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La solitudine dell’uomo moderno e il linguaggio astratto

di Giorgio Ortu 08 Febbraio 2016

Ho detto altrove che il linguaggio astratto che parliamo ci isola dal Reale, ce lo rende estraneo e lo prendiamo per una res da usare-consumare-distruggere, proprio perché lo sentiamo estraneo a noi, altro da noi: dunque siamo anche violenti, e ciò dipende dagli schemi possessivi-egoisti che, associati a quelli adattativi, tendono letteralmente a fagocitare il reale: il linguaggio astratto non fa che prendere atto di uno stato di cose già predisposto dagli schemi. Il linguaggio astratto è il “Notaio” dell’atto pubblico con cui gli schemi classificano e selezionano “oggetti” inesistenti in se stessi dal magma del reale. C’è una menzogna all’origine, ma questa menzogna ci ha dato la scienza e l’arte, anche se oggi ne siamo intrappolati.
Era inevitabile che la nascita del soggetto con l’Umanesimo-Rinascimento approdasse dopo qualche secolo a produrre un uomo solo e isolato dal contesto sociale più vasto. Fiumi, oceani di inchiostro sono stati versati per descrivere la solitudine e la tragedia dell’uomo moderno. A un primo sguardo sembra che l’uomo moderno sia solo con se stesso, perché ciò che prima gli consentiva di sopportare l’estraneità del mondo a sé, vale a dire il supporto della comunità sociale più vasta, oggi, con la modernità, è andato perso: non esiste più alcuna comunità sociale, tutto si è disgregato, è rimasta solo una devastazione drammatica nel mondo umano. -E allora sbagliava Pasolini ad avere nostalgia del mondo contadino che, a suo dire, era puro e incontaminato dai valori squallidi piccolo-borghesi, appunto perché la devastazione nasce con la nascita del mondo moderno, con l’apparizione del Soggetto, individuo liberato dai vincoli che lo legavano alla comunità, che pure lo limitavano, ma anche lo coprivano e difendevano dalla terribile oscurità di un mondo oggettivo, estraneo a causa del linguaggio astratto.
Ma bisognava passare attraverso una tale landa desolata, che Freud, già nella prima metà del Novecento ci ha mostrato in tutta la sua drammaticità. E dico che si è trattato di un passaggio necessario perché l’Uomo conoscesse veramente gli abissi della sua mente, e di qui ripartisse per costruire un mondo nuovo. Infatti, c’è un gran fermento di idee in tutto il mondo, soprattutto in Occidente, che sono il segno di una progressiva presa di coscienza della assoluta necessità che il tempo per una svolta decisiva nella storia dell’umanità è ormai giunto.
Ma guardando più a fondo appare uno stato di cose ancor più drammatico. Oggi l’individuo a causa della sua dispersione sociale è costretto a proiettarsi all’esterno, si aliena nell’oggettività (“alienazione” classica hegelo-marxiana), e quindi perde il contatto con se stesso .Tutto ciò implica una crisi di identità, o, peggio ancora, un’assenza di identità. Nascono così le molte forme di identità sostitutive, fondate tutte sull’esteriorità, sull’idea di “apparire”: appaio dunque sono! Manca un rapporto sano ed empatico con la società, cosa che invece nel mondo antico era ben consistente (Platone ci dice che la parola “mantica” ha la stessa origine della “mania”: dunque la divinazione è strettamente associata alla follia, e la follia in quel mondo non era qualcosa su cui erigere uno stigma, ma era perfettamente inglobata nel contesto del tessuto sociale, e il “folle” era anzi uno “visitato” dal dio, quindi da tenere in grande considerazione).
Ma questa oscura identità dell’individuo moderno dovrebbe essere il punto di partenza per una nuova crescita e una nuova creatività. E ciò per la ragione che non solo egli ha “toccato il fondo”, ma soprattutto perché sono stati scoperti finalmente i punti fragili della mente umana: 1) che sono il fatto che i “meccanismi di difesa” (o processi di difesa psicologici), come per esempio la rimozione e la negazione, sono una condanna quando si usano perché col tempo diventano meccanismi di offesa per il soggetto, perché gli aggroviglino l’esistenza, essendo validi solo per la datità immediata della situazione vissuta; 2) che sono il fatto che in condizioni di dispersione sociale dei soggetti, si ripresentano forme primitive di rapportarsi al sociale, cioè i meccanismi di difesa dati dalla Identificazione e dalla Proiezione, che producono un rapporto dell’individuo al mondo del tipo dell’ “incanto”, di una sorta di deleteria “magia” che reintroduce nei soggetti comportamenti inconsci arcaici. –(Diverso è il caso di persone che si “complicano la vita” con comportamenti contradditori, come per un bisogno inconscio di dare uno sguardo altro alla realtà.)
Di tutto questo si è presa abbastanza coscienza, oggi, nel mondo della globalizzazione e del potere dei mezzi di comunicazione, che noi in Italia abbiamo sperimentato col “ventennio” berlusconiano, ma che pure altri Paesi hanno conosciuto e conoscono. E massimamente ciò è accaduto nel Novecento col nazifascismo, dove l’identificazione e la proiezione avveniva sul “capo”, mentre oggi -pur restando il rischio che quello si ripeta- queste si realizzano più banalmente, ma non meno pericolosamente, sugli oggetti d’uso o su individui determinati su cui si proiettano le frustrazioni di una vita. Insomma, se non cessano le identificazioni e le proiezioni, se non si insegna alle persone ad affrontare le difficoltà della vita senza “rimozioni” o “negazioni”, non si cresce, e la società continuerà a essere un’accozzaglia di individui irrelati e sempre più deboli.

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