BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 05/12/2000

DAL MITO DEL CONTROLLO ALL'ECOLOGIA DEL PROGETTO OVVERO…
COME CONTARE FINALMENTE QUALCOSA!!!

di Francesco Zanotti

Oggi le organizzazioni vivono a parole di innovazione. Nei fatti sono strumenti di conservazione delle strutture di potere.

Il paradosso è che i più conservatori sono coloro che hanno meno potere all'interno o intorno all'organizzazione. Intendiamo dire managers di staff (personale organizzazione, marketing), ma soprattutto consulenti e formatori.

Tutto questo potrebbe essere irrilevante: basterebbe dire a quelli che hanno potere di fare meglio da "papà" e permettere una buona sopravvivenza a coloro che potere non hanno. Dopo tutto non è questo che tutti noi "lettori" e "scrittori" di bloom (cioè managers di staff, consulenti e formatori) andiamo cercando?

Non andiamo a cercare incarichi dal Principe?

E' troppo cattivo esprimersi così? Allora diciamolo in un modo che è incontrovertibile: noi tutti, che oggi non abbiamo potere, non abbiamo un progetto di cambiamento del mondo: abbiamo solo istanze di sopravvivenza!

Non abbiamo un progetto complessivo per un nuovo rilancio del sistema della piccola e medie impresa. Non abbiamo un progetto complessivo di sviluppo del sistema bancario e finanziario. Ci cincischiamo con una new economy i cui progetti di punta sono net-imprese che producono un modo diverso di fare gli auguri di natale!

Abbiamo rivendicazioni di ruolo ed economiche, non progetti.

Il nostro non aver potere e progetti potrebbe essere socialmente irrilevante (basta che ce ne stiamo buoni e non prendiamo il mitra) se le cose potessero funzionare con le attuali strutture di potere. Ma così non è! il sistema delle medie e piccole imprese sta perdendo la sua capacità di produrre valore (è sopravvissuto negli anno scorsi per le svalutazioni competitive e per il calo dei tassi di interesse). Il sistema bancario e finanziario innova la facciata, ma sopravvive anch'esso di contingenze (come il disinvestimento nei BOT che ha permesso di fare il pieno di utili) e di imitazione (dei sistemi anglosassoni.. ma come si fa ad competere con essi imitando?)

Allora non possiamo più rimanere "pacifici". Dobbiamo organizzare la rivoluzione. Ma per farlo non servono rastrelli ed urla. Occorrono progetti…

Ecco siamo arrivati alla tesi fondamentale.

Per candidarci ad un nuovo ruolo nella gestione delle organizzazioni complesse legittimando il nostro desiderio attraverso nuovi progetti .. dobbiamo cambiare il punto di vista dal quale guardiamo il mondo.

Oggi tutti noi guardiamo il mondo come lo guardava Taylor. Così facendo blocchiamo ogni sforzo di cambiamento e non ci proponiamo neanche la sfida del progetto.

Il mio intervento sarà strutturato in due parti: la prima dimostrerà che il management non ha mai cambiato punto di vista. E' assolutamente rimasto al punto di vista di Taylor. Intendo dire che tutto quello di cui si parla oggi, dall'approccio per competenze a quello per processi, dal knowledge management ai tentativi di informatizzazione globale (i sistemi ERP "internet based", compresi i tentativi di rileggere la realtà delle imprese in termini di rete) tutto questo non è che un raffinare (e, quindi, confermare) l'approccio di Taylor alle organizzazioni.

La seconda cercherà di illustrare un nuovo punto di vista possibile. Il punto di vista che permette di riacquistare la capacità del progettare e di legittimare la propria richiesta di potere con la forza dei progetti.

Prima parte

Il pensiero manageriale è un pensiero di tipo "scientifico".

Il pensiero manageriale è un pensiero di tipo scientifico perché utilizza come metafora di fondo la stessa metafora che utilizza il pensiero scientifico: La macchina.

Iniziamo esplicitando le caratteristiche fondamentali di questa metafora.

La macchina è un sistema di tipo semplice che, come tutti i sistemi semplici, possiede le seguenti caratteristiche:

L'insieme è esattamente uguale alla somma delle parti. Detto diversamente, le prestazioni complessive del sistema sono spiegabili in termini delle prestazioni delle sue parti. Per declinare immediatamente questa affermazione: considerare l’impresa come processi che possono essere "smontati" in attività (che non devono avere sovrapposizioni) significa considerare l’impresa un sistema semplice. Cioè una macchina.

Ogni parte ha una sua identità (caratteristiche) definita, indipendente dal sistema, che il sistema utilizza per il suo funzionamento

Ogni parte ha una funzione esecutiva e non discrezionale

Perché diciamo che quella della macchina è l'epistemologia (il punto di vista profondo) del management?

Innanzitutto perché anche gli approcci più avanzati di management sono fondati sullo spezzare.

Si cerca di comprendere e gestire l'organizzazione spezzandola.

Spezzando gli obiettivi

Spezzando le competenze

Spezzando i ruoli

Spezzando i processi… come ho già esemplificato

E poi perché il modo in cui si gestisce il cambiamento è esattamente il modo in cui si aggiusta la macchina.

Infatti il cambiamento organizzativo è simile al cambiamento degli ingranaggi (o dei programmi) di una macchina (o di un computer digitale).

Scegliamo una metafora nella metafora: un'automobile da competizione.

Il cambiamento di queste automobili è certamente stimolato dalla competizione. Cioè è stimolato da un cambiamento esterno che origina una minaccia.

Il pilota, a causa di questa minaccia, richiede nuove prestazioni per la sua vettura.

Ma non si mette da solo a progettare la nuova autovettura. Chiede l'intervento di competenze eccellenti di progettazione. Il pilota sa che uno degli elementi fondamentali della sua competitività dipende dalla qualità del progettista. Dall'eccellenza di questi. Tanto che le case costruttrici competono sull'eccellenza del progettista.

Il progettista decide come trasformare la macchina, progettando il "cambiamento" (introducendo nuovi componenti o migliorando le componenti attuali). I meccanici realizzano il cambiamento, il pilota usa la nuova efficacia ed efficienza della macchina per competere meglio.

Il cambiamento organizzativo utilizza lo stesso modello. Anche se in versione più artigianale. Diciamo che il cambiamento avviene utilizzando la metafora della macchina, ma senza richiedere l'intervento del progettista

Come accadeva ai piloti del passato. O come accade ai grandi dilettanti di oggi. Contemporaneamente piloti, meccanici e ingegneri.

Il top management (il pilota), pressato dalla competizione si trasforma in progettista e individua i cambiamenti fondamentali

cambiamenti della parte formale dell'organizzazione. Tipicamente: omogeneizzazioni procedurali, cambiamenti di organigramma,

cambiamenti nei modelli organizzativi (si veda più sopra):

cambiamenti nelle prestazioni desiderate delle persone che sono prestazioni sempre più complesse a causa delle caratteristiche dei nuovi modelli organizzativi.

Qualche volta il top management utilizza "progettisti eccellenti", Cioè consulenti di direzione. Ma, contrariamente ai progettisti di automobili i consulenti di direzione non hanno avuto ultimamente un grosso successo. Non esiste il "Tod" dei consulenti. Mentre abbiamo molti top managers che aspirano ad essere contemporaneamente Tod e Shumaker.

Il top management, poi affida il progetto ai realizzatori del cambiamento.

Che sono gli uomini dell'organizzazione, dell'informatica e di sviluppo delle risorse umane.

I quali utilizzano lo stesso modello per gestire il cambiamento: aggiustare una macchina che non funziona o migliorarne le prestazioni.

Anche solo raccontando così le cose ci si accorge che questo modo di intendere il cambiamento genera un paradosso.

Che consiste nel voler trasformare una organizzazione burocratica (una organizzazione fatta di macchine) in una organizzazione sociale (fatta di uomini) attraverso un processo tale per cui gli uomini continuano ad essere considerati ingranaggi da far funzionare nel modo migliore possibile.

Gli psicologi hanno descritto questo paradosso con l'apologo del "sii spontaneo". E' un classico paradosso comunicativo, descritto nei testi classici di teoria della comunicazione, attraverso il quale si dà un ordine autocontraddittorio: l'invito ad essere spontaneo pronunciato con il cipiglio dell'ordine. E' ineseguibile perché la spontaneità è proprio quella cosa che si sviluppa in assenza di ordini. L'ordine non può innescare comportamenti spontanei, ma guidati.

Nel caso dei processi di sviluppo organizzativo le cose sono ancora più complicate. Ed assumono la forma seguente. Da un lato (proponendo nuovi modelli organizzativi) si stimolano le persone ed i gruppi interni all'organizzazione a considerare l'organizzazione come luogo di affermazione della loro identità. E, dall'altro, attraverso il processo di sviluppo dell'organizzazione, si riafferma che gli individui e i gruppi sono strumenti. Cioè li si costringe in una identità data da altri e, per di più, povera.

Mi sembra di aver illustrato a sufficienza che il punto di vista profondo su cui è fondato il management è simile al punto di vista del "calculemus" di Leibniz.

Aggiungo solo un pensiero conclusivo.

La scelta del modello della macchina significa che il top management ha dimenticato la cognitività del cervello destro, il modo di guardare la mondo del cervello destro.

E, quindi, ha rinunciato ad utilizzare contemporaneamente (in modo sinergico, come accade nella cognitività feconda) il cervello destro ed il cervello sinistro.

Ma come si può credere che possano funzionare metodi di gestione delle organizzazioni umane che dimentichino due parti importanti dell'umano?

Non possono funzionare…

Allora occorre cambiare metafora fondamentale….

Seconda parte

una nuova metafora strategico-organizzativa: la rete autopoietica multidimensionale.

Due sono le metafore fondamentali utilizzate per descrivere i sistemi complessi:

Strutture dissipative

Reti autopoietiche

Le strutture dissipative sono troppo primitive per fornire un modello per quei particolari sistemi complessi che sono le organizzazioni umane.

La ragione è che la metafora delle strutture dissipative nasce anch'essa dal cervello sinistro. Nasce da quel particolare modo di affrontare i sistemi complessi che è la teoria del caos. Essa propone come caratteristica fondamentale dei sistemi complessi la "non linearità".

Non a caso questa metafora trova terreno fertile di sviluppo soprattutto nel mondo anglosassone. E' il modo in cui oggi il mondo anglosassone affronta la sfida della complessità.

Le reti autopoietiche, invece, hanno la complessità "adatta".

Ancora non è un caso che questa metafora nasca dalla cultura latina (dal cileno Humberto Maturana). Illustriamo a sommi capi questa metafora contrapponendola alla metafora fondamentale della società industriale: la macchina.

Sistema semplice: la macchina

Sistema complesso: la rete autopoietica

A identità spezzettabile.

Come abbiamo scritto sopra: " L'insieme è esattamente uguale alla somma delle parti". Detto diversamente, le prestazioni complessive del sistema sono spiegabili in termini delle prestazioni delle sue parti.

Olistico

E' un sistema ad identità non spezzettabile.

A componenti autonome

Come abbiamo scritto sopra: "Ogni parte ha una sua identità (caratteristiche) definita, indipendente dal sistema e che il sistema utilizza per il suo fondamento"

Olografico

E' un sistema nel quale in ogni parte esiste la forma del tutto

A componenti strumentali

Ogni parte non ha una sua autonomia strategica, ma deve diventare strumento di colui che utilizza il sistema

Autopoietico

Tecnicamente un sistema autopoietico è un sistema capace di costruire se stesso, la propria identità. Le operazioni del sistema sono rivolte all'interno. Detto diversamente, un sistema autopoietico è un sistema capace di dotarsi di una propria organizzazione.

L'identità, cioè l'organizzazione di un sistema autopoietico è olografica ed olistica.

In sintesi, un sistema complesso che è caratterizzato da

Autopoiesi

Olografia

Olisticità

Può essere rappresentato con un modello complessivo che è quello di una rete a nodi protagonisti. Cioè una rete autopoietica.

Utilizzando questa la metafora è possibile:

capire perché nascono le resistenze al cambiamento.

progettare processi di cambiamento che permettano di utilizzare tutte le energie organizzative per realizzare il cambiamento non per opporsi ad esso.

Come primo risultato, il modello della rete autopoietica permette un primo rilevantissimo progresso: descrivere la dimensione informale dell'organizzazione.

Dai famosi studi di Elton Mayo in avanti, tutti sono sempre stati convinti dell'esistenza, accanto alla dimensione formale, anche della dimensione informale dell'organizzazione.

Questa dimensione informale è, per il vero, sempre stata considerata "dannosa" perché impediva il raggiungimento della efficienza perfetta. Ma è la parte in cui si esprime la complessità dell'uomo. E, quindi, nessuno se l'è mai sentita di prendersela apertamente con una parte dell'organizzazione che, oggettivamente, sembra costituire una palla al piede nella ricerca della massima efficienza.

In questi anni si è andata completando, con dovizia e ricchezza, l'esplorazione della parte informale dell'organizzazione. Oggi gli studi manageriali più avanzati riconoscono che essa è costituita da molte "parti".

Una dimensione psicologica che rivela come molti comportamenti e decisioni organizzative nascano dalle situazioni psicologiche profonde delle persone. Anche i comportamenti e le decisioni strategiche dei managers. In particolare il modello del manager "duro e puro", oramai diventato oggetto, dopo decenni di mitologia formativa, di stereotipi da vignetta, si dimostra di grande primitività psicoanalitica.

Una dimensione sociale che spiega il formarsi dei gruppi sia interni che esterni (gli attori sociali) all’organizzazione. E suggerisce modalità di relazione che trasformino il conflitto in cooperazione.

Una dimensione politica che spiega le fonti del potere, le sue dinamiche (il formarsi di coalizioni, ad esempio) e suggerisce strategie perché le energie sprecate in giochi di potere possano trasformarsi in energie imprenditoriali.

Una dimensione culturale che spiega il nascere di riti, miti, storie che fissano il passato, ma possono aiutare anche a costruire il futuro.

Una dimensione estetica che costituisce il richiamo all’utilizzo di linguaggi e di parametri di giudizio completamente diversi dagli attuali (un piano strategico si realizza quando è bello e non quando è "quello giusto").

Purtroppo, anche se rilevanti, i progressi nell'esplorazione della dimensione informale dell'organizzazione sono stati parziali. Diciamo questo per due ragioni di fondo.

La prima è che questi progressi non sono stati usati. Quale impresa ha mai utilizzato la prospettiva psicoanalitica per comprendere comportamenti o relazioni? E sarebbe stato utilissimo farlo! Si sarebbe ,ad esempio, potuto capire perché lo sviluppo del sistema bancario somiglia, invece che ad uno sforzo comune di progettualità di tutti coloro che lavorano nella banca, ad una partita di risico.

La seconda ragione è che lo studio di queste dimensioni informali dell'organizzazione è stato condotto ancora…Leibniz like! Cioè utilizzando un punto di vista riduzionista che impedisce di cogliere la struttura profonda di queste dimensioni.

Non pensiamo sia il caso di approfondire il tema in questa sede, ma proponiamo solo un "assaggio" di quanto abbiamo dichiarato. Ad esempio, per affrontare la dimensione culturale di una organizzazione, si comincia con uno sforzo di "analisi" che costringe a spezzare l'organizzazione in parti alle quali si attribuisce significato autonomo.

Detto in altro modo, per evidenziare più chiaramente il paradosso: si scopre che una organizzazione ha dimensioni diverse dalla dimensioni formale. Sono dimensioni complesse, invece che semplici. E come si analizzano queste dimensioni? Come si analizzano i sistemi semplici. Che è il modo più sicuro per distruggere e, quindi, non vedere la complessità.

Noi proponiamo, invece, come metafora per descrivere ognuna di queste dimensioni la rete autopoietica.

…che permette di tornare ad usare le emozioni…

Il famoso detto latino "Nomina sunt consequentia rerum" funziona anche al contrario. Detto più "filosoficamente": la realtà è frutto del tipo di linguaggio che si usa per costruirla.

Il punto di vista di Leibniz è anche linguaggio. Egli propone il "calculemus" come processo per scoprire la verità. Cioè propone un linguaggio digitale, spezzettante. Noioso e pedante! Incapace di costruire nuovi mondi.

Noi, invece, vogliamo costruire nuovi mondi. Vogliamo sostituire la insoddisfazione del presente con la soddisfazione del futuro. Vogliamo stimolare la creazione di un sistema bancario che disponga di una nuova capacità di produrre valore personale, economico, sociale e culturale.

Per far questo dobbiamo per forza usare un nuovo linguaggio.

L'utilizzo della metafora delle reti autopoietiche ci costringe ad usare i linguaggi del cervello destro. Per descrivere e costruire un sistema (una rete) che sia autopoietico, olistico ed olografico, non potremo che usare i linguaggi del cervello destro.

Per conseguenza ci aspettiamo che il nostro discorso cominci a diventare meno noioso, più immaginifico…

Per concludere, ancora una volta il linguaggio dell'imprenditore è il linguaggio del cervello destro. Il linguaggio con il quale costruisce la sua impresa che, come ogni impresa umana è solo e soltanto un'opera d'arte. Oppure nulla.

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