AVERE LA VISION E POI SPORCARSI LE MANI. OVVERO: TAYLOR AVEVA RAGIONE
di Giuseppe Zanini
L'autore fa sapere di essere incocciato
in Bloom quasi per caso, cercando altro. Propone questo testo "per la sezione
domande&risposte". Preferiamo pubblicarlo nei Contributi, perché
offre un diverso punto di vista attorno ai temi toccati da altri due contributi
recentemente pubblicati: Soluzioni nuovissime o cretinate?
e Keep it simple!. Con questo, non intendiamo evitare
la richiesta di una risposta. Una risposta assoluta e giusta, però, ovviamente
non esiste. E' bello giustapporre opinioni diverse, frammenti di verità
filtrati dall'esperienza personale.
F.V.
Cari amici di Bloom,
vi scrive un "diverso". Sono uno di quelli che (per caso) si è
infilato in quello strano mondo che si chiama pubblica amministrazione.
Lavoro come amministrativo in un servizio sociale pubblico. Non sono né
un frate né un assistente sociale: sono uno che avrebbe la pretesa di
fare il quadro (non quello che si appende coi chiodi alle pareti) in un posto
dove l'obiettivo sta nello spendere soldi pubblici, piuttosto che fare soldi
privati (=profitti), e mi pagano presumibilmente per farlo bene.
Nello spirito di Bloom - che spero di aver colto navigando velocemente tra i
suoi contenuti/contributi - vi svelo la mia metafora lavorativo-esistenziale:
tentare di introdurre nel quotidiano lavorativo (si dice anche: nel mio piccolo)
pillole di razionalità gestionale in processi lavorativi che non li richiedono,
non li ritengono né li hanno mai ritenuti necessari, li vedono come imposti
dall'esterno. Peggio: in un mondo convinto che perché si dedica al Sociale
(agli ultimi, ai più deboli, ecc..) è necessariamente giustificato
qualunque cosa faccia (mi riferisco evidentemente ai profili organizzativi e
gestionali dei programmi di intervento sociale) ed è destinato al paradiso.
Dopo un percorso formativo da autodidatta - abbastanza tipico nel mondo della
pubblica amministrazione - approdo ad una tesi in Scienze Politiche in cui ho
tentato piuttosto grossolanamente di conciliare il diritto (da sempre il solo,
vero motore della p.a.) con qualche metafora manageriale. Né ho partorito
un titolo piuttosto presuntuoso: "la produttività del pubblico dipendente".
Ne ho poi fatto una scelta di vita (professionale): cambiare nella p.a. in meglio
si può, basta che il cambiamento non ci venga dal privato, ma, piuttosto,
da un privato riletto da chi è già dentro il pubblico e:
a) ha sufficiente apertura mentale per non rigettarlo aprioristicamente (del
tipo: tanto il 27 arriva comunque);
b) essendo dentro e - permettetemelo - credendoci, ha più probabilità
(ma sarà poi vero?!) di riuscire in quel necessario sforzo di adattamento
delle tecnologie gestionali alle peculiarità della p.a., che mi pare
ben più difficile in chi dal privato ritenga di "calare" nel
pubblico.
Oggi ho qualche anno, qualche esperienza
e qualche buona lettura in più (ars longa..).
Due sole idee condivido ancora con quel me stesso che scrisse quella presuntuosa
tesi di laurea:
- qualunque processo di cambiamento in termini organizzativi e gestionali deve
ancor oggi misurarsi con la "forca caudina" delle norme giuridiche,
in particolare con quelle del diritto amministrativo. Quest'ultimo, nei fatti
e nella cultura della p.a., rappresenta ancora un insuperato paradigma, organizzativo
e financo comportamentale. Profondamente snellito, in via di superamento, ma
non ancora sostituito da un paradigma alternativo capace di riporlo, soprattutto
sul piano culturale, nel dimenticatoio;
- il diritto dell'utente, che ci chiede servizi, è un diritto finanziariamente
limitato dal budget disponibile. Detto altrimenti c'è un trade-off inconciliabile
(ma la nostra sfida quotidiana è tutta lì e io sono di quelli
che se la vogliono giocare fino in fondo) tra i mille bisogni/desideri del cliente
(sì, stavolta il termine è corretto) e quel bisogno di razionalità
economica che ci conduce, nel pubblico, a perseguire strategie di contenimento
dei costi.
Tra qualche giorno cambierò
ancora pubblica amministrazione e lì dove andrò mi aspetta la
prospettiva di sempre. Riorganizzare servizi, contenere i costi, orientare i
servizi ancor di più a bisogni e clienti
ovviamente con i vincoli
di sempre: budget invariato, cambiamenti costo zero e le nostre amate norme
(che cambiano, si semplificano ?!, ma permangono).
Da buon scolaretto, ho rimesso mano ai miei libri (ma li avevo poi mai lasciati?),
sono persino calato di peso (mens sana..), pronto sul nastro di partenza!
Penso anche di aver letto bene: 50% di BRP d'un verso e un po' di Quaglino -
di cui amo gli approcci psicoanalitici alla dimensione informale dell'organizzazione
- dall'altro. L'idea era: razionalità da un lato e (banalizzo, ma Quaglino
che non conosco ma che mi pare persona intelligente, spero non si offenderà
per la reductio) saggezza d'altro.
Poi sono incappato in Bloom (cercando non mi ricordo più che cosa di
statistica) e ho fatto flop.
Ma come?! Tutto qua? Vorreste dire che acquistando il mio primo manuale di management
e soprattutto imponendomi di leggerlo in un contesto che di management se n'è
sempre fregato, ho iniziato (come ha sempre sostenuto mia moglie) a buttare
dei soldi?
Vorreste dire ancora che il mio capo che snobba il mio "abuso di anglicismi
manageriali impropri" nella documentazione di budget del servizio e che
impiega il suo tempo libero leggendo libri d'arte ha più probabilità
di me di essersi avvicinato alla Verità organizzativa? (del resto, se
il capo è lui.. ci sarà pure una ragione)
Che il Knowledge Management non è altro che qualche buona lettura di
classici e di filosofi?
Che l'essermi rotto le palle sui manuali di statistica alla ricerca di improbabili
correlazioni tra bisogni e servizi è stata solo una chimera?
Che quella vocina che (in verità da sempre) mi fronzola nel profondo,
suggerendomi che la strada che ho scelto - step 1: leggi la manualistica della
Franco Angeli (et similia); step 2: traducila in "pubblichese" - è
stata una cavolata?
Che un giro in bicicletta - e non il duro lavoro nel quale la razionalità
te la sudi passo dopo passo - è la vera essenza del kaizen?
Scusatemi, non sono d'accordo.
Sarà anche vero che lato destro del cervello e l'analisi degli interstizi
sono importanti ma a me parrebbe più onesto premettere che per chi si
ponga finalità eminentemente operative esiste il dovere di semplificare
la situazione - pur percependo appieno la reale complessità - e partire
da premesse di tipo operativo quali, che ne so: "Taylor aveva sacrosantamente
ragione".
Detto questo, dato che siamo uomini e non cyborg, è scontato notare che
il taylorismo sta alla quotidianità del lavoro organizzativo come la
Bibbia sta alla massa reale dei credenti, che non diverranno santi se non in
ridotta minoranza.
Ma la premessa rimane: là sta il vero (ripeto: in un'ottica meramente
operativa) per quanto concretamente e umanamente irraggiungibile. Né
vale obiettare che il vero e men vero per il solo fatto di essere conseguibile
solo parzialmente (mi pare che in tali casi sia d'uopo parlare di razionalità
limitata).
Ricordo una storiella - e poi la smetto di tediarvi - di uno che chiedeva ad
un grande maestro di scacchi come mai con la sua sconfinata intelligenza si
fosse ridotto in povertà. Questi rispose che gli scacchi e la vita non
vanno d'accordo: sulla scacchiera dell'esistenza reale, non tutti i pezzi sono
sempre in vista, a differenza di quanto accade su quella del gioco, sicché
al giocatore pur abile l'asimmetria informativa (come direbbe un economista)
non consente le medesime geniali soluzioni profuse nel gioco.
Io con quel personaggio condivido la passione per gli scacchi, non nutro per
lui alcun umano rispetto. Non basta infatti aver letto la bibbia per salvarsi:
occorre in pratica essere un buon cristiano.
Fuor di metafora, letta la lezione, occorre adoperarsi per razzolare bene. Avuta
la "vision", ti devi sporcare le mani.
OK allora alla new age manageriale e all'approccio olistico: ma la vita (che
per la gran parte passiamo lavorando) mi sembra è una cosa troppo breve
(e seria) per gettare la spugna e rifugiarsi negli improbabili interstizi.
Una volta ho chiesto ad un amico, piccolo imprenditore del nord-est, perché
non si fosse ancora certificato Iso: mi rispose mostrandomi una scritta sul
retro della sua piccola (ma megagalattica) officina automatizzata. Diceva: "la
qualità sono io".
Un presuntuoso o il degno figlio di un'onesta civiltà contadina?
Capisco anche - e adesso chiudo davvero - il punto di vista del formatore: propone
modelli e strumenti, li corrobora di "best practices" usa invece quelle
"bad" quale utile viatico per apprendere dagli errori altrui e poi
si scontra con l'inadeguatezza del riscontro operativo.
Dove sta il problema? Non è evidente la differenza che passa tra il proporre
modelli e tecniche e conseguire le soluzioni ai problemi?
Saper descrivere i passaggi logici di un processo non significa necessariamente
avere la chiave per risolvere il problema sotteso all'implementazione del processo
stesso: men che meno, poi, se consideriamo l'intera classe dei problemi reali
coerenti con tale percorso logico: ciascuno assolutamente diverso (mi verrebbe
da declinare qualche menata del tipo: "il mondo non è matematico"
o similari. Beh, ci siamo capiti).
Qua mi sa che l'obbligo di vendere il sapere in un mondo zeppo di venditori
fa confondere il marketing (che serve e non può comunque prescindere
dal far sfavillare qualche lustrino sotto gli occhi del potenziale acquirente)
con i contenuti. La presunzione non sta forse nel pretendere di vendere soluzioni,
quando, al più, si possono fornire kit di strumenti tutti da testare
e da adattare, e non dal fornitore del kit conoscitivo, ma da chi opera sul
campo?
Grazie a chi ha avuto la pazienza di leggere. Ancora di più a chi si imbarcasse in una risposta.