BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 31/03/2008

LA PERSONA E IL CONTESTO: VERSO UNA VISIONE DEL CAMBIAMENTO COME EVOLUZIONE. PARTE SECONDA

di Davide Storni

Abbiamo visto come sia l’approccio top down che l’approccio Human Resource, per quanto ben condotti e sofisticati, non siano in grado di sviluppare un cambiamento fisiologico volto a creare valore per l’organizzazione e per il singolo. Intendiamoci non è che il cambiamento non avvenga, piuttosto ad oggi il costo del cambiamento appare eccessivo sia per gli individui che per le organizzazioni: ne è prova il fatto che il tema della resistenza al cambiamento sia tanto di moda (ogni resistenza può essere intesa come sintomo di sofferenza e disagio) e che non esista una documentazione accettabile del ritorno sull’investimento delle attività di sviluppo delle risorse umane.
Ma come andare oltre questo stato di blocco?
La mia proposta è quella di cominciare a guardare in modo sistemico all’organizzazione, riprendendo la visione di Morin, e di cominciare a sviluppare una cultura olistica che vada oltre le divisioni figlie della specializzazione professionale della seconda metà del secolo scorso, periodo di proficui sviluppi di specializzazioni e metodi, tuttavia troppo parcellizzati per cogliere il senso reale dell’evoluzione dei sistemi complessi.


immagine 1

E. Morin da "Il paradigma perduto"

Intanto dovremmo cominciare a pensare in termini evolutivi e non di cambiamento: questo infatti non è altro che il passaggio da uno stato all’altro, ad esempio da due organizzazioni distinte ad una unica organizzazione post fusione. Invece l’evoluzione è una danza di cambiamento continuo, multi-dimensionale e multi-direzionale, dove non è possibile prevedere a priori un futuro punto di equilibrio se non temporaneo e come passaggio da un momento di caos ad un altro. Da una visione lineare possiamo provare a spostarci in una visione probabilistica, fatta di molti possibili scenari, che si sviluppano a partire da un gioco complesso e difficilmente rappresentabile di variabili in parte esogene al sistema ed in parte endogene. La danza del cambiamento che ne deriva assomiglia maggiormente ad un gioco di improvvisazione che alla recita di un copione predefinito. Direi free jazz piuttosto che musica da camera, ma anche il free jazz è comunque limitato dal numero preordinato di musicisti; dovremmo invece pensare ad una sessione di free jazz dove il numero di musicisti varia nel tempo, così come gli strumenti e l’ambiente in cui la sessione  ha luogo. Un free jazz al cubo, insomma.
Anche il concetto di evoluzione è cambiato nel tempo, e ad una evoluzione lineare e in parte “logicamente” descrivibile, si è passati ad una visione dell’evoluzione vista come un continuo “rimescolare le carte” (ed in parte anche le regole del gioco), tale per cui l’elemento casuale assume un importanza di assoluto rilievo (1).
Tutto ciò può sembrare disorientante e viene da chiedersi come si possa sensatamente pensare di essere gestori del cambiamento o programmare il cambiamento. Infatti non si può; al massimo si può proiettarsi nel ruolo di partecipanti alla danza del cambiamento, a volte come ballerini, a volte come spettatori, a volte come organizzatori di eventi.
Certo che mettendola così diventa veramente difficile reinterpretare il nostro lavoro all’interno delle organizzazioni: io sono passato dal considerarmi analista di organizzazione ad una più sensata visione di gestore del cambiamento, per poi arrivare a capire che non potevo gestire un bel nulla: semmai cercare di comprendere dei trend e provarmi a partecipare alla danza.
Ma torniamo a noi, inseriti a vario titolo in organizzazioni sempre più complesse, e alla nostra professione di “esperti di organizzazione e/o di risorse umane: che fare di fronte a questa prospettiva evolutiva?
Detto che non si può raccontare l’indicibile, ovvero quello che accadrà nel futuro delle nostre organizzazioni, possiamo però provarci ad aumentare la nostra capacità di sentire e vedere, individualmente e collettivamente (2)
Penso allora che un primo passo potrebbe essere quello di superate la distanza fra persona e organizzazione, quindi anche le nostre specializzazioni, e andare verso una visione più integrata che preveda un lavoro non solo parallelo, ma integrato su persona e contesto, inteso come insieme di cultura, struttura, processi (i valori, i miti fondanti, il potere, le modalità di lavoro e di relazionamento con colleghi e clienti).
L’importanza di agire simultaneamente e in modo integrato sulla persona e sul contesto è imprescindibile, se si vuole andare oltre le attuali contraddizioni che portano a sempre maggiori livelli di stress individuale e di fatica organizzativa. Soprattutto se vogliamo lavorare veramente sulla costruzione di valore per chi lavora nell’organizzazione, per i clienti e per chi ha interessi di vario tipo nei confronti dell’organizzazione.
Proviamo a fare qualche ipotesi, sia pure nella convinzione della parzialità di ogni approccio:

  1. Provare a gestire complessi interventi organizzativi con un autentico coinvolgimento delle persone, sapendo di aprire delle possibilità invece che condizionarne il comportamento. Cosa vuol dire ciò? Per esempio si potrebbe provarsi a definire i limiti di un intervento organizzativo, senza pre-ordinarne ogni particolare, lasciando poi al contributo dei partecipanti la definizione della effettiva configurazione del cambiamento da attuare. Le moderne forme di organizzazione che funzionano (wikipedia, Linux) funzionano in questo modo, fissando cioè dei limiti intesi come regole di interazione e una vision, lasciando poi all’iniziativa dei singoli il riempimento del campo di partecipazione. È un po’ come quando si inizia un gioco definendo alcune regole sommarie e lasciando poi all’inventiva dei partecipanti lo spazio necessario per riempire di significatività il tempo assegnato. Si delimita il campo e si lascia poi spazio alla libera iniziativa dei singoli.
  2. Effettuare interventi di sostegno alla persone, aiutandola poi a tornare nel proprio contesto con la facoltà (precedentemente negoziata con l’organizzazione stessa) di modificarlo. Ovvero dopo un team building lasciare, anzi richiedere, che le persone tornino al proprio lavoro con l’obiettivo di modificare in modo consistente il proprio modo di lavorare, attivando un processo di sperimentazione e di negoziazione con il resto dell’organizzazione. Il tutto non come un auspicio, ma attraverso la preventiva negoziazione di spazi con l’organizzazione e affiancando le persone anche nella fase di attivazione e di modifica dei processi lavorativi nei quali sono inseriti. In questo modo si potrebbe finalmente misurare gli effetti della formazione, in termini di processi più efficaci meno costosi (in termini bilancistici, ma anche personali).

Un approccio diagnostico e olistico richiedono però lo sviluppo di nuovo competenze che racchiudano il meglio delle competenze tecnico-specialistiche oggi frantumate fra formazione, sviluppo RU, organizzazione, con l’aggiunta di una visione più ampia, di tipo sistemico. Servirebbero inoltre consapevolezza della relatività e marginalità del proprio lavoro e una buona capacità di ascolto e di apertura alla sorpresa, tipici di un approccio etnografico (3).
Passando al contesto, un problema pratico consiste nel fatto che oggi nelle organizzazione non vi è alcun ruolo a cui siano richieste simili competenze. Un primo passo potrebbe quindi consistere nel creare una nuova unità organizzativa che si prenda carico non dell’applicazione di tecniche specialistiche, ma della lettura del momento evolutivo dell’organizzazione e della costruzione di possibili scenari evolutivi. Invece di organizzazione, formazione e sviluppo, o ad integrazione di questi, potremmo pensare ad una unità “evoluzione” o “facilitazione del cambiamento” che possa da un lato integrare e rendere più consapevoli ed efficaci gli interventi specialistici e che dia un supporto fondamentale nello sviluppo di strategie aziendali (ponendo l’attenzione alla costruzione di “capacità” idonee a supportarne la costruzione e implementazione) e alla diffusione di una cultura dell’ascolto e della partecipazione.


1 - Vedasi R. Leakey - L. Roger,  La sesta estinzione, Bollati Boringhieri

2 - v. O. Scharmer, Theory U

3 - v. Articolo mio su Bloom, “per un approccio etnografico” relativo all’insegnamento di Francesco Varanini, ma anche O. Scharmer, citato

Pagina precedente

Indice dei contributi