Taylor e dintorni. Un tentativo di risposta al contributo di Zanini.
Caro Zanini,
Bloom nasce da persone che operano
in azienda e per persone che operano in azienda, che ogni giorno si scontrano
con realtà resistenti al cambiamento come quella in cui opera lei.
E vorrebbe fornire chiavi di lettura per riuscire a "trovare la via"
per attivare veramente processi di cambiamento di sistemi organizzativi e culturali
complessi.
Ai miei collaboratori faccio due palle così sull'importanza di leggere,
razionalizzare, costruirsi un metodo o apprenderlo da chi lo ha già sviluppato.
Per non parlare della necessità di essere concreti, scendere sul campo,
essere al fianco di chi lavora in line per poter capire, quindi aiutare a cambiare
o semplicemente a lavorare meglio. (a volte già la pretesa di essere
agenti di cambiamento è una esagerata presunzione, più ragionevolmente
possiamo essere degli enzimi, dei facilitatori, degli aiutanti).
Quando avvio un progetto di sviluppo organizzativo voglio costruire qualche cosa, essere efficace, incidere e comunque sempre creare valore aggiunto alla mia organizzazione.
Con il tempo però mi sono accorto
che Taylor non basta (ma se ne erano già accorti 30 anni fa), il che
non vuol dire che si debba rinunciare ad un approccio razionale o ad essere
concreti; il problema è che si deve aggiungere altro, altri punti di
vista, altre possibilità, altre culture.
L'approccio etnografico non sostituisce la storia dell'organizzazione, vi si
aggiunge.
Alla complessità bisogna rispondere con la complessità per evitare
risposte semplicistiche; certo alla fine dovremo scoprire una nuova semplicità
che non sarà più figlia di un processo di "riduzione",
ma di sintesi.
I grandi imprenditori hanno un dono innato alla sintesi, sapendo astrarre dalla
complessità dei mercati una formula apparentemente semplice in grado
di fornire un vantaggio competitivo duraturo alla propria azienda. Solo apparentemente
semplice, infatti i grandi imprenditori sono pochi (qui per imprenditore intendo
colui che costruisce una nuova business idea, crea una nuova azienda o sviluppa
l'azienda in cui lavora).
Ridurre la complessità non aiuta a trovare soluzioni e poiché
le organizzazioni non sono macchine Taylor non basta.
Dobbiamo ampliare i nostri orizzonti,
ma nel fare questo, qui concordo con lei, non dobbiamo innamorarci di idee e
metodi, sia pure stimolanti e affascinanti. Dobbiamo invece confrontarci continuamente
con la realtà, dove siamo chiamati a produrre valore (si anche noi staff),
a gestire criticità, a fornire risposte.
In questo senso ammiro l'approccio alla complessità del Santafe Institute,
che non è solo filosofico e "culturale" (nel senso che purtroppo
si da di antitetico a operativo, pratico, ...), ma mirato alla soluzione di
problemi reali di business e non solo (v. link al SFI).
Lo sviluppo degli studi sulla complessità gli americani risponde ad un'esigenza
di trovare risposte a problemi complessi dove approcci razionalistici e lineari
hanno prodotto solamente risposte banali e inadeguate. Analogamente alla nascita
della matematica dei frattali, che nasce per rispondere a domande alle quali
la matematica tradizionale non riusciva a rispondere.
Per quanto concerne la mia esperienza
lavorativa, la ricerca di nuovi approcci è stata dettata dall'esigenza
di portare risposte efficaci a problemi reali, dove le metodologie tradizionali
avevano fallito (v. "BPR nelle assicurazioni",
"ripensare il BPR") e dall'esigenza di includere le persone nei
modelli organizzativi. Quest'ultima deriva in parte da una mia personale inclinazione,
ma trova riscontro nella operatività quotidiana, dove ho potuto riscontrare
l'importanza di cambiare i paradigmi. Dove l'approccio scientifico tende a operare
su elementi oggettivi, io ritengo, per averlo provato, che il cambiamento si
manifesti principalmente nella sfera del soggettivo, del psicologico e della
cultura.
Quindi è in queste direzioni che ho dovuto muovermi per riuscire ad essere
efficace nella mia attività di facilitatore del cambiamento.