L'ORGANIZZAZIONE
COME METAFORA
di Giuseppina Grimaldi
Oggi il concetto di organizzazione è uno di quei concetti che tutti utilizzano, per definire una miriade di situazioni e di bisogni. Una migliore organizzazione, un organizzazione appropriata… tutte espressioni di bisogni che rimandano alla necessità più svariate: si parla di migliorare l’organizzazione per soddisfare esigenze di efficienza di efficacia e spesso addirittura di ordine e di condivisione.
A tutti i livelli delle nostre società cosiddette “complesse” l’esigenza di una migliore ed efficiente organizzazione risulta essere uno dei crucci maggiori, che tolgono il sonno alle autorità preposte alla ricerca della ricetta ottimale che ridia lustro alle organizzazioni.
La ricerca estenuante di una migliore, ottimale organizzazione è caratterizzata dalla stesura di piani di attuazione, fasi, modelli, tutti strumenti tesi a plasmare l’organizzazione e riportarla nelle maglie e griglie “ottimali”, “studiate”. Credo sia impossibile per chi lavora da tempo, non avere assistito almeno una volta nella vita lavorativa ad una “famosa svolta” organizzativa, il nuovo modello faticosamente cercato per anni. Tanti sforzi profusi. Una domanda sorgerebbe spontanea: quanti degli interventi risolutivi definitivi raggiungono il traguardo? Quanti dei modelli organizzativi risultano essere realmente risolutivi? La risposta è evidente, spesso rispetto agli sforzi profusi i risultati sono miseri, se non peggiorativi. Allora cosa distingue un intervento risolutivo da un intervento non risolutivo? Perché un’organizzazione risulta a parità di condizioni migliore di un’altra? Certamente sono domande troppo semplicistiche, esiste una vasta bibliografia a riguardo, teorie varie, modelli di interpretazione altrettanto vari.
In queste pagine il tentativo è quello di non partire da una teoria o modello, non cercherò di confutare una tesi o di sconfessare un’altra. Cercherò al contrario, partendo dalla mia esperienza quotidiana di analista di un’organizzazione sanitaria, di tracciare un quadro di quelli che sono secondo la mia esperienza le caratteristiche dell’organizzazione, quali i nodi sui quali è possibile far leva.
Per riprendere la tematica
della “ricetta miracolosa”, penso alle varie occasioni nelle
quali mi sono cimentata alla ricerca del modello organizzativo consono e
ai vari tentativi di incastrare una realtà dentro alle maglie di
un organigramma. Quando cerco di analizzare un’organizzazione e le
sue disfunzioni cerco di immaginare quell’organigramma pieno di facce,
è un esercizio interessante con il quale l’organigramma prende
vita.
Infatti, i visi delle persone che ricoprono i vari ruoli, forniscono allo
sterile disegno una connotazione umana e ci ricordano che l’organizzazione
è una realtà essenzialmente virtuale. Trovo alquanto interessante
come la nostra attenzione di uomini e donne delle società complesse,
sia catturata dalla necessità di un’organizzazione migliore,
ma cos’é l’organizzazione? In pratica non esiste è
qualcosa di assolutamente “effimero”, eppure sempre più
vive di vita propria come un essere che ha una sua connotazione sociale,
storica. E’ una costruzione dettata dalle nostre esigenze di umani
che necessitano di regole, norme, modelli, idee ai quali riferirsi per darsi
un codice comune con il quale parlarsi, intendersi ed appunto organizzarsi;
ma se l’organizzazione è una costruzione umana al fine di darsi
delle regole riconosciute da tutti i componenti dell’organizzazione,
al contrario sempre più è divenuta una costruzione a sé,
staccata dagli esseri umani che la vivono che l’attraversano. L’organizzazione
è sempre più un prodotto-soggetto piuttosto che uno strumento,
qualcosa che si alimenta da sé e non uno strumento utile per. Gli
obiettivi dell’organizzazione le finalità dell’organizzazione,
spesso si perdono nei rivoli di norme statuti, modelli…
L’organizzazione è la rappresentazione della modalità
umana di comunicare con un altro essere, di darsi una regola per insieme
condividere un compito e raggiungere uno scopo. Se questo è vero
i nostri progetti di riorganizzazione, di miglioramento dovrebbero tendere
a investigare, se veramente un’organizzazione può rispondere
meglio di un’altra a questo tipo di bisogno umano, oppure se risponde
ad altre esigenze.
La domanda che mi pongo nell’affrontare un’organizzazione è
se le facce dell’organigramma capiranno l’intervento o meno:
potrà migliorare, rinsaldare il contratto stipulato tra loro per
la definizione di norme e regole comuni? Quanto l’intervento organizzativo
è risolutivo di un problema che colpisce l’organizzazione?
Quest’ultima trovo sia la domanda cruciale al quale ogni analista
onesto dovrebbe realisticamente rispondere.
Spesso un problema di leadership è risolto con una rimessa in discussione
delle regole e delle norme. Il rimescolare le carte serve a nascondere il
problema di fondo, spesso impossibile da risolvere. Allora l’organizzazione
è chiamata in causa, smembrata studiata, stirata, allargata, condivisa,
pur di non svelare il nodo reale.
L’organizzazione diviene il capro espiatorio di un processo difficile
che dovrebbero compiere le persone, ma si sa è più facile
spostare competenze, allargare ruoli, aggiungere caselle in uno schema di
rapporti virtuale che nella realtà. Affrontare i reali problemi che
un intervento organizzativo tenta di risolvere virtualmente, significa fare
interventi sulle persone e con le persone, promuovere un nuovo contratto
tra la gente, lavorare insieme e insieme trovare le nuove coordinate. E’
chi paga tutto questo? Chi si fa carico in un’organizzazione di sostenere
un peso di tale portata? Peso non economico, ma essenzialmente relazionale
e di conseguenza emotivo. Spostare una casella non implica una condivisione
con la persona alla quale la casella è stata affidata, abbiamo spostato
un numero un ruolo preciso nel quale abbiamo calcolato i benefici per la
nostra rete virtuale di compiti e responsabilità. Chi coprirà
il ruolo non ci importa con quale modalità potrà affrontare
tutto ciò, non importa non siamo “analisti di emozioni”,
siamo analisti di organizzazione, per definizione qualcosa di dato oggettivo
e razionale. Allora mi chiedo quanto di razionale esiste oggi nelle nostre
organizzazioni.
Un ulteriore problema che
si pone a chi quotidianamente approccia l’organizzazione è
il mantenimento delle regole. Come far si che un processo possa essere mantenuto
vivo? Esistono tecniche sofisticate per individuare parametri, misuratori
di un processo, per far si che l’organizzazione nuova di zecca non
venga disattesa. Eppure non appena si volta la faccia verso nuovi orizzonti,
i nostri processi assumono le caratteristiche di un’aiuola non potata.
In questo senso si potrebbe introdurre un ulteriore metafora: la metafora
del giardino. Il giardino può essere la metafora dell’organizzazione.
Un giardino per essere apprezzabile deve essere progettato, le aiuole non
possono accavallarsi le une sulle altre, i sentieri tracciati e lo spazio
appropriato per ogni cosa, essendo esseri viventi che si sviluppano, un
giardiniere che si rispetti terrà conto delle capacità di
ogni pianta, oggi per il futuro. Cercherà di consentire lo sviluppo
di ogni singola pianta secondo la propria necessità e caratteristica.
Il giardiniere sa che non si potrà avere un giardino armonico senza
avere pensato prima e valutato il carattere ed il peso di ogni singolo elemento
del sistema che sta componendo.
Un posto per ognuno, nel rispetto di ciò che ognuno è.
Ulteriore problema per il giardiniere è il mantenimento dell’armonia,
le piante si sa crescono si sviluppano e non sempre un ramo cresce nella
direzione voluta o sperata, l’erba difficilmente capisce che non deve
arrampicarsi su un arbusto strozzandolo, è come se ogni pianta pensasse
per sé stessa. Pertanto, il compito dell’essere umano in un
giardino, è quello di ristabilire le regole, continuamente, tosando,
rasando, vangando, estirpando. Il giardiniere deve imporre allo sviluppo
dei singoli l’armonia del sistema, facendosi carico delle singole
piante e del loro sviluppo.
Questo è il suo compito.