BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 27/02/2006

PATTINAGGIO E RESILIENZA

di Amalia Vetromile

Uno sprazzo di pattinaggio artistico - forse l'unico sport che ho sempre amato, insieme all’arte della danza-: l'atleta cade sul primo passaggio, si rialza e completa magnificamente il suo esercizio.

Coraggio e concentrazione

In quell’attimo ha probabilmente attinto a tutta la sua concentrazione, ha anzi messo in gioco un’attenzione ancora più grande. La sfida con sé stessa e con il pubblicoè diventato l’unico obiettivo di quel breve spazio di tempo della sua vita.Alla fine della performance, applausi scroscianti. Non è salita sul podio, ma ha conquistato il pubblico che, forse, la prossima volta aspetterà l’esibizione di quell’atleta con trepidazione, ricordando la sua bravura, palpitando insieme a lei nella speranza che questa volta no - proprio no, non lei così brava – debba incappare nuovamente nello scivolone iniziale.

Una lezione che dovrebbero vedere tutti: una caduta, un insuccesso, una "papera" in scena non deve intaccare la concentrazione, si deve proseguire con professionalità, altrimenti si peggiora il risultato.

Accade spesso il contrario: un errore ci induce ad arrabbiarci con noi stessi a colpevolizzarci; l’orgoglio ferito ruggisce dentro il petto, scoppia deflagrante, forse tornano in un lampo alla memoria rimproveri infantili, qualche rifiuto di un antico innamorato e viene voglia di scappar via, non esporsi alla possibile derisione degli altri. E si perde la concentrazione, l’essere “qui ed ora”. Si accumulano inevitabilmente altri errori, che innescano altre rabbie. Si getta la spugna e la performance è inevitabilmente e inesorabilmente compromessa. Il pubblico va via con la sensazione di aver assistito a qualcosa di mediocre, ne ricorderà solo gli errori.

Anche il teatro è una splendida palestra per resistere allo scoraggiamento che segue ad un errore. Accade molto più spesso di quanto si possa pensare di fare una “papera”, un’entrata fuori tempo, una battuta dimenticata, entrare trafelati in scena con un mazzo di fiori – le prime azioni sceniche previste dalla regia: appoggiare i fiori sul tavolo, andare alla consolle appoggiata alla quinta di destra, riempire il grande vaso di cristallo con l’acqua della brocca posizionata lì di fianco, e sistemare i fiori nel vaso, che da lì a poco arriverà l’innamorato – e accorgersi che il vaso non c’è. Chi doveva mettere quell’oggetto in scena se ne è dimenticato o il vaso si era rotto casualmente nella scena precedente, e allora al suo posto solo miseri cocci. La scena deve continuare, il pubblico non deve accorgersi del panico che assale l’attrice. In un attimo la concentrazione, le corde dell’attenzione tese fino all’inverosimile, viene in aiuto dell’attrice. Con fare sognante, stringe i fiori al petto, appoggiandosi al tavolo – e così si dà anche un tempo per respirare e ritrovare il ritmo – ne annusa il profumo, si guarda intorno e poi risolve sistemando i fiori sulla consolle, magari tra un coccio e l’altro, come intenta a creare una sapiente ikebana. E lo spettacolo continua.

La “pista” ghiacciata aziendale

E come non pensare al nostro vivere in azienda, quante volte ci è accaduto di fare una “papera”. Oppure, semplicemente, il vaso per riporre i fiori non c’era. Il rischio di scoraggiarsi è elevatissimo. Allora magari ci si comincia a torturare inutilmente, ad arrovellarsi che qualcuno lo ha fatto di proposito – e forse è andata proprio così - , si assume un atteggiamento ostile, si esterna l’insoddisfazione, la sconfitta. E il branco aziendalecomincia ad additare, in sussurri commisti a commiserazioni scambiati alla macchinetta del caffè, il malcapitato di turno. La segretaria diventa disattenta, non riferisce le telefonate, il capoprogetto prende decisioni senza condividerle, il malumore che ci arrovella comincia ad essere cronico. Questa è la miccia di quel fenomeno che oggi molti chiamano mobbing. E noi diventiamo inconsapevoli autori di questa commedia degli orrori. Come non ripensare all’atleta che volava sul ghiaccio e che avrebbe potuto tramutare la sua esibizione in un fiasco.

Le persone non amano vedere il dolore. “L’impulso a esprimere la propria sofferenza deve fare i conti con la necessità di comunicare esclusivamente ciò che è socialmente accettabile. (…) Guai a chi racconta la verità, sarà condannato all’emarginazione. (….) <Quando io soffrivo in silenzio, mi avete messo a tacere perché il vostro diniego vi proteggeva dalla verità. Cercate ancora di mantenere la vostra tranquillità indignandovi davanti alle testimonianze di chi ha vinto la sua battaglia. Sono ammessi solo racconti normali. Tutto ciò che ne esula viene percepito come un’aggressione> (…) i feriti nell’anima non vogliono odiare né tantomeno essere odiati: vogliono semplicemente superare il trauma”.

 

Un sorriso

Allora un sorriso. In fondo le ballerine, nella danza classica, lo usano da sempre. Un sorriso a dissimulare lo sforzo estremo dei muscoli, ché altrimenti si vedrebbe l’espressione contratta dello sforzo.E il sorriso si sfrutta anche nel canto lirico, per aprire la “cassa armonica” del viso e non tramutarlo in una smorfia mostruosa. Un sorriso, lo sguardo limpido – occhi negli occhi – smorza il timore nei nostri interlocutori –il timore ancestrale di guardare in faccia il dolore altrui, specchio del proprio -, li rassicura. Pensano: “no, non mi rovescerà addosso la sua rabbia, non è infuriato con noi, mi posso fidare”. Ed è vero, perché non stiamo fingendo, stiamo interpretando un personaggio attingendo alla vastissima gamma di sentimenti veri disponibile nel nostro cascione emozionale.

Questo un punto importante: l'allenamento a non scoraggiarsi per un errore. Continuare con determinazione senza commiserarsi, ma anzi sfoderare le proprie capacità per migliorare la propria performance.

“La sofferenza non è mai meravigliosa. E’ un fango ghiacciato, una melma nera, una piaga dolorosa che obbliga a fare una scelta: subire o superare. La resilienza definisce la forza di chi, dopo aver ricevuto un duro colpo, è riuscito a superarlo. L’ossimoro descrive il mondo interiore dei vincitori feriti”.

La scuola di teatro come la disciplina sportiva. Attore e campione, due faccedello stesso allenamento psicofisico.

Un errore intacca la confidenza nelle proprie capacità, difficile reagire ad una caduta, ad una papera.Ma è l'unico modo per non peggiorare la situazione. Anzi, forse la performance della pattinatrice, senza quell’errore iniziale, nonavrebbe avuto quella componente di delizia che ha integrato la preparazione atletica con una interpretazione eccezionale. Questo, forse, un segreto da coltivare. Trovare forza dal dolore, da una sconfitta per diventare più bravi, per una performance eccezionale. E allora, dunque, sulla scena aziendale, dopo una temporanea sconfitta – magari per un po’ fuori dalle quinte a piangere un po’ da soli – sfoderare un bel sorriso e trovare la propria grinta migliore. Il branco, frastornato, non sussurrerà più pettegolezzi al caffè, ché la performance è da fuoriclasse. Le persone dimenticano in fretta, nel bene e nel male. E l’errore – il maledetto vaso che non c’era – dimenticato e i fiori del pubblico ad affollare il camerino, alla fine dello spettacolo.


B. Cyrulnik, Il dolore meraviglioso, Frassinelli p. 146-148, p. 19.

B. Cyrulnik, Il dolore meraviglioso, Frassinelli p. 19.

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