BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 18/06/2007

Scrive:
Silvia Brambilla

Silvia Brambilla ha pubblicato su Bloom! in data: 04/06/2007 (www.bloom.it/brambilla1.htm)
una contributo su un tema a lei molto caro, l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. L’autrice precisava che scriveva nella speranza di stimolare  un ragionamento collettivo: “Vi chiedo quindi  di rispondere numerosi a questo mio input, proponendo spunti e riflessioni e, perché no, azioni concrete che aiutino tutti noi giovani nella realizzazione professionale”.


Risponde:
Nicoletta Zagaria

Cara Silvia,
provo a ragionare con te.
Intanto mi viene in mente un articolo di Michele Serra, apparso sulla Repubblica il 25 maggio scorso. Serra a un certo punto si chiede se esistano studi o valutazioni sull’impatto della fine del lavoro sui servizi resi al cittadino, ma credo commetta un grosso errore nel considerare vittime unicamente i lavoratori e i consumatori. Sono convinta che anche le aziende paghino alla lunga il caro prezzo della –cito Serra-  “dequalificazione del lavoro, della fine dei mestieri, del saltabeccare faticoso e frustrante tra mezzi lavori, mezze speranze” .
Ma questa è un’altra storia ( cioè la mia ).
Tu parti da domande a cui vuoi, forse, che qualcuno ( o tutti, o chi? ) dia una risposta.
Ebbene io credo che non ci sia UNA risposta, ma solo la personale risposta che ognuno di noi può dare. Risposta negoziata con le aspirazioni, ma anche con le possibilità, le competenze acquisite o da sviluppare.
Faccio un esempio stupido. Tutti abbiamo fame, ma ciascuno di noi soddisfa il proprio bisogno in modo diverso. E non accetteremmo mai che qualcuno ci dicesse che dobbiamo mangiare tutti, e magari tutti i giorni, 500gr di patate lesse.
Un’altra riflessione la farei sulla precarietà. Posto che c’è e che con questa dobbiamo fare i conti, perché non provare a trarne vantaggio? Ti sei mai chiesta quale è la differenza tre te che magari in sei anni hai fatto 10 lavori diversi e l’impiegato che da 20 anni timbra il cartellino nello stesso ufficio? Prova a spostargli la scrivania di un metro. Quello va in crisi!
Io ho 35 anni, la mia azienda è stata rilevata qualche mese fa da un altro gruppo che ci ha licenziati tutti. Da subito ho cominciato a cercare un altro lavoro ( l’iter lo conosci: annunci, società di selezione, amici, etc etc ). Da subito mi sono accorta che non potevo rispondere ai tre quarti delle offerte di lavoro perché non parlavo inglese. Ho fatto le valigie, dato fondo a tutti i miei risparmi e sono partita per tre mesi a Londra a seguire un corso d’inglese.
E il risultato non è solo una fetta più grande di mercato a cui propormi, ma anche e soprattutto un pezzo di conoscenza in più che forse la certezza di un lavoro stabile mi avrebbe precluso. Una ricchezza che mi appartiene a prescindere da tutto.
Non mi identifico nel mio titolo di laurea ( a cui non nego valore ), ma certamente mi riconosco molto di più nella persona che dopo la laurea è partita in Francia a lavorare in un negozio della Disneyland ( chiediamoci anche perché se andiamo all’estero, pur con tanto di laurea siamo disposti a lavorare da Mc Donald’s ), poi in un call center, poi si è ritrovata grazie a un imprevedibile legame debole ( mai sottovalutare i legami deboli ) ad aprire la filiale francese di un’azienda italiana e a ricoprire nella stessa il ruolo di customer service, formatrice, coordinatrice d’équipe, selezionatrice del personale.
Non neghiamo al lavoro il valore formativo.
Poi sono d’accordo con te, non rassegniamoci.
Possiamo continuare a discuterne se vuoi.
Ciao
Nicoletta
niclazagaria@yahoo.it

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