BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 30/08/2010

 

LO SO CHE STORYTELLING SEMBRA UN'ESPRESSIONE PIU' FINE. MA NE AVRESTE A MALE SE VI CHIAMASSERO NARRATORI AMBULANTI? (1)

di Francesco Varanini

Il Panopticon di Bentham, luogo-macchina pensato per sorvegliare a punire, ha avuto la sua vita più recente sotto forma di Broadcasting. Il Broadcasting porta al limite il vincolo già implicito nel libro. L'autore del libro è separato da lettore dalla tecnologia della stampa.
All'apposto del Panopticon, dove ognuno è controllato e dove i ruoli sono irrimediabilmente distinti,  con il Web si va oltre la necessaria differenziazione di ruoli. Ognuno è nelle condizioni di essere al contempo autore e lettore. Ognuno è in condizione di pubblicare le proprie storie. E potendole pubblicare, penso divenga via via più propenso a scriverle. Così, con il web, che è una rete di conoscenze in continuo divenire, torna di attualità lo storytelling.
Non per caso lo stesso Steve Denning, giustamente citato da Barbara Czwarniawska come precursore (e poi normatore) dello storytelling, associa all'avvento del web la moderna moda dello storytelling. (Vedi su Bloom Francesca Prandstraller, “Storytelling e Change Management. Intervista a Steve Denning”, 31 maggio 2004, www.bloom.it/prandstraller1.htm).
Peccato che, dal mio punto di vista, il percorso di Denning sia un progressivo allontanamento dalla buona strada. 
Ci ricorda Barbara Czwarniawska: “Denning disse di aver pensato, durante la stesura del primo libro, allo storytelling come ad uno strumento. Nel secondo libro lo definì una cassetta degli attrezzi. Scrivendo il terzo, concluse che lo storytelling era una materia completa, una disciplina”. Certamente lo storytelling è uno strumento. Certamente esiste, in qualche luogo, la cassetta degli attrezzi dello storyteller. Ma non venitemi a dire che lo storytelling è una disciplina. 
Penso che un manuale di storytelling, americano o italiano, non meriti la minima attenzione. Anzi, mi sento in dovere di dire, ad ogni persona impegnata nel mondo del lavoro, sia manager, sia impiegato, sia operaio, ad ognuno che si accinga a scrivere una propria narrazione: non lasciatevi influenzare, non lasciatevi condizionare. Se mai vi capita per le mani un manuale di storytelling buttatelo via. E scrivete come vi pare.
Come può, un consulente, un ex Program Director del Knowledge Management alla World Bank -come è Denning- pretendere di dire agli altri  come devono scrivere le loro storie? Imporre il manuale e le sue regole di scrittura, pretendere di imporre a chi ha una storia da raccontare il modo di raccontarla non è che una variante del solito modo del consulente o del docente di management: mettere il cappello sulla sedia altrui. Farsi tramite e garante del controllo.
Scrivete come vi pare! Del resto accettereste che qualcuno vi imponesse di raccontare barzellette solo in un certo modo codificato da un manuale?
Conosco persone che nel raccontare in pubblico la propria storia affermano di detestare la prepotenza e l'arroganza. Salvo poi da adulto costruirsi il ruolo di esperto di Storytelling Management e pretendere di imporre agli altri, tramite un manuale, il modo di scrivere le proprie storie.
Czarniawska, con ragione, si guarda bene dal dire agli altri come dovrebbero scrivere. Si interroga con acume sui perché. Perché si scrive, perché si è restii a farlo. Perché si è restii ad accettare la conoscenza espressa in forma di narrazione. Però non sono d'accordo con Czwarniawska quando sembra considerare utili “corsi per migliorare il know-how circa lo storytelling, poiché nessuno è nato storyteller”. Ora, penso che la formazione è sempre utile, ma penso anche che sì, siamo nati tutti storyteller. Tutti sappiamo narrare sotto forma di barzellette, tutti sappiamo costruire immagini caricaturali di colleghi, dare soprannomi o ingigantire a scopo di metafora piccoli eventi esemplari.
Considero importante organizzare incontri nei quali ci si scambiano narrazioni, incontri durante i quali, insieme, si passa dall'ascolto alla narrazione, dall'oralità alla scrittura. Ma lasciando emergere lo stile di ognuno. Semmai, poi, a mostrare come scrivere, non dovrebbe essere un qualche preteso esperto di Storytelling Management, né un giornalista, né un comunicatore di professione, e  neanche un romanziere o un poeta di professione. Dovrebbe essere invece qualcuno che nella pratica, nei fatti, scrivendo poesie o romanzi o qualsiasi altra cosa, si è dimostrato un buon narratore, legato a un proprio personale stile.
Un'ultima cosa: cerchiamo per favore una traduzione. Propongo di dire, in luogo di storytelling, narrazioni. E storyteller -se vogliamo evitare espressioni che possono apparire gratuitamente colte: bardo, rapsodo- siamo disposti a tradurlo cantastorie?
L'apparente chiarezza implicita nel termine inglese storyteller, è facilmente negata. Basta ricordare, ad esempio, il titolo di un romanzo (del 1987) di Mario Vargas Llosa. In spagnolo è El hablador. La traduzione italiana del titolo, direi abbastanza azzeccata, è Il narratore ambulante. Come abbastanza azzeccata mi pare la traduzione inglese, che è, l'avrete già capito The Storyteller.


1 - Questo testo è apparso sul n. 237 (marzo/aprile 2010), a commento dell’articolo di Barbara Czarniawska, Perché i manager svedesi non amano raccontare storie.

Pagina precedente

Indice dei contributi