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Pubblicato in data: 16/10/2006

IMMIGRAZIONE: LA RETORICA DELL'IDENTITA' E LA SPERANZA DELLA DIVERSITA'

di Francesco Zanotti

Credo che la prima cosa da fare sia deporre le armi…. Perché è il fragore delle armi che fa piangere i bimbi e i nonni.

La nostra identità. Esiste un vasto consenso sul fatto che l’immigrazione non deve diventare un fenomeno che distrugge la nostra identità.

Ma …. Proviamo a intrufolarci in questo slogan. La nostra identità è una “cosa” che deve rimanere uguale a se stessa nei secoli, oppure è una “cosa” che deve evolvere, cambiare profondamente? Tutti riconoscono che deve evolvere. Chi rinuncia a dire che ha un sogno che vuole costruire un mondo nuovo e via “sdoganando”? Nessuno. Questo significa che tutti non solo ammettono, ma proclamano che la nostra identità deve cambiare profondamente. Infatti non si realizza nessun sogno, non si costruisce nessuno mondo se non si cambia profondamente se stessi! Se non si cambiano profondamente le istituzioni e via specificando.

Ma questo cambiamento, anche profondo, non deve distruggere i nostri valori di fondo, Ecco allora parliamo dei valori di fondo. Cosa sono? Be’ innanzitutto non sono nessun elenco scolpito su nessuna pietra. La nostra società è vivificata da mille valori che appaiono molto diversi gli uni dagli altri.Non solo, ma esiste una crescente consapevolezza che questi valori vanno … eh sì .. fatti evolvere anch’essi!

Sì, ma c’è un limite! Esiste, anche se non definita scientificamente, una cosa che si chiama “civiltà occidentale”. Quella la dobbiamo assolutamente difendere. Bene allora proviamo a scalfirne la profondità. Scopriremo che essa non è così lontana ad esempio, da una civiltà che oggi pensiamo molto diversa. Tanto diversa che temiamo possa portare ad uno scontro di civiltà. Intendo parlare della civiltà islamica.

Solo pochi cenni per scalfire il pregiudizio della (addirittura) incompatibilità tra le due culture. Abbiamo un comune Padre: Abramo che un giorno il Signore chiamo fuori dalla città di Uhr per spingerlo a cercare la terra promessa. Abbiamo allora in comune la concezione della vita come viaggio. Abbiamo in comune i divulgatori di Aristotele: Averroè ed Avicenna. E Aristotele è il “fondamento” della razionalizzazione occidentale della speranza cristiana che poniamo a fondamento della nostra civiltà. Abbiamo in comune (meglio: ce li hanno dati loro) i numeri, arabi per l’appunto. Cioè .. udite .. udite … la cultura della “digitalizzazione”.

Ed allora? Proviamo ad usare queste “seminali” osservazioni per reimpostare davvero la sfida dell’immigrazione.

La prima scoperta è che essa richiama tutti noi a riscoprire le radici della nostra identità. Quella che oggi ognuno di noi pensa sia l’identità dell’occidente è soltanto la somma di nostri valori personali che tendiamo aconsiderare universali. Scambiamo la nostra ideologia come civiltà. Sfida: tutti coloro che vogliono difendere la nostra identità comune, provino a descriverla su di un foglio di carta. Scopriranno che sarà loro molto difficile non lasciare il foglio vuoto. Quando saranno riusciti a scrivere qualcosa, per primi non ne saranno soddisfatti. E, quando lo faranno leggere a qualcuno non troveranno nessuno che lo condivide totalmente.

Così come capita a noi capita anche agli altri. Anche coloro che invece della civiltà occidentale né vogliono proporre (siamo tutti d’accordo che di usare il verbo “imporre” non se ne parla per nessuno?) un’altra tropo spesso non ne conoscono né la profondità nè le origini.

Se questo è vero, allora i conflitti non sono generati da sistemi di valori diversi. Sono generati dal nostro sistema di vita che anche gli altri vogliono. Ma ci accorgiamo che non è possibile che questo sistema di vita diventi universale. Infatti, lo stile di vita occidentale non può diventare lo stile di vita del mondo perché non vi sono le risorse per sostenerlo. Ed allora tentiamo strategie di difesa. Che scatenano contro reazioni. Qualche cosa di simile alla battaglia tra i costruttori di cannoni e di corazze che ha segnato la storia militare dalla scoperta delle armi da fuoco.

Le singole battaglie non sono che ologrammi di una battaglia tra chi vuole condividere quello che abbiamo e noi che non ci stiamo a condivere.

Se così è, cosa bisogna fare?

Io credo che occorra organizzare un percorso di scoperta comune delle nostre radici.

Noi che raccontiamo (e scopriamo perché dobbiamo raccontare) la nostra civiltà. Gli altri che fanno altrettanto.

Così facendo si otterranno due risultati. Il primo sarà quello che ognuno di noi scoprirà che la propria civiltà è fatta di grandezze e miserie.

Il secondo è che ad ognuno di noi verrà voglia di vivere le ricchezze dell’altro. Accadrà qualcosa di simile (molto più profondo) a quello che accade quando andiamo in vacanza in luoghi “esotici”: scopriamo luoghi di vita splendidi. Che non diventano la nostra dimora abituale. Ma ogni tanto ci torniamo. E ne portiamo a casa pezzi che trasformano la nostra dimora. Così (molto più profondamente) accadrà se accetteremo di visitare le altre civiltà. La nostra per prima che siamo ben lontani dal conoscere.

Allora accadrà che, ad esempio, noi e gli islamici torneremo insieme al nostro comune padre Abramo. E scopriremo che siamo ancora insieme chiamati a lasciare quella terra di Uhr che è costituita dalla società industriale. E cercare una nuova e inevitabilmente comune terra promessa.

I bimbi ed i vecchi. L’inizio non era una trovate retorica. I bimbi e i vecchi sono altre “civiltà” che stiamo emarginando … Il problema è che dobbiamo cercare la loro immigrazione nella nostra società. Drammatico è il pezzo di Beda Romano sul Sole 24 di oggi (13 ottobre 2006). La sintesi: occorre aumentare la produttività del lavoro perché se non riusciamo a mantenere il numero crescente di nonni. Drammatico perché ghettizza i nonni. Afferma che non sono utili. Invece sono le “civiltà” dei nonni e bimbi che ci possono far scoprire il senso della vita che la civiltà industriale ha perso nel mito stupido dell’eterno giovanilismo. E’ un viaggio nella loro civiltà che ci permetterà di immaginare un nuovo lavoro.

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