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Pubblicato in data: 03/11/2003

L'ETICA ....IMMORALE

di Francesco Zanotti

Dall’etica come limite all’etica come poiesi

Agli inizi del terzo millennio, si è definitivamente affermata nel mondo degli affari una istanza etica: l’umanità ha cominciato a superare quelle brutali visioni egoistiche del fare economia che si erano imposte nella società industriale (l’uomo come strumento di profitto). E si è imposta una istanza etica che propone di considerare l’uomo e la sua felicità come fine. Tutto il resto è strumento.

Tutto bene allora ….

Ecco veramente no!

Perché questa istanza etica si è espressa in una visione dell’etica di bassissimo profilo.

L’etica come limite.

Si dice che sia etico un business che non cerca solo il profitto, ma è rispettoso di altre istanze ed altri valori. Cioè cerca di non essere egoisticamente mono dimensionale. Etico è insomma un business che cerca sì il profitto, ma non troppo. E non a tutti i costi. Il bravo imprenditore è colui che accetta i limiti dell’etica. Ed ammette che non gli è lecito sentirsi Dio che crea il mondo a sua immagine e somiglianza….

Sembra una visione assolutamente condivisibile, ma a me sembra che:

-      sia frutto di un meschino revanscismo ideologico

-      generi comportamenti difensivistici

-     nasconda i due più gravi comportamenti immorali.

L’etica come revanscismo ideologico

La prima cosa che non va in questa visione dell’etica è la nascosta voglia di rivincita: quello che non si è riusciti a fare con l’economia pianificata si cerca ora di farlo (più dolcemente, più in punta di piedi) con l’etica. Insomma: una etica che si pone come limite è oggettivamente uno strumento di rivalsa e di potere in mano a chi pone questi limiti!

Un’etica che genera comportamenti difensivi

Un’etica così intesa viene inevitabilmente trattata come si trattano le leggi. Si dichiara verso di esse forte rispetto, ma poi si cerca di navigarci dentro. Sostanzialmente con lo scopo di non rispettarle.

Un’etica così costringe ad un rispetto formale, ma ad una indifferenze sostanziale. A considerarla una iattura e non un valore.

Questo scarso rispetto sostanziale è stimolato da tutta una serie di comportamenti “sfruttatori” delle istanze etiche. Ne cito uno su tutti: il business della certificazione. Vedo già fregarsi le mani coloro che hanno visto intasarsi il mercato della certificazione di qualità: si apre un’altra area di certificazione. Non si chiama propriamente certificazione etica. Si chiama “social accountability”, oppure bilancio sociale e ambientale. Ma sempre una nuova area di business.

Tutti si immaginano la reazione emotiva di un imprenditore italiano che si vede bussare alla porta un consulente che, forte dell’obbligo di certificazione “morale”, cerca di spillargli denaro. Un imprenditore, soprattutto italiano, percepisce chiaramente che si sfrutta l’etica per supportare e giustificare un comportamento che giudica immorale.

Ecco io credo che veramente occorra tentare di sviluppare una nuova visione dell’etica.

L’etica come poiesi

L’atto imprenditoriale in una società complessa è caratterizzato da due profonde novità.

La prima novità è che cambia l’attore imprenditoriale.

Se non si parla di impresa industriale, ma di impresa di servizi, come una compagnia di assicurazione, allora il singolo soggetto imprenditoriale (a cui si attribuisce responsabilità sociale) non è la singola impresa, ma il sistema di imprese di quel settore.

Infatti, due delle nuove aree di business più rilevanti di una compagnia di assicurazione sono costituite dalla previdenza e dalla sanità Ora, per “sfruttare” queste aree di business non è possibile, prima, formulare un progetto imprenditoriale e, poi, verificarne la socialità.

Per sviluppare questo business occorre prima sviluppare un nuovo modello di Stato Sociale. Solo all’interno di questo modello di Stato Sociale sarà possibile immaginare sia li business della previdenza che il business della sanità.

Allora l’atto imprenditoriale fondamentale non è immaginare un business, ma progettare un modello di Stato Sociale. E il realizzare il business non è vendere, ma convincere intorno a quel modello di Stato Sociale.

Il soggetto che deve immaginare lo Stato Sociale non può esser la singola compagnia, ma il sistema delle compagnie.

La seconda novità è che occorre eliminare la cultura del potere ed acquisire la cultura del progetto. Infatti, il modo attraverso il quale il sistema delle compagnie di assicurazione può immaginare e, poi, convincere può essere solo quello di avviare processi di progettualità sociale che coinvolgano tutti gli stakeholders dello Stato Sociale.

Se si prova a parlare di controllo “etico” per questi atti imprenditoriali, si vede cade nell’inutile e nel vacuo. Infatti questo tipo di business o è naturalmente etico (e come tale raccoglie il consenso sufficiente a modificare lo stato sociale e, quindi, decollare) oppure fallisce.

Per la nuova imprenditoria che mi permetto di definire “naturalmente sociale” l’istanza etica può funzionare, invece, come stimolo: per affrontare lo sviluppo in aree complesse. Come potrebbe accadere per le compagnie di assicurazione quando decidessero davvero di accettare di aiutare questo paese ad affrontare problemi chiave come la sanità e la previdenza con soluzioni non da Stato assistenziale, ma da Stato post-industriale.

Se si accettasse questa visione dell’etica (l’etica come stimolo poietico e non come limite all’azione) si scoprirebbero quelle che forse sono le due aree di immoralità più diffuse, ma più difese e più nascoste:

-      l’immoralità dl non fare

-      l’immoralità del non conoscere.

L’immoralità del non fare.

I guai peggiori non sono stati generati da un fare di rapina, ma da un non fare di ignavia.

Il vero guaio è che le compagnie di assicurazione non si siano fatte parte diligente nell’avviare un grande evento di progettualità sociale che ci permetta finalmente di immaginare tutti insieme un nuovo Stato Sociale che rappresenti una sintesi feconda di tutte le istanze che oggi, invece, si esprimono solo attraverso il conflitto.

Il vero guaio è che non abbiano ricercato la cultura e le metodologie (sono sostanzialmente metodologie di creazione sociale della conoscenza) per potere avviare  portare a compimento un grande impegno di progettualità sociale.

Il vero guaio è che hanno rifiutato deliberatamente di impegnarsi in questa direzione. E nessuno si è lamentato. Nessun fustigatore di costumi si è scagliato contro questi peccati di “frustrazione dello sviluppo”. Non ricordando che i peccati più gravi sono peccati di omissione: “avevo fame e non mi hai dato da mangiare …”.

Io ritengo che questa responsabilità sia incommensurabilmente più grave, ad esempio, della responsabilità del piccolo imprenditore (povero untorello) che inquina spesso non per egoismo, ma per esigenze di sopravvivenza.

I guai creati dal piccolo imprenditore sono eliminabili e evitabili.

Per quanto riguarda la responsabilità del non fare siamo impotenti.

Discorso analogo vale per il sistema bancario. Anche il sistema bancario è colpevole di omissione. Cioè è colpevole di non aver fatto!

Elenchiamo brevemente il non fatto. Ecco si potrebbe citare il tema della gestione del risparmio, ma sarebbe come “sparare” sulla croce rossa”. Allora citiamo il non fatto verso il mondo delle PMI. E’ da anni evidente che il sistema delle PMI non è afflitto da una carenza di competitività, ma di capacità innovativa. Quella capacità innovativa che ha generato il sistema industriale italiano. E non parliamo di banale innovazione tecnologica, ma di capacità di inventare una nuova civiltà.

Per superare questo problema le PMI necessitano certamente di risorse finanziarie. Ma prima di tutto necessitano di risorse cognitive. Metodi per superare le loro attuali visioni del business e immaginarne altri. Anche in questo caso metodologie di progettualità. Chi può fornire loro queste metodologie? Le banche e solo le banche. Perché ne hanno interesse. Non solo perché clienti floridi fanno le banche floride. Ma anche perché così facendo, inventerebbero un nuovo modo di fare banca che farebbe loro trovare un posto di assoluta originalità nel sistema bancario internazionale. Diamine: abbiamo inventato il fare banca e oggi dobbiamo copiare dall’estero il fare banca. Non sapremo noi rinnovarlo?

Ecco un’altra responsabilità di omissione.

L’immoralità del non conoscere

Sodale perverso dell’immoralità del non fare è l’immoralità del non conoscere.

Vi sono almeno due gruppi di conoscenze che fino ad oggi non sono mai state usate né per discutere di etica. Né per discutere di impresa.

E che sarebbe indispensabile cominciare ad usare

Il primo gruppo di conoscenze riguarda la strategia d’impresa.

La strategia d’impresa si occupa di studiare i rapporti tra una impresa (oggi sempre di più reti di imprese) e l’ambiente che la ospita. Io sostengo che si conoscessero almeno le conclusioni fondamentali di questa disciplina si cambierebbe completamente il discorso sull’etica.

E’ utilizzando finalmente queste competenze che si è capito che il guaio fondamentale non è nel fare sbagliato, ma nel non fare.

E’ utilizzando queste stesse competenze che si è, poi, capito che un efficace processo di sviluppo strategico in una società complessa conduce automaticamente ad imprese etiche. Detto diversamente: l’eticità diventa una misura della innovazione imprenditoriale. Detto ancora diversamente: solo se una impresa è profondamente etica è anche profondamente innovativa. Le imprese non etiche possono essere solo banalmente innovative. Tanto banalmente da non potere interessare investitori orientati al profitto. Per tornare all’esempio di prima: interessa ad un investitore una impresa di assicurazione che, operando insieme alle altre riesce a coinvolgere tutti gli attori sociali nella riscrittura della stato sociale? Oppure interessa loro maggiormente imprese che vengono bersagliate un giorno sì e l’altro pure dalle associazioni dei consumatori? Non m sembra vi possa essere ombra di dubbio sulle preferenze.

Il secondo gruppo di conoscenze riguarda i processi di creazione sociale di conoscenza: come avvengono e come possono essere gestiti.

Ricordo che lo sviluppo della strategia è un processo di creazione sociale di conoscenza. Che, se è portato avanti da un sistema chiuso (ad esempio da chi detiene il potere) porta a strategia auto riferite.

Anche qui buio completo perché se vi fosse luce si scoprirebbe che esistono metodologie e tecnologie che permettono di attivare una progettualità sociale diffusa ed intensa.

E se si utilizzassero queste metodologie e tecnologie (si disponesse delle competenze per farlo) si scoprirebbe che la progettualità sociale, prima indicata come necessaria, è possibile. Non è utopia.

Si scoprirebbe un “management by images and communities” che porterebbe alla creazione di imprese che sarebbero “naturalmente” etiche.

Cioè si riuscirebbe a trasformare l’istanza etica da un istanza un po’ piagnucolosa ad una nuova filosofia per costruire sviluppo intrinsecamente giusto.

La sfida della fatica dell’ascolto

Superare l’immoralità del non fare e del non conoscere. Ma come? Abbandonando la prassi del potere ed attuando la filosofia del progetto.

Intendo dire: attuando una mobilitazione progettuale complessiva. Dove il contributo di tutti è accettato non per convenienza e solo nella forma. Ma è desiderato nella sostanza perché non si tratta di scegliere tra gli scenari di sviluppo esistenti. Ma di trovare vie radicalmente nuove. Che non possono che nascere con il contributo di tutti.

Per riuscire a mobilitare il mondo occorre una classe dirigente che accetta la fatica dell’ascolto. Una classe dirigente che ascolta così profondamente da studiare le idee e le opinioni altrui.

Solo così potrà poi tentare di attivare la leadership della sintesi. Una leadership capace di dare una risposta profonda alle istanze di un mondo che non accetta più di rinunciare alla felicità.

Certo! Esattamente come la nostra attuale classe dirigente (noi compresi) che all’ascolto profondo preferiamo la espressione chiassosa.

Una classe dirigente che per continuare soltanto a dire (magari urlando) non si preoccupa se questo dire è un racconto di sciocchezze. O peggio di insulti a tutti coloro che stanno lavorando in ogni parte del modo a progettare e costruire un mondo diverso.

Conclusione: piantiamola di chiedere agli altri comportamenti etici. E’ un chiedere eticità che nasconde u chiedere potere. E viene da un “pulpito” un po’ scalcinato.

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