BLOOM! frammenti di organizzazione
Pubblicato in data: 10/09/2001

AVERE LA VISION E POI SPORCARSI LE MANI. OVVERO: TAYLOR AVEVA RAGIONE

di Giuseppe Zanini

L'autore fa sapere di essere incocciato in Bloom quasi per caso, cercando altro. Propone questo testo "per la sezione domande&risposte". Preferiamo pubblicarlo nei Contributi, perché offre un diverso punto di vista attorno ai temi toccati da altri due contributi recentemente pubblicati: Soluzioni nuovissime o cretinate? e Keep it simple!. Con questo, non intendiamo evitare la richiesta di una risposta. Una risposta assoluta e giusta, però, ovviamente non esiste. E' bello giustapporre opinioni diverse, frammenti di verità filtrati dall'esperienza personale.
F.V.

Cari amici di Bloom,
vi scrive un "diverso". Sono uno di quelli che (per caso) si è infilato in quello strano mondo che si chiama pubblica amministrazione.
Lavoro come amministrativo in un servizio sociale pubblico. Non sono né un frate né un assistente sociale: sono uno che avrebbe la pretesa di fare il quadro (non quello che si appende coi chiodi alle pareti) in un posto dove l'obiettivo sta nello spendere soldi pubblici, piuttosto che fare soldi privati (=profitti), e mi pagano presumibilmente per farlo bene.
Nello spirito di Bloom - che spero di aver colto navigando velocemente tra i suoi contenuti/contributi - vi svelo la mia metafora lavorativo-esistenziale: tentare di introdurre nel quotidiano lavorativo (si dice anche: nel mio piccolo) pillole di razionalità gestionale in processi lavorativi che non li richiedono, non li ritengono né li hanno mai ritenuti necessari, li vedono come imposti dall'esterno. Peggio: in un mondo convinto che perché si dedica al Sociale (agli ultimi, ai più deboli, ecc..) è necessariamente giustificato qualunque cosa faccia (mi riferisco evidentemente ai profili organizzativi e gestionali dei programmi di intervento sociale) ed è destinato al paradiso.
Dopo un percorso formativo da autodidatta - abbastanza tipico nel mondo della pubblica amministrazione - approdo ad una tesi in Scienze Politiche in cui ho tentato piuttosto grossolanamente di conciliare il diritto (da sempre il solo, vero motore della p.a.) con qualche metafora manageriale. Né ho partorito un titolo piuttosto presuntuoso: "la produttività del pubblico dipendente".
Ne ho poi fatto una scelta di vita (professionale): cambiare nella p.a. in meglio si può, basta che il cambiamento non ci venga dal privato, ma, piuttosto, da un privato riletto da chi è già dentro il pubblico e:


a) ha sufficiente apertura mentale per non rigettarlo aprioristicamente (del tipo: tanto il 27 arriva comunque);
b) essendo dentro e - permettetemelo - credendoci, ha più probabilità (ma sarà poi vero?!) di riuscire in quel necessario sforzo di adattamento delle tecnologie gestionali alle peculiarità della p.a., che mi pare ben più difficile in chi dal privato ritenga di "calare" nel pubblico.

Oggi ho qualche anno, qualche esperienza e qualche buona lettura in più (ars longa..).
Due sole idee condivido ancora con quel me stesso che scrisse quella presuntuosa tesi di laurea:


- qualunque processo di cambiamento in termini organizzativi e gestionali deve ancor oggi misurarsi con la "forca caudina" delle norme giuridiche, in particolare con quelle del diritto amministrativo. Quest'ultimo, nei fatti e nella cultura della p.a., rappresenta ancora un insuperato paradigma, organizzativo e financo comportamentale. Profondamente snellito, in via di superamento, ma non ancora sostituito da un paradigma alternativo capace di riporlo, soprattutto sul piano culturale, nel dimenticatoio;
- il diritto dell'utente, che ci chiede servizi, è un diritto finanziariamente limitato dal budget disponibile. Detto altrimenti c'è un trade-off inconciliabile (ma la nostra sfida quotidiana è tutta lì e io sono di quelli che se la vogliono giocare fino in fondo) tra i mille bisogni/desideri del cliente (sì, stavolta il termine è corretto) e quel bisogno di razionalità economica che ci conduce, nel pubblico, a perseguire strategie di contenimento dei costi.

Tra qualche giorno cambierò ancora pubblica amministrazione e lì dove andrò mi aspetta la prospettiva di sempre. Riorganizzare servizi, contenere i costi, orientare i servizi ancor di più a bisogni e clienti…ovviamente con i vincoli di sempre: budget invariato, cambiamenti costo zero e le nostre amate norme (che cambiano, si semplificano ?!, ma permangono).
Da buon scolaretto, ho rimesso mano ai miei libri (ma li avevo poi mai lasciati?), sono persino calato di peso (mens sana..), pronto sul nastro di partenza!
Penso anche di aver letto bene: 50% di BRP d'un verso e un po' di Quaglino - di cui amo gli approcci psicoanalitici alla dimensione informale dell'organizzazione - dall'altro. L'idea era: razionalità da un lato e (banalizzo, ma Quaglino che non conosco ma che mi pare persona intelligente, spero non si offenderà per la reductio) saggezza d'altro.
Poi sono incappato in Bloom (cercando non mi ricordo più che cosa di statistica) e ho fatto flop.
Ma come?! Tutto qua? Vorreste dire che acquistando il mio primo manuale di management e soprattutto imponendomi di leggerlo in un contesto che di management se n'è sempre fregato, ho iniziato (come ha sempre sostenuto mia moglie) a buttare dei soldi?
Vorreste dire ancora che il mio capo che snobba il mio "abuso di anglicismi manageriali impropri" nella documentazione di budget del servizio e che impiega il suo tempo libero leggendo libri d'arte ha più probabilità di me di essersi avvicinato alla Verità organizzativa? (del resto, se il capo è lui.. ci sarà pure una ragione)
Che il Knowledge Management non è altro che qualche buona lettura di classici e di filosofi?
Che l'essermi rotto le palle sui manuali di statistica alla ricerca di improbabili correlazioni tra bisogni e servizi è stata solo una chimera?
Che quella vocina che (in verità da sempre) mi fronzola nel profondo, suggerendomi che la strada che ho scelto - step 1: leggi la manualistica della Franco Angeli (et similia); step 2: traducila in "pubblichese" - è stata una cavolata?
Che un giro in bicicletta - e non il duro lavoro nel quale la razionalità te la sudi passo dopo passo - è la vera essenza del kaizen?
Scusatemi, non sono d'accordo.
Sarà anche vero che lato destro del cervello e l'analisi degli interstizi sono importanti ma a me parrebbe più onesto premettere che per chi si ponga finalità eminentemente operative esiste il dovere di semplificare la situazione - pur percependo appieno la reale complessità - e partire da premesse di tipo operativo quali, che ne so: "Taylor aveva sacrosantamente ragione".
Detto questo, dato che siamo uomini e non cyborg, è scontato notare che il taylorismo sta alla quotidianità del lavoro organizzativo come la Bibbia sta alla massa reale dei credenti, che non diverranno santi se non in ridotta minoranza.
Ma la premessa rimane: là sta il vero (ripeto: in un'ottica meramente operativa) per quanto concretamente e umanamente irraggiungibile. Né vale obiettare che il vero e men vero per il solo fatto di essere conseguibile solo parzialmente (mi pare che in tali casi sia d'uopo parlare di razionalità limitata).
Ricordo una storiella - e poi la smetto di tediarvi - di uno che chiedeva ad un grande maestro di scacchi come mai con la sua sconfinata intelligenza si fosse ridotto in povertà. Questi rispose che gli scacchi e la vita non vanno d'accordo: sulla scacchiera dell'esistenza reale, non tutti i pezzi sono sempre in vista, a differenza di quanto accade su quella del gioco, sicché al giocatore pur abile l'asimmetria informativa (come direbbe un economista) non consente le medesime geniali soluzioni profuse nel gioco.
Io con quel personaggio condivido la passione per gli scacchi, non nutro per lui alcun umano rispetto. Non basta infatti aver letto la bibbia per salvarsi: occorre in pratica essere un buon cristiano.
Fuor di metafora, letta la lezione, occorre adoperarsi per razzolare bene. Avuta la "vision", ti devi sporcare le mani.
OK allora alla new age manageriale e all'approccio olistico: ma la vita (che per la gran parte passiamo lavorando) mi sembra è una cosa troppo breve (e seria) per gettare la spugna e rifugiarsi negli improbabili interstizi.
Una volta ho chiesto ad un amico, piccolo imprenditore del nord-est, perché non si fosse ancora certificato Iso: mi rispose mostrandomi una scritta sul retro della sua piccola (ma megagalattica) officina automatizzata. Diceva: "la qualità sono io".
Un presuntuoso o il degno figlio di un'onesta civiltà contadina?
Capisco anche - e adesso chiudo davvero - il punto di vista del formatore: propone modelli e strumenti, li corrobora di "best practices" usa invece quelle "bad" quale utile viatico per apprendere dagli errori altrui e poi si scontra con l'inadeguatezza del riscontro operativo.
Dove sta il problema? Non è evidente la differenza che passa tra il proporre modelli e tecniche e conseguire le soluzioni ai problemi?
Saper descrivere i passaggi logici di un processo non significa necessariamente avere la chiave per risolvere il problema sotteso all'implementazione del processo stesso: men che meno, poi, se consideriamo l'intera classe dei problemi reali coerenti con tale percorso logico: ciascuno assolutamente diverso (mi verrebbe da declinare qualche menata del tipo: "il mondo non è matematico" o similari. Beh, ci siamo capiti).
Qua mi sa che l'obbligo di vendere il sapere in un mondo zeppo di venditori fa confondere il marketing (che serve e non può comunque prescindere dal far sfavillare qualche lustrino sotto gli occhi del potenziale acquirente) con i contenuti. La presunzione non sta forse nel pretendere di vendere soluzioni, quando, al più, si possono fornire kit di strumenti tutti da testare e da adattare, e non dal fornitore del kit conoscitivo, ma da chi opera sul campo?

Grazie a chi ha avuto la pazienza di leggere. Ancora di più a chi si imbarcasse in una risposta.

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