IN RISPOSTA A STEFANO ROSATO: LA GLOBALIZZAZIONE LIBERALE
Vorrei fare alcune considerazioni rispetto all'intervento di SR "La globalizzazione e il pensiero liberale".
Credo che la "dimostrazione" della superiorità del pensiero liberale debba affrontare qualche elemento di complessità in più rispetto allo schema logico proposto da SR.
Ad esempio, se si decidesse di guardare ciò che accade da una prospettiva più alta (nel senso di non guardare solo dalla prospettiva individuale di un uomo occidentale) e più "globalizzata" ci accorgeremmo che il mondo rappresenta una quantità di elementi diversi e tra loro contradditori che nessuna ideologia assoluta, nemmeno quella del pensiero liberale, riesce ad affrontare con successo.
Veniamo al dunque.
SR ci propone la superiorità del pensiero liberale che si fonda, a suo parere sul "carattere realistico della teoria liberale". A riprova di ciò elenca una serie di successi del modello occidentale che sostanzialmente si basano sulla supremazia economica di tale modello fondata sul libero agire del mercato. E a suggello di questa teoria sulla teoria liberale, SR dimostra inequivocabilmente che solo il mercato, pardon il pensiero liberale, è il luogo dove l'individuo può esercitare ed esprimere ai massimi livelli il proprio io desiderante.
Ripartiamo dal mercato, dunque.
Innanzitutto vorrei contestare che il fatto di assumere l'economia come parametro
di misurazione della superiorità di un modello di società rispetto
ad un'altra.
"Si assume che l'economia comunque
spieghi sempre tutto, come neppure Marx avrebbe preteso. Scivoliamo infine tutti
in questo fiume asettico di rivoluzioni tecnologiche, Borse, mercati da rendere
flessibili. E nessuno che mai s'arrischi a ragionare altrimenti, a scombinare
questi schemi. Eppure gli anni presenti hanno non pochi dei caratteri di una
epoca di tramonto e di regresso, come la descrivono i moralisti classici o storici
alla Spengler.
Cronicità della fretta, nervosismo, lusso di massa, ipnosi delle mode,
plebi cosmopolite, dionisismi, etiche solo umanitarie, confusioni erotiche:
tutti i sintomi, da sempre, indubbi di una civiltà in regresso, o che
perlomeno si disgrega. Come già accadde ai tempi dell'Impero romano o
nelle dinastie dei sultani arabi del nono secolo, e in innumeri altre civiltà
..
Ma ogni giudizio sul presente si è dato, per giudicare se v'è
progresso o regresso, una sola regola: quella della crescita del Pil o delle
Borse. Tutto il resto è considerato non moderna ed esecrabile balordaggine.
E però, anche ammettendo che solo l'economia conti, con che fretta ipocrita
sono trascorsi i precari miti della globalizzazione.
Il Giappone, le tigri asiatiche, l'euro, Internet: tutti miti che sono durati
il tempo di una soubrette in tv. Ma prima finti epocali, per poi essere obliati
a memoria." (1)
In aggiunta SR ritiene che detta superiorità economica del modello liberale sia dovuta allo splendido e progressivo dispiegarsi del libero mercato nel quale operano superuomini che detengono, tra l'altro, il potere della creazione, il potere di donare vita economica e sociale a moltitudini di soggetti (i lavoratori) altrimenti non legittimati e riconosciuti dalla società di mercato.
Ma in realtà la superiorità, ripeto indiscutibile, delle economie occidentali, su cosa si è fondata nel corso dei secoli?
Vi propongo una doppia chiave di lettura basata sugli scritti di Alvi e Petrella (2)
Alvi:
"
In effetti il liberismo e il suo opposto, il mercantilismo, sono
stati nella storia modi ambedue utili all'egemonia economica del più
forte.
Ad esempio nel 1651, non vi era un altro modo per estendere il commercio inglese
e aumentare la flotta che il Navigation Act. Tutto imponeva a Cromwell di favorire
i mercanti, gli interessi navali, delle manifatture esportatrici e dei molti
che vi dipendevano, e il proseguire delle colonie. E solo appunto perché
dal ' 600 al ' 700 la politica mercantilista inglese prevale sull'Olanda e la
Francia, la City nell'Ottocento potrà concedersi d'applaudire Adamo Smith.
Londra aveva ormai la più grande flotta di navi mercantili del mondo,
i suoi titoli a lungo e a breve termine erano distribuiti nell'Impero. L'avanzo
dei noli, delle rendite e degli interessi sommato era due volte e mezzo il disavanzo
mercantile e rendeva ovvio il liberismo
.
"Giacché la difesa comunque è di molto più importante
dell'opulenza, il Navigation Act è forse la più saggia di tutte
le regolamentazioni del commercio dell'Inghilterra". Frase di Adam Smith
nella "Wealth of Nations" , ovvero del liberista per eccellenza; il
quale a riguardo ragiona però come un qualunque mercantilista.
A ragione, giacché prima bisogna creare un cadre de l'exchange favorevole,
dunque serve di vincere le guerre, e persino servono i pirati. Dopodiché
basta che gli altri vi si adattino, così da trasformare in rendite finanziarie
le piraterie precedenti
.
Prima della Grande Guerra
i banchieri della City di Londra erano il fulcro di quella globalizzazione.
Controllavano il 60% delle cambiali internazionali e dei titoli a lunga emessi
ogni anno. Il continente soccorreva il difetto d'oro inglese e armonizzava il
Gold Standard nei momenti di crisi. Londra a sua volta incassava rendite con
cui finanziava i suoi disavanzi in conto merci e nuovi investimenti.
Cos'erano gli Stati Uniti ai tempi di quella globalizzazione?
Una periferia finanziaria che doveva procurarsi a Londra prestiti per pagare
le cambiali dei suoi raccolti agricoli. Aveva, sì, col protezionismo
costruito un potente sistema industriale; però manteneva pessima fama
di nazione infantile, vittima di inflazioni e speculazioni febbrili.
La storia del declino inglese fu lunga e complicata. Ma il suo evolversi fu
semplificato dalla guerra. La guerra dilatò di quasi cinque volte l'avanzo
mercantile Usa. Per accumulare l'avanzo, e quindi i corrispettivi patrimoni,
conquistati in sette anni i banchieri e il governo americani avrebbero dovuto
attendere circa trentatré anni.
La guerra regalò a Washington
e a Wall Street di possedere nel 1919 un patrimonio netto sulle altre nazioni
che avrebbero posseduto altrimenti solo nel 1947.
Gli Usa divennero la prima nazione creditrice del mondo. E perciò a Londra
e all'Europa difettarono i capitali con cui armonizzare la globalizzazione degli
Anni Venti, che abortì in crisi mondiale.
Politiche rooseveltiane, autostrade
tedesche, dazi, e guerre, i socialismi reali, riportarono il mondo ai precetti
mercantilisti.
La depressione mondiale tra le due guerre dipese anche dalla inadeguatezza americana
a svolgere la parte dell'Inghilterra, investendo abbastanza all'estero.
Il boom del ' 29 drenò capitali proprio come i debiti di guerra e i mercantilismi
di Roosevelt.
Del resto anche oggi gli Stati Uniti sono il Paese più ricco del mondo,
ma importano capitali.
Globalizzando il mondo gli inglesi erano stati più universali degli americani,
in tutti i sensi.
Il presidente Roosevelt perseguì una politica mercantilista come la perseguirono
Hitler e Mussolini. Ma con più fortuna: accumulò oro da tutto
il modo, e con la guerra ridonò il boom all'economia americana.
Anche se gli Usa avevano accumulato il 58% delle riserve d'oro del mondo, il
reddito americano del 1938 era inferiore a quello del 1929; quello tedesco invece
superiore.
Ma la II guerra mondiale risolse il problema. Donò un altro boom.
Il 1964 fu l'anno in cui il governo
americano introdusse un insieme di restrizioni sui deflussi di capitali. Terminò
allora per gli Usa la possibilità di un liberismo all'inglese, quello
per cui Londra e City potevano reggere un disavanzo in conto merci enorme, avendo
accumulato per secoli attività nette sull'estero. Il liberismo degli
americani dovrà importare capitali.
Il saldo netto accumulato in due guerre mondiali, ai tempi di Kennedy è
dissipato.
L'americano è consumatore, non un risparmiatore e neppure un redditiero,
è invece eccitato dallo speculare, come ben sapevano i banchieri inglesi
che biasimavano gli americani.
Negli Anni '70 quindi si determinarono delle conseguenze che investirono il ruolo degli stati nazionali e il rapporto tra di essi.
Petrella:
Il filo della narrazione arriva agli
anni più recenti, quelli che hanno visto nascere e svilupparsi il cosiddetto
"pensiero unico" neoliberista di cui pare che anche SR sia portatore.
Alvi:
Thatcher e Reagan agiscono in perfetta coerenza agli intenti secolari
anglofoni.
Loro e le aristocrazie, anzitutto finanziarie, avvertono che il mercantilismo
non serve più.
Il confronto col Giappone o con la Germania è perduto in conto merci.
Ed ecco che riconviene allora il
ritornare alla circolazione dei capitali, libera da vincoli. E c'è un
vantaggio in più rispetto a prima; nessuno può oggi convertire
i dollari in oro.
Il dollaro è ormai il prodotto americano più abbondante della
Coca Cola
A fine 2000 la posizione debitoria
netta sull'estero degli Sta ti Uniti, ovvero la differenza tra i capitali che
devono al mondo e quelli che possiedono, è stimata pari a 1900 miliardi
di dollari, pari al 19,2% del loro Pil. Cifra enorme, eppure le attività
investite all'estero sono una percentuale non vasta delle attività totali.
La ricchezza totale interna è circa venti volte il debito netto con l'estero.
Conferma ulteriore che gli Stati Uniti sono una economia continentale.
Gli inglesi, leader del mondo per due secoli e mezzo, fino alla grande guerra, erano una economia più orientata dai mercati esteri di quella americana.
Le politiche neoliberiste si fondano su tre pilastri dogmatici che, in parte SR riprende nel suo ragionamento.
Petrella:
E si traducono in una serie di "comandamenti"
Petrella:
Primo: devi diventare globale. Non avrai salvezza al di fuori o contro la
globalizzazione; Secondo: liberalizzerai tutti i mercati al fine di creare il
grande mercato unico mondiale; Terzo: non lascerai più allo Stato il
potere di regolamentazione dell'economia; Quarto: tutto al privato: promuoverai
la privatizzazione di tutto ciò che è privatizzabile; Quinto:
devi essere innovatore tecnologico senza sosta, ad ogni momento, dappertutto;
Sesto: sii il migliore, il più forte; sii il vincitore."
Per giungere all'attualità dei nostri giorni, chiudiamo questa narrazione con Internet
Alvi:
Ma nella seconda metà degli anni 90 gli Stati Uniti hanno superato
se stessi. Hanno convogliato capitali da tutto il mondo in una bolla speculativa
come è stata Internet. Non risparmiano, sono debitori netti del resto
del mondo, con un deficit dei conti esteri del 4,4%,
Possiamo quindi tirare delle somme e rispondere alla domanda iniziale che ci eravamo posti all'inizio della narrazione: l'attuale, indiscutibile, superiorità del modello economico capitalistico è frutto del libero agire del mercato? NO.
E' il risultato di una prevalenza sostanzialmente militare dei due imperi occidentali, Inghilterra e Stati Uniti, che si sono dati storicamente il cambio nel governo della globalizzazione che a sua volta ha determinato lo sviluppo culturale ed economico che si manifesta oggi nella definizione, già citata, del pensiero unico.
Così, giusto per aprire una parentesi di strettissima attualità, potremmo fare qualche considerazione a proposito della nuova guerra asimmetrica per la salvaguardia della nostra superiore civiltà (non vorrei citare il nostro Presidente del Consiglio).
[Tralascio la questione vera e sentita della condanna del terrorismo etc etc che non aggiunge o toglie nulla a questa discussione]
E dunque, che cosa si agita dietro
la difesa dei nostri valori liberali?
Forse anche qualche piccolo interesse nel controllo di settori strategici per
l'esercizio del dominio imperiale degli Stati Uniti, e nel caso specifico delle
fonti energetiche.
Riporto un pensiero di Finardi
(3) che illustra bene lo stato delle cose: "
.si guardi
il rinnovato sfruttamento da parte di Stati Uniti ed Europa di tutti i possibili
elementi di crisi - terrorismo compreso - nelle regioni mediorientali, caucasica
e centro-asiatica: e si mostreranno evidenti tutti gli elementi di un complesso
gioco che mira in primo luogo a impedire un rapporto più paritario dei
paesi petroliferi di queste tre regioni con le grandi compagnie energetiche
statunitensi ed europee e a contrastare il controllo degli stessi paesi sui
corridoi di trasporto delle proprie risorse verso i mercati.
In secondo luogo a mantenere conflittuale l'area di snodo tra Pakistan, India
e Cina (ovvero l'Afghanistan e il Kashmir), soprattutto per impegnare la Cina
sul suo fianco occidentale, impedirle di normalizzare le difficili relazioni
con l'India e conseguentemente contrastare una possibile cooperazione tra i
due giganti demografici mondiali.
In terzo luogo a ritardare o rendere difficile la ripresa della proiezione della
Russia verso i paesi che si affacciano o sono di transito verso l'Oceano Indiano,
area di passaggio strategico del commercio internazionale e delle rotte petrolifere
verso l'Asia e l'Europa.
In quarto luogo ad inserire il cuneo della presenza militare statunitense ed
europea ai bordi meridionali e strategicamente fondamentali (l'Afghanistan)
dell'area di incontro tra Cina, Russia e alcuni paesi asiatico-centrali, area
definita di fondamentale importanza dagli accordi di sicurezza siglati a Bishek
due anni fa
"
Adesso voglio aprire un altro "fronte" di non secondaria importanza per valutare meglio la superiorità del modello liberale.
Ricordandoci di utilizzare sempre la
prospettiva "alta" vorrei sottolineare che questa superiorità
si sostanzia in una serie di clamorose diseguaglianze a livello planetario che
minano nel profondo la stabilità di questo impero liberale.
Credo che grande merito del movimento "no global" consista anche nel
fatto di sbattere, anche se a volte in malo modo, in faccia a tutti le contraddizioni
di questo sistema: così per titoli, vorrei ricordare a SR che attualmente
il 20% della popolazione mondiale detiene l'80% della ricchezza globale, che
intere regioni o nazioni, si sono trasformate in distretti produttivi, a basso
costo di manodopera e di tutela della dignità umana, per le multinazionali
occidentali, che almeno 1 miliardo di persone soffrono la fame, che il famoso
20% della popolazione mondiale preleva l'88% dell'acqua consumata nel pianeta
, etc... (4)
Quello che vorrei, in sostanza, dire, e che non scopro sicuramente io in questo
momento, è che il nostro sistema economico liberale, con tutto il suo
portato di libertà collaterali, non è esportabile al resto del
pianeta senza che questo collassi nel giro di pochissimi decenni.
A me, come a milioni di altre persone, tutto sommato, non sembra un problema da poco da sottoporre ai nostri governi o ai reali centri di potere transnazionali dove si prendono le decisioni che coinvolgono milioni di persone (FMI, Banca Mondiale, WTO).
A questo punto, caro Stefano, cosa ne dici della superiorità del modello liberale, della libertà degli individui e della preminenza degli aspetti economici del libero mercato?
Note:
1 G. Alvi, "Di globale vedo solo
l'impero americano", Corriere della Sera, 16/7/2001
2 G. Alvi, nota 1; R. Petrella "Globalizzazione: fase due", La Rivista,
8/2001
3 S. Finardi, "La merce, anima della guerra", Manifesto, 21/11/2001
4 E. Molinari, "L'acqua è il petrolio del nuovo secolo", Carta,
8/11/2001
Sul tema della Globalizzazione
vedi anche:
- Gianfrancesco Prandato, L'amico
americano n. 11. Debiti; L'amico americano n.
14: Marche; L'Amico americano n. 15: Globali;
- Del consenso e del potere di Empire (recensione
a Emire di Toni Negri)
- Renato Votta, recensione a Contro il Capitale globale,
di Jeremy Brecher e Tim Costello
- Francesco Varanini, Per una
critica del logo impuro
- Nicola Gaiarin, Variazioni
sulla globalizzazione, Recensione a Filosofia e (critica della) globalizzazione,
almanacco di Micromega, 5/2001