BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 08/12/2008

 

PERCHE' L'OLIVETTI NON C'E' PIU'? (1)

di Francesco Varanini

Celebrazioni e presunzione
Si celebrano i cent'anni della fondazione: nell’ottobre 1908 nasce la società in accomandita
semplice Ing. C. Olivetti & Co.. Con la mania degli anniversari che perseguita i giornalisti, e anche certi esperti di comunicazione, ci saremmo potuti aspettare più pagine e più eventi. C'è anche da dire che le celebrazioni che hanno avuto luogo hanno lasciato abbastanza a desiderare. Del recente convegno promosso dalla Fondazione Istud (2), per esempio resta nel ricordo l'incolore esibizione di Professori Ordinari di Storia Contemporanea, Professore Emeriti, ex Rettori, Dirigenti della Pubblica Amministrazione, Direttori Scientifici assortiti, giornalisti.
Pubblico in gran parte di anziani. Unico intervento magari anche criticabile, ma intenso e appassionato quello di Rosario Amodeo, Amministratore Delegato di Engineering - Ingegneria Informatica: un imprenditore che nella sua vita è riuscito a fare qualcosa. Sapeva di quello che parlava, e con motivo rivendicava l'orgoglio di chi ha salvato qualche pezzo dell'immenso patrimonio olivettiano. Un patrimonio di cultura d'impresa, di modelli di business, di competenze e di tecnologie, di italianità e di orientamento al mercato globale.
Interessanti anche le parole di Federico Butera, non parole di docente ma ricordi di giovane neoassunto. Spiacevole invece l'intervento Pierpaolo Perotto, chiamato a ricordare il padre Pier Giorgio Perotto, che negli anni sessanta aveva progettato la macchina che conosciamo come Programma 101, e che ricordiamo come la vera antesignana dei personal Computer. Chiamato a ricordare il padre, Pierpaolo, che a sua volta ha lavorato in Olivetti, lo parla solo di sé, esaltando il proprio ruolo.
Un atteggiamento diffuso, che accomuna figura professionali diversissime: manager, tecnologi, commerciali. La storia Olivetti è troppo di frequente usata da persone che in quella vicenda ebbero un qualsiasi ruolo, alto o modestissimo che sia, e che ora usano questa storia per celebrare se stessi, o per difendere se stessi dal mondo.
Chi ebbe la ventura di lavorare all'Olivetti, troppo spesso, tende a mantenere l'atteggiamento dell'eletto. Baciato dal destino, crede forse di meritare per questo onori e rispetto e successo. La presunzione sostituisce la sostanza.
Costoro, invece di farsi belli di un passato di cui hanno usufruito, dovrebbero forse invece rispondere a una domanda precisa: perché l'Olivetti non c'è più?

False spiegazioni
Si è ripetuto in quel convegno ciò che in altre sedi era già stato ampiamente detto: la storia Olivetti è un caso degno di essere studiato, un caso esemplare. Sì, è vero. Ma il caso più interessante da studiare sa nella sua fine. Nessuno l'ha raccontata bene questa storia. Tutte le spiegazioni -di testimoni, di manager sopravvissuti, di studiosi- le trovo insoddisfacenti.
Penso alla fine ingloriosa dell'Olivetti, lenta fine che è iniziata con la morte di Adriano, nel 1960, a soli 59 anni. Agonia che si è prolungata fino a tutti gli anni novanta – in qualche modo fino ad oggi.
L'Olivetti non è scomparsa a causa di carenze finanziarie. Le risorse finanziarie non sono mai mancate. (Così come non mancano oggi). Il problema degli investitori è semmai quello di non capire nulla di tecnologie. Ma sta a manager e imprenditori spiegare.
L'Olivetti non è mancata certo per carenze tecnologiche: sia al tempo del Mainframe, sia al tempo del Personal Computer è giunta preparata.
L'Olivetti eccelleva nell'hardware e nel software. Questa non è certo una condizione di svantaggio. Un management intelligente avrebbe potuto scegliere.
L'Olivetti non è stata penalizzata dalla localizzazione. Aveva siti produttivi in luoghi diversi e antenne tecnologiche negli States. E comunque il luogo non è mai un fattore di successo insuperabile. Come si producono automobili dovunque, così dovunque si può produrre hardware. Per il software, poi, il luogo non esiste – e basterebbe ricordare i successi dell'India.
Negli stessi anni in cui l'Olivetti periva e deperiva in garage californiani, con risorse enormemente minori di quelle di cui disponeva l'Olivetti in quegli anni, è nata dal nulla, una tra le tante, la Apple. E negli anni in cui l'Olivetti, dopo iniziali successi, non è riuscita a stare al passo nel mercato dei Personal Computer cloni del PC IBM, la Compaq, che prima rincorreva l'Olivetti, si afferma come grande industria.
E nemmeno può dirsi che l'Olivetti sia stata rovinata da carenze di Studi & Ricerche & Sviluppo. Le teste, nelle università italiane, erano ottime. Una azienda prestigiosa attrae talenti di qualsiasi provenienza, se vuole. E poi l'Olivetti aveva una tradizione di scuola interna. Natale Cappellaro, Mario Tchou, Pier Giorgio Perotto non erano stati comprati a peso d'oro sul mercato dei talenti, erano cresciuti in Olivetti.
Si sostiene anche che esisteva un problema familiare, un problema di passaggio generazionale. Il problema c'era veramente, credo. Ma la Fiat, per parlare del più evidente caso di capitalismo familiare italiano, proprio negli anni della crescita e della crisi dell'Olivetti, mostrava con Vittorio Valletta come si può supplire brillantemente ad un vuoto generazionale.
Ho sentito anche dire che il fallimento dell'Olivetti è dovuto alla mancanza di regole che caratterizza il capitalismo italiano. Ma anche questa è una spiegazione che non regge. E' prendere il problema troppo da lontano. Se proprio proprio, dico, una impresa può radicarsi altrove, qualcuno l'ha fatto,  andando a cercare nello scenario internazionale luoghi retti da regole più sane o più precise. E poi -e dovrebbe proprio essere il caso dell'Olivetti, che ha creato dal nulla una cultura d'impresa e anche una città, Ivrea- chi se non  un'impresa deve e può creare per sé le proprie regole, il proprio ambiente.

Persone
Poi si passa alle colpe ben indirizzate verso persone. Dire che Bruno Visentini, grand commis (recita il dizionario: 'funzionario d’alto rango di una pubblica amministrazione'), signorile abitatore di salotti buoni, dire che Visentini non era un imprenditore, e non capiva nulla del business, e forse di business in generale, è dire cosa ovvia.
Dire che Carlo De Benedetti, rampante finanziere con pretese di imprenditore, allora reduce da rapido e infelice raid alla Fiat, dire che De Benedetti non era l'uomo giusto al posto giusto, è sparare sul bersaglio facile.
Entrambe persone con la penna d'oro in mano, pronti a firmare accordi, a proprio agio nel mondo della finanza ma abissalmente lontani dalla fabbrica.
Mi porrei piuttosto qualche altra domanda. Perché la scuola Olivetti non aveva formato nessun manager in grado di garantire la successione. Magari all'ombra di Visentini e De Benedetti, magari in coabitazione. Nessuno in grado di tenere dritta la rotta e di valorizzare le enormi risorse di cui l'impresa disponeva.
Certo, dalla scuola Olivetti sono emersi ottimi professionisti – tecnologi, ingegneri, e professionisti delle Risorse Umane, del Marketing. Persone che debbono tutto a quella scuola, e che credo abbiano motivi di rimpianto: un'azienda così non credo l'abbiano poi più ritrovata.
Ma credo che proprio questi professionisti abbiano motivo di rimpiangere il fatto che dì lì non è emerso nessun manager veramente all'altezza.
Eppure, solo un manager cresciuto all'interno -per la natura stessa dell'Olivetti, così legata a una cultura, a una storia- avrebbe potuto garantire all'Olivetti un futuro.

Cosa è mancato
Alla domanda: perché l'Olivetti non c'è più, risponderei dunque: per carenze dei suoi manager.
Ne discende un'altra domanda: cosa mancava loro.
Una prima risposta sta nella difficoltà di crescere veramente stando accanto ad Adriano Olivetti, crescere senza restare figli o figure di contorno. Qui va rilevato il difetto, l'umanissimo limite del grande leader carismatico. Che lascia crescere, stimola la crescita, purché nessuna figura possa competere con lui. Umanissimo limite che si manifesta, anche, nel tenere lontana da sé l'idea della morte, esorcizzandola. Quindi, nel non preparare la propria successione.
Ma c'è anche il difetto degli altri, delle teste brillantissime di cui Olivetti si era circondato. C'è il difetto di chi è incapace di crescere, nonostante il contesto difficile, 'uccidendo il padre' che si porta in sé. Se questi manager fossero stati all'altezza del compito, mi dico, l'Olivetti ci sarebbe ancora.
E' cresciuta invece una classe manageriale di comprimari, più che di veri leader.
Se è possibile generalizzare, direi che faceva loro difetto un certo senso della realtà e del limite. L'aura olivettiana toglieva spirito critico. Il senso di appartenenza tendeva a sconfinare, l'ho già notato, in gratuita presunzione. E impediva magari di guardare il mondo con la curiosità
prendere spunto da alte scuole manageriali, impediva di guardare altrove e forse di imparare tutto quello che si sarebbe potuto imparare.
Credo si possa dire che questo atteggiamento olivetticentrico, autoreferenziale, aveva poche eccezioni. E che costituiva tratto comune degli olivettiani che vissero prestigiose carriere, fuori dall'Olivetti, dopo l'Olivetti.
Altra connessa carenza, forse la più grave, stava in questo: aver ridotto l'Olivetti a idea, mito, una icona. Una astrazione certamente ricca riferimenti all'etica e alla libertà d'impresa. Ma una immagine 'dirigenziale', aristocratica, troppo lontana da ciò che l'impresa era, nella concretezza quotidiana,  per l'operaio, per il tecnico e per l'impiegato.
Probabilmente tutti gli olivettiani in carriera, come voleva la cultura della casa, da giovani avevano fatto la loro gavetta lavorando in fabbrica, pur se destinati alla Direzione del Personale, o avevano battuto le periferie vendendo macchine da scrivere. Ma credo mancasse in molti la consapevolezza della centralità della fabbrica -non dimentichiamo che c'è 'fabbrica' anche lì dove si produce software-. Credo mancasse loro quella curiosità per le vicende delle persone, quel gusto di muoversi nei meandri dello stabilimento, quell'attenzione ai dettagli, alle minuscole novità che cambiano istante dopo istante l'impresa, corpo sociale, sistema viviente.
Insomma, credo mandasse ai manager Olivetti quell'atteggiamento che ha ogni imprenditore degno di questo nome, e che potrebbe, e anzi dovrebbe avere anche ogni manager.
Atteggiamento senza il quale Adriano Olivetti non avrebbe mai scoperto le doti Natale Cappellaro. Operaio appassionato di meccanica che si portava di nascosto a casa attrezzi e materiali, per progettare in pace nuove macchine, lontano dagli ingegneri troppo legati ai loro schemi.
Ecco, i giovani filosofi che Adriano Olivetti portava in azienda, per farne i futuri manager, sono rimasti probabilmente, come gli ingegneri che Cappellaro non sapeva digerire, troppo legati ad una visione schematica delle cose. Incapaci di comprendere i Cappellaro, incapaci di scovarli, privi di interesse per loro.
A questa incapacità, credo, e non ad altro, si deve il fatto che l'Olivetti non c'è più.


1 - Sullo stesso argomento, si può leggere su Bloom! Il sogno di un primato tecnologico. l'Olivetti com'era, e perché non c'è piu, www.bloom.it/vara129.htmDi quel testo questa è l'idal prosecuzione.

2 - 100 anni di Olivetti . Sabato 15 novembre 2008, Auditorium Il Sole 24 ore.

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