INCONTRI A MILANO, OVVERO LA RICERCA DEL LAVORO
Milano, 9 settembre 2003
I
ricordi si susseguono, lasciando ciascuno il passo a qualche affondo
sentimentale; soprattutto immagini o piccoli frammenti, non tanto perché
testimoni di momenti fuggiaschi, quanto per ribadire il loro carattere
di unicità e dissolvenza…quando un’immagine sopravvive
all’oblio perché ancora “significa”, si riflette
in una volizione e trova un’amante ancora disposto ad aprirle
un varco.
Ecco camminavo in quel palcoscenico che è Milano, città
fatta di comparse e continue voci fuoricampo.
Perché vergognarmene, si è vero sono rimasto senza lavoro,
o meglio qualcuno dotato di nome, un giorno mi ha chiamato e ancora
con un foglio che preannunciava la fine già posato sul tavolo,
ha intonato un monologo formale, come un parcheggio, per un automobile,
è l’ultimo gesto prima della sosta.
E d’incanto, ma non trattasi di magia, le strade i gomiti dei
passanti o le sagome indistinte di una moltitudine che attraversa le
metropolitane…sono diventate grigie, ed un vociferare come una
risacca alla deriva ha offuscato la mia percezione.
Ricordo molto bene di quel giorno, il tratto che mi portò dal
non più ufficio, a casa….era estate e c’era la mia
ragazza.
Ho pianto anche se sono uomo, venendo meno ad un’immagine da cartellone
che ci vuole solidi nella mascella e nel conto corrente.
Ho sudato.
Mi sono sentito border line.
Ho visto vuoto per un istante il barattolo della mia Nutella.
Non ho sentito l’odore dell’ammorbidente, perché
non c’era più una camicia, l’indomani a darmi il
buongiorno.
I miei sentimenti oggi come coriandoli gettati da una mano di un bambino
lontano, che vuole per se un sogno.
Nel cruscotto di qualsiasi automobile c’è un pulsante che
sa di molta filosofia…reset…e come fare quando
la spesa la facevi alle 18:30 o in pausa pranzo…quando il termine
dialettico non gioca più a ping pong?
Tu lanci la palla e questa cade dal tavolo, all’infinito…perché
non c’è secondo giocatore, anche se le palle sono infinite,
infinite sono le volte che cadranno nuovamente a terra.
Ti fai forza, recuperando innanzitutto un senso di unicità, di
baricentro; invocando un equilibrio i cui vettori non spingono in una
sola direzione…rinasci nel piccolo gesto…nella fragilità
del nuovo ordine c’è spazio anche per la dolcezza e la
non condanna.
Occorre capire.
Occorre desiderare.
Mi
è sempre piaciuta la fotografia, la scoperta di un immagine da
dietro l’obiettivo; mio padre mi ha insegnato che uno zoom
può essere si utile, ma è anche pericoloso…le immagini
non sono clinex, non mi piace fotografare per avere una cartolina…le
“Tre cime di Lavaredo” sono oggettivamente belle e tali
rimarranno oltre le sorti di un mio click.
A volte vogliamo ritrarre qualcosa che non subito è a nostra
portata di mano…dobbiamo costruire la nostra prospettiva, evitare
la schiena di un passante o forse arrampicarci sul dorso di un cassonetto
o in cima ad un albero; ma ci sono anche delle volte in cui forse non
ci arriviamo ed è meglio così, perché lo abbiamo
scelto.
Quello che mi ha da subito spaventato era di trovarmi in una situazione
in cui non avevo scelte.
Calma piatta.
Oggi sono passati poco più di due mesi e mi sento fiducioso.
Non reso entusiasta dalla stanchezza dell’incertezza o da un insensato
ottimismo, ma dalla fiducia, dalla promessa di regalarmi una passeggiata
in centro sorridente, dal sentirmi di nuovo leggero e parte dell’ingranaggio.
Ecco
perché è importante parlare di ricordi, di fotografia
e di lavoro…perché siamo sempre un unico corpo anche se
con delle falangi, degli spazi di vita che si rincorrono, dei doppioni
o a volte solo ombre…comunque perché negare la gioia di
guardarsi intorno una mattina di settembre, con il cielo grigio di una
Milano normale, che si sveglia…con la frutta nei banconi, qualcuno
che attraversa la strada, chi legge o chi da solo gesticola, ad un occhio
più attento…ha un auricolare.