasciati vuoti dalla parola scritta. Questa facoltàè una componente fondante nella lettura di un libro – aggiungere proprie personali immagini a paesaggi appena accennati dall’autore – e nel teatro, come esorta a fare ShakespeareNella comunicazione interpersonale, invece,lo spazio lasciato alla immaginazione dell’interlocutore fa correre il rischio di fraintendimenti, di confusione, di attribuizione i ruoli e di cliché. Ciascuno aggiunge le proprie paure, emozioni, proiezioni; tutt’altra cosa è la condivisione. La comunicazione asincrona perde tutta la contemporaneità – il valore aggiunto, per dirla in gergo aziendale, - di occhi negli occhi, la comunicazione fatta di sguardi, di abbracci consolatori nei bagni aziendali delle donne ad accogliere lacrime brucianti di umiliazione, condivise in piccoli spiragli di cicatrici appena scoperte.Tutto questo ci allontana dal principio della realtà, per come lo intende il padre della bioenergetica,Alexander Lowen.

Ci scriviamo di nuovo

Si sta, per certi versi, ritornando al tempo in cui si scrivevano lettere, lunghi epistolari, ma con una velocità di consumo profondamente diversa. E poi al tempo degli epistolari le lettere si scrivevano a mano, c’era anche lo studio della calligrafia, in qualche modo all’interlocutore arrivava, insieme alle parole scritte, qualcosa di tangibilmente personale, il personalissimo modo di scrivere a mano, che oggi non c’è più. Infatti la scrittura manuale si può dissimulare, ma è inconfondibilmente personale, identificabile univocamente da esperti della materia, cosa che il “times new roman” ha definitivamente cancellato, senza contare poi le abbreviazioni ormai standardizzate degli sms.

Le nuove modalità di comunicazione sono adatte all’uomo? Ovvero l’uomo si è già adattato, in modo darwiniano, alle nuove modalità di comunicazione? Temo di no, perché l’evoluzione tecnologica ha tempi decisamente diversi rispetto a quella umana. Oppure, forse, dovremmo conoscere meglio il modo di comunicare delle nuove generazioni e sull’impatto che queste modalità hanno sulla loro affettività. Se non si può prescindere dalla comunicazione multi-mediale – e non credo si possa, ormai – allora forse bisogna cercare di capirla di più. Mi torna in mente un vecchio romanzo di Asimov – Solaria - dove gli abitanti del pianeta non si incontravano mai, trovavano disdicevole il contatto personale, quasi al limite del disgusto: un futuro annunciato?

Un modo di essere heisenbergiano

In un mondo così complesso della comunicazione , rivolgendosia chi, velocemente - senza rispetto - incolla ruoli alle persone,ritorna l’espressione da rivolgere all’interlocutore, che si aggroviglia nelle proprie personalissime fantasie, “’a quant ‘o binne?”. Chi credi di essere, come ti permetti di decidere tu, altro da me, il costume che devo indossare, di definire i miei sottotesti e di riempire le mie pause di recitazionenel mio vissuto quotidiano, affibbiandomi un ruolo che è solo nella tua personale proiezione.L’essenzialità, nulla più di quello che si è detto con le parole; nulla più di quello che si è mostrato. Le interpretazioni, le costruzioni fantastiche, a riempire gli spazi di sottotesto di parole non dette nelle frasi formulate, sono vissuto personale, che nulla hanno a che vedere con il sentimento che si prova.

E allora entra in gioco, forse, il rispetto. Quella sorta di discrezione che attende di comprendere quello che – in accordo con il principio della realtà – ogni persona realmente vuole esprimere. La disponibilità all’attesa della comprensione, senza anticipare nulla, senza attribuire velocemente ruoli, senza saltare a conclusioni facili, dettate unicamente dal proprio personale punto di vista. Un atteggiamento heisenbergiano, simile a quello che lo scienziato - studioso dei fenomeni naturali - ha nei confronti della natura: osserva, consapevole di interferire con i suoi strumenti di misura, sulla natura dei fenomeni che osserva. Senza presunzione, senza predeterminazioni, con rispetto e innocente stupore.

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